Youth - La giovinezza di Paolo Sorrentino
con Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda
Nuovamente fuori dal festival di Cannes senza premi, ma stavolta con la buona compagnia de Il racconto dei racconti di Matteo Garrone e Mia madre di Nanni Moretti, anch’essi usciti dalla kermesse a mani vuote, il novello premio Oscar Paolo Sorrentino esce dalle strade della Roma decadente de La grande bellezza per calarsi nei panni di un direttore d’orchestra britannico in Youth – La giovinezza, dedicato ad un altro grande regista napoletano, recentemente scomparso, il Francesco Rosi di Le mani sulla città, Uomini contro e Il caso Mattei.
Fred Ballinger (M. Caine) è un celebre compositore e direttore d’orchestra inglese allontanatosi ormai da tempo dalle scene. Trascorre il suo ritiro estivo in un lussuoso albergo svizzero, dove le giornate sono scandite dagli incontri con la figlia Lena (R. Weisz) e dalle passeggiate con l’amico Mick (H. Keitel), regista al lavoro con un gruppo di giovani sceneggiatori sul suo ultimo film, testamento della propria carriera cinematografica, che avrà per protagonista la sua musa Brenda Morel (J. Fonda). Raggiunto da un emissario della regina Elisabetta, che lo vorrebbe convincere a tornare a dirigere le sue Canzoni semplici in occasione del compleanno del Principe Filippo, Fred declina risolutamente l’invito per ragioni personali che non vuole spiegare.
«Grazie alle mie fonti di ispirazione. Federico Fellini, Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona», aveva detto Sorrentino ritirando l’Oscar al miglior film straniero. Dopo aver fatto suonare i Talking Heads in This Must Be The Place e intriso di Fellini La grande bellezza, in Youth il regista napoletano fa palleggiare Maradona. Manca soltanto Scorsese, in un cinema che continua a mescolare le carte della finzione con quelle della realtà, dalla pop star britannica Paloma Faith al soprano coreano Sumi Jo, persone fatte personaggi di questa sua settima pellicola di cui torna unico autore, dopo le ultime due prove firmate a quattro mani con Umberto Contarello. Con La grande bellezza, per i suoi formalismi ma anche per il suo approccio pop, Sorrentino si è attirato critiche aspre, che Youth acuisce. A favore dei suoi detrattori c’è l’odore stantio di alcune scelte narrative, prima su tutte quella dell’eterno cliché dell’artista smarrito – dal cantante in crisi di This Must Be The Place allo scrittore fermo al primo romanzo de La grande bellezza fino al direttore d’orchestra che non vuole più dirigere di Youth –, che si accompagnano all’uso gratuito di frasi ad effetto come “Le persone o sono belle o sono brutte, in mezzo ci sono soltanto i carini”, gettate in bocca agli attori in maniera totalmente svincolata dal contesto. A questo, si aggiunge persino il neo di almeno una scena mal girata (quella in cui il regista Mick rivede sull’erba di un colle tutti i personaggi femminili dei suoi film), in cui l’idea funziona meglio sulla carta che sullo schermo e dove non riesce neanche il brillante lavoro di Cristiano Travaglioli, montatore di Sorrentino fin da Il divo, che con il suo tocco intelligente interviene spesso ad armonizzare lo stile irregolare del regista napoletano.
Ma nonostante la rimproverata pretenziosità e i movimenti di macchina spesso ritenuti superflui, neanche i più forti detrattori, neanche chi parla tanto di “film sbagliato” (come se ci fossero film più giusti di altri) può negare l’inventiva di un montaggio che sorprende e spiazza ad ogni stacco, la capacità di Sorrentino di mettere in scena sequenze iconiche – il concerto di Fred con i tronchi degli alberi e i campanacci delle mucche, Mick che mostra ai giovani sceneggiatori le prospettive della vita con il binocolo panoramico –, l’eleganza della scrittura scenica e, seppure con qualche eccesso, dei dialoghi. Lo sguardo unico di Sorrentino, ottavo regista italiano a ricevere il premio Oscar per il miglior film con De Sica, Fellini, Bertolucci, Petri, Tornatore, Salvatores e Benigni, si traduce nell’ampiezza del respiro del suo cinema e dei suoi personaggi e nella silenziosa potenza delle sue atmosfere rarefatte, in armonia con le luci di Luca Bigazzi e con le scelte musicali del compositore statunitense David Lang – già incluso nella colonna sonora de La grande bellezza con I lie, ma stavolta curatore e autore delle musiche, tra cui le Simple songs dello stesso Fred Ballinger. Su tutte le composizioni, compresa Ceiling Gazing di Mark Kozelek e Jimmy Lavalle e la suggestiva cover di You’ve Got the Love interpretata dai The Retrosettes che apre la pellicola, spicca la meravigliosa Just (After Song of Songs), ricorrente contrappunto sonoro del film, dove un coro accompagnato da archi si alterna a singole note di pianoforte, che come gocce d’acqua cadono costanti nel flusso di immagini di Youth – La giovinezza. Una giovinezza che le inesorabili gocce del tempo hanno lentamente eroso dai corpi dei protagonisti, scavati e indagati nelle profondità delle loro rughe, ironicamente privandoli, nella vecchiaia, persino delle poche gocce della pisciata giornaliera.
«Dimenticatemi, digli così. Sono in pensione. Dal lavoro e dalla vita», risponde Fred Ballinger alla figlia stanco delle continue pressioni dei francesi per una sua autobiografia, imprigionato nel ricordo di una moglie che non ha più al suo fianco, mentre l’amico Mick è alla continua ricerca di un finale per il suo film. I due camminano, si confidano le frustrazioni quotidiane che l’invecchiare porta con sé, scommettono sui comportamenti degli altri ospiti, “si raccontano solo le cose belle” in un onesto rapporto tra anziani speculare a quello che Fred ha col giovane attore Jimmy, interpretato da Paul Dano, anch'egli ospite dell’albergo. Un’amicizia fatta di sottintesi e di emozioni tenute a freno, di verità omesse e di sincerità trasmessa da sguardi complici a cui la regia partecipa, dalle parole dell’ultimo dialogo tra i due amici alla raffinata sobrietà con cui il suicidio di Mick è descritto, dal brutale incontro tra il regista e la sua musa al discorso tra il dottore e Fred, che sorride malinconico attraverso le grate della gabbia per uccelli al ricordo dell’amico. Ancora una volta Sorrentino anima il film, e l’albergo (una versione fisica e delimitata del suo universo narrativo), di personaggi unici, ognuno con una storia muta e incompleta – la giovane massaggiatrice, la silenziosa coppia al ristorante, il bizzarro alpinista –, come lo erano i personaggi dell’albergo de Le conseguenze dell’amore. Le spezzate note di violino che echeggiano nei corridoi dell’albergo svizzero, il ritmo scandito con la carta rossa di una caramella: tutto il cinema di Sorrentino è il racconto alternato di storie intime di grandi uomini e di grandi storie di semplici figuranti, di un’umanità che ha valore nei piccoli gesti incompresi, nei rapporti distanti, negli sguardi di due sconosciuti di cui mai sapremo la storia. «Non fa nessuna differenza!», grida Mick ai suoi giovani sceneggiatori, «Uomini, artisti, animali, piante! Siamo soltanto comparse».
E per tutto quelli che, al di là del gusto personale, dubitano del valore di Sorrentino, bastino le parole di Sir Michael Caine, un attore che sa scegliere con cura i registi con cui lavora (tra i registi che lo hanno diretto nella sua lunga carriera si leggono i nomi di Preminger, De Sica, Mankiewicz, Siegel, Huston, De Palma, Lumet, Allen, Bogdanovich e Nolan, soltanto per citarne alcuni), alla conferenza stampa di Youth al festival di Cannes: «Venni a Cannes cinquant’anni fa con un film dal titolo Alfie. E Alfie vinse un premio e io no, perciò non sono più tornato», ha detto l’attore britannico scherzando sulla sua lunga assenza dal festival, «ma stavolta, amo questo film così tanto che lo seguirei ovunque senza avere niente in cambio. Non mi importa se vinco un premio oppure no, amo questo film e credo che Paolo sia uno dei più grandi registi al mondo».
«Hai detto che le emozioni sono sopravvalutate, ma è una stronzata.
Le emozioni sono tutto quello che abbiamo»
ITA-FRA-SVIZZ.-UK 2015 – Dramm. 118’ ★★★½
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