You | Amore e ossessione al tempo dei social
Il sottile confine tra social network, psicopatia e letteratura nella serie You, distribuita in Italia da Netflix
Concetto strano, la dipendenza: da sostanze, da comportamenti, da persone. A proposito della tossicodipendenza lo scienziato Alan Leshner dice che alcune sostanze fanno scattare un «interruttore metaforico del cervello» che spinge al bisogno e alla ricerca compulsiva: spiegazione clinica che non può però essere estesa a ogni dipendenza, poiché in molti casi si è dimostrata la forte componente psicologica e sociale.
Patologica esasperazione dell’abitudine (qual è la soglia della patologia?), la dipendenza è intrinsecamente legata al piacere, altro concetto strano: perché dipendiamo da ciò che ci fa stare bene, la dopamina eccetera, ma spesso anche da ciò che ci fa, semplicemente, stare. Abbassare gli interruttori metaforici; non tutti. Restare in penombra, che siamo pure più fotogenici. Insomma, considerate alcune dipendenze, verrebbe quasi da ridefinire il piacere, e infatti io You, la serie americana distribuita internazionalmente da Netflix dal 26 dicembre 2018, l’ho guardata tutta d’un fiato, anche se non posso dire che sia un capolavoro né di certo che mi abbia fatto star bene. Più o meno come quando apro e scrollo Facebook per dieci minuti e non mi piace né mi fa star bene, eppure. Ne esco quindi con tre motivi, tre spunti di riflessione, per cui tutto sommato You è una serie che va guardata.
Basata sull’omonimo romanzo di Caroline Kepnes (2014), You è la storia di un giovane libraio newyorkese, Joe Goldberg (Penn Badgley, il Dan di Gossip Girl), che si innamora di una cliente, Guinevere Beck (Elizabeth Lail, perfetta nel ruolo tanto quanto Badgley). Il classico “ragazzo incontra ragazza”, ma con una variante: ragazzo diventa ossessionato da ragazza, e in un modo così perverso e rigoroso, quasi scientifico, da farci mettere in discussione ogni rosea, romantica, anacronistica aspettativa sul colpo di fulmine. La segue, si impossessa del suo telefono accedendo ai suoi vari profili e conversazioni; fa di tutto per averla, controllarla, ma anche “proteggerla”, incluso far fuori un paio di persone – è questo il grande amore, no? Farei qualsiasi cosa per te.
Joe fa di tutto per averla, controllarla, ma anche “proteggerla”, incluso far fuori un paio di persone – è questo il grande amore, no? Farei qualsiasi cosa per te
Il set del loro primo incontro è la libreria di Joe, una di quelle da sogno con gli scaffali in legno, un seminterrato dove vengono conservate le edizioni rare e lui, libraio carino e disponibile. Lui che ogni sera, sulle scale di casa, trova qualcuno da proteggere davvero: il piccolo Paco (Luca Padovan), che assiste impotente alle liti violente tra la madre e il fidanzato tossico e nel frattempo divora libri.
Guinevere «tutti-mi-chiamano-Beck» è attraente, leggera, vive al di sopra delle proprie possibilità, fatta eccezione per le amicizie discutibili, ma col tocco vagamente intellettuale da studentessa e aspirante scrittrice. Geniale il titolo del suo acquisto: Desperate Characters. Sul bancomat c’è scritto il suo nome, ed è un attimo: un nome e un cognome oggi danno accesso a una quantità di informazioni spaventosa. Joe la cerca su Facebook, Twitter, Instagram; l’avrebbe fatto chiunque. Qual è la soglia dello stalking? Ne facciamo tutti un po’.
Il primo motivo per cui You funziona è la sua attualità. Caricaturale, a volte quasi trash, con schizzi di sangue non esattamente gradevoli, riesce tuttavia a inquadrare con intelligenza alcune verità del nostro quotidiano, dalla prassi di postare foto di momenti felici o stati melensi, cancellando ogni traccia di monotonia della vita, all’ingombrante sensazione di conoscere qualcuno che non frequentiamo – chi ci piace, ma anche chi detestiamo, ancora più spesso chi invidiamo – attraverso i loro profili social, con tutti gli equivoci, semplificazioni e gaffe che questo comporta. Guai però a definirli falsi, i social: le informazioni che condividiamo sono vere (attenzione quindi alla via di casa troppo riconoscibile in foto), è il modo in cui le presentiamo ad alterare la versione dei fatti, illuminandola come un filtro Clarendon. Ancora: la nostra condotta social dice moltissimo della nostra personalità; l’esibizionista, il voyeur, il neo-single, tutti smascherati e prevedibili in questa realtà che non è posticcia né ormai più tanto parallela. È una realtà come un’altra, parte integrante delle nostre vite – ma appunto, soltanto una parte.
E qui veniamo al secondo motivo d’interesse di You: lo sguardo. La serie, più che vederla, ci viene raccontata. La voce di Joe non è quella del narratore onnisciente, ma neanche una prima persona fuori campo: sull’io, come si evince dal titolo, prevale il tu. Non abbiamo di fronte degli eventi ai quali il protagonista reagisce spinto da motivazioni interne, bensì una lettura della realtà che il protagonista ci impone. Joe ci racconta Beck come rivolgendosi a lei in seconda persona, le parla mentre la spia. L’ironia è che il racconto che Joe costruisce, ripercorrendo tutte le tracce social che Beck lascia inguaribilmente dietro di sé, finisce per diventare il motore stesso dell’azione. Il fatto che Joe si convinca, e ci convinca, di una cosa è come farla succedere. È un gioco perverso, e tanto più lo diventa nel momento in cui ci ritroviamo a stare dalla parte di Joe – stalker, psicopatico, assassino: palese è la sua instabilità, la sua malattia, e quindi anche la sua sofferenza. Mettiamo in dubbio la sua scala di valori, ma non la sua logica; empatizziamo, addirittura, con l’eroe-mostro, e il solo fatto di porci delle domande su di lui, di soppesarne la moralità, è indice del fatto che lo riteniamo umano. Siamo con Joe – perché lui parla, lui è l’unico che vediamo realmente. Diverso il caso di Beck. Beck è in vetrina, è un profilo Instagram, una bacheca Facebook. Beck è una ragazza normale, con i suoi problemi, debolezze, leggerezze – se dovessimo dedicarle un sentimento sarebbe forse la compassione –, eppure da spettatori tendiamo a schierarci contro di lei, la giudichiamo, è frivola, falsa, se l’è cercata. Questo perché, mentre iper-analizziamo le vite altrui da dietro gli schermi, illudendoci di conoscere qualcuno, finiamo per perdere il contatto umano. Sforniamo etichette senza empatia, ricerchiamo il consenso quando consenso non vorremmo mai darne, sottoponiamo gli altri a un continuo confronto con noi stessi ed è un confronto in cui non possiamo perdere perché siamo noi a dettarne le regole. Ci sono io dietro lo schermo, mai un tu, che parlo per me e per te e qualsiasi cosa dirai potrà essere utilizzata contro di te o – viva la paranoia – sarà fraintesa.
Sforniamo etichette senza empatia, ricerchiamo il consenso quando consenso non vorremmo mai darne, sottoponiamo gli altri a un continuo confronto con noi stessi ed è un confronto in cui non possiamo perdere perché siamo noi a dettarne le regole
A proposito di sguardo, va detto che tutto questo richiede un occhio molto attento. Ci fissiamo sui dettagli, certi di non essere a nostra volta visti, cercando di ricondurre ogni particolare a uno schema che abbiamo in testa. Joe ha uno sguardo allenato e ci regala chicche anche dalla sua postazione di libraio: resta impressa dal primo episodio la predizione azzeccata sul cliente che, agguantato in un attimo il suo Dan Brown, si dà a un molleggiamento finto casual tra gli scaffali per poter trovare almeno un altro titolo da presentare in cassa.
A fronte del grande spirito d’osservazione di Joe, la grande disattenzione di Beck, incapace di leggere (ma è davvero così?) le reali intenzioni del proprio professore o delle amiche. Di sicuro non sembra farsi troppe domande su Joe neanche quando lo incontra “per caso” nei posti più improbabili, e che al nostro Joe basti un basco per rendersi irriconoscibile in pubblico ci indigna tanto quanto la gente che non vede Superman dietro gli occhiali di Clark Kent. Ma ci dice anche che forse ci sono tante cose che ci sfuggono, intenti come siamo a guardare in basso, verso lo smartphone, e mai intorno. Dettagli senza visione d’insieme, ipercriticità senza senso critico: altro paradosso di questi tempi di social network e informazione rapida, in cui manie e pregiudizi ci allontanano da ciò che conta davvero. Ma cos’è che conta?
Il terzo elemento che giustifica la visione ossessiva di You è la dimensione del racconto. Si è detto, attribuendolo ai social, dello scarto tra la realtà e il racconto (di noi) che offriamo agli altri, quello (del mondo) che facciamo a noi stessi. Mossa vincente della serie è sovrapporre un’ulteriore lente deformante, affidando la narrazione a un personaggio che, come Joe, non è solo vittima dei tempi che corrono ma anche della propria psicopatia. Ed è qui la chiave: ciò che è alterato nella percezione di Joe somiglia molto alla percezione social. Egocentrismo, propensione all’inganno, scarsa empatia fino all’aggressività, incapacità di legarsi o provare emozioni vere; il tutto mentre si appare perfettamente normali. Proprio lì dove si assottiglia il confine tra la malattia mentale e i nostri gesti ormai più abituali, ecco che si apre il varco di un’ulteriore domanda, una domanda che riguarda la necessità del racconto. La stessa Beck, l’ordinaria frivola Beck, ha – lo scopriamo dopo qualche episodio – tutta una storia che racconta a sé stessa per gestire il proprio rapporto col padre. Malattia anche questa? O semplice spirito di sopravvivenza?
Frutto più o meno conscio di un costante lavorio di rimozione e rielaborazione, la realtà non è mai #nofilter. Ce la stiamo sempre raccontando
E allora, mentre siamo catturati da una storia banale con personaggi un po’ piatti – per quanto parlino con battute ben scritte –, la riflessione ultima e destabilizzante è proprio questa: frutto più o meno conscio di un costante lavorio di rimozione e rielaborazione, la realtà non è mai #nofilter. Ce la stiamo sempre raccontando.
Nelle sequenze finali, con Beck rinchiusa nel seminterrato dei libri rari, è interessante il collegamento tra la rilettura dei fatti e il presunto potere catartico della scrittura. Col rischio di sovrinterpretare, non sarà un caso se Joe fa proprio il libraio. Non c’è solo lo smaccato contrasto tra volumi polverosi e cellulari, frasi altisonanti e tweet, vecchio e nuovo. C’è la letteratura come grande finzione, racconto che si fa rifugio, racconto che si fa morale. Tra i libri che Joe presta al piccolo Paco: Il conte di Montecristo e Frankenstein, la vendetta e il mostro.
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