Wong Kar Wai Orient Express
Il viaggio del regista cinese alla ricerca di un’identità divisa tra Oriente e Occidente
«Era solo una storia ma l’avevo intessuta delle mie esperienze e delle mie fantasie», queste le parole pronunciate dal protagonista di 2046, un giornalista e scrittore le cui parole possono rappresentare l’universale sentire di un autore la cui opera scaturisce da se stesso come fa Kar Wai.
Cosa vuol dire Cinema d’autore? È quel cinema che rispecchia la personalità, le idee, l’estro di un autore, quel cinema che impone una maggiore attenzione al pubblico, un cinema svincolato dalle logiche del mercato e di cui il suo autore spesso segue tutte le fasi come fosse una creatura che nasce, cresce dalla sua mente, dalle viscere, dal più profondo del suo io. Wong Kar Wai lo sa, e lascia la sua firma marchiata a fuoco in ogni sua pellicola, che è un viaggio alla scoperta di se stesso.
Il cinema per Kar Wai diviene un prolungamento di sé, una scatola nera che registra ogni piccolo passo, pensiero, storia, esperienza che gli accade. Il suo è un modus vivendi cinematografico, non riesce a non pensare, fotografare la realtà e il se stesso nella realtà come soggetti filmici. È un modo profondo di affrontare e addentrarsi in se stessi invitando al viaggio lo spettatore che viene travolto dalla scrittura, dalle immagini plastiche, dai forti colori, dalle sue storie così intense. Attraverso queste storie ci racconta il suo paese e il suo rapporto con esso, che si divide tra Oriente e Occidente, quell’Oriente globalizzato del Giappone in cui si trasferì da piccolo dalla Cina, e in cui dovette confrontarsi con una cultura e una lingua diversa. Tradizione e innovazione vivono nell’animo di questo artista afflitto da una malinconia che lo lascia sospeso, a metà come l’identità della sua terra a cui ogni volta cerca di dare un volto. Affascinato anche da terre lontane come l’America di Douglas Sirk ne utilizza la cultura, l’estetica. Innovatore e sperimentatore si allontana e si avvicina al modo di rappresentare orientale delle storie, abbracciandone quel senso di sospensione, quasi distaccato. Frenesia e raccoglimento, i due volti dell’Oriente che mette in scena con gli assordanti rumori e gli infiniti silenzi, il continuo muoversi dei personaggi o delle città motorizzate e la staticità dei ricordi, dei sentimenti che non cambiano in un tempo passato e presente che sempre si viene a confondere e si raccoglie in un futuro sospeso.
Noi spettatori, scortati ogni volta da un mezzo diverso, vaghiamo per la confusione delle stradine di Hong Kong come in Hong Kong Express, che nel ‘94 attirò l’occhio del pubblico internazionale su Kar Wai, per rifugiarci nella piccola casa del protagonista di una delle due strambe storie d’amore narrate. Una casa adiacente all’aeroporto e da cui si vive e vede il via vai frenetico della gente che parte. Le due storie d’amore s’incontrano per poco e si sviluppano freneticamente lungo la mappa di una città dispersiva e claustrofobica. Accompagniamo l’autore nel suo work in progress e i personaggi alienati, ossessionati da amori perduti e confusi dal ralenti e dai grandangoli, dalle scene girate camera a mano come se ci trovassimo in un videogioco, stremati dall’invasiva musica rock e abbandonati ai ricordi dei protagonisti come se ci appartenessero.
In In the Mood For Love ci troviamo nelle stesse strade hongkonghesi ma trent’anni prima, siamo nel 1962, la città ha un sapore europeo nei suoi abiti maschili giacca e cravatta e nell’arredamento così ricercato e moderno. Hong Kong nelle sue diversità e nella sua già accennata modernità cela un mondo nascosto che è quello dei sentimenti e di una cultura del rispetto, e un sentimento di frustrazione e di colpa non solo nei confronti dei morti ma anche nei confronti dei vivi. Tra tende che si muovono, porte che si aprono e si chiudono, treni da prendere si snoda la storia d’amore intensa e mai consumata tra i due protagonisti che, nutrendo un rispetto eccessivo nei confronti delle convenzioni, in questo caso i loro matrimoni, non si uniranno mai nonostante il tradimento dei rispettivi coniugi, scappati insieme. Anche qui la tradizione e l’innovazione si incontrano: il melodramma cinese incontra la cultura occidentale nelle musiche spagnoleggianti, nei forti colori, nel modo di coinvolgere lo spettatore immergendolo inevitabilmente per lasciarlo bagnato delle lacrime dei ricordi, di ciò che non è stato. Incontra anche la storia, perché la domanda del sottotesto delle opere di Kar Wai è sempre la stessa: quale sarà il futuro di Hong Kong. Negli anni ’60 diviene centro di un via vai di gente intenta a scappare dall’ondata violenta del comunismo di Mao che la tradizione vuole soppiantare a favore di una modernità che negli anni ’90 assumerà il confusionario volto della globalizzazione, e che solo nel 2046 tornerà sotto l’amministrazione cinese. Un futuro felice ma che ora vive un presente, il 1966 anno in cui il film 2046 realmente è ambientato, che rimanda ad un passato a cui si vuole tornare. Passato, presente e futuro in cui si snodano le avventure amorose del protagonista, quasi lo stesso scrittore-giornalista di In the Mood For Love che cerca disperatamente di liberarsi da un passato e dall’unica donna che ha amato senza riuscirci. Prova a cercarla in quel treno che porta verso il 2046 che rappresenta un anno, la camera di un albergo, un romanzo di fantascienza in cui il protagonista sale per trovare i suoi ricordi perduti.
I personaggi dei film di Kar Wai sono intrappolati in un passato che non lascia scampo al presente e che al futuro vede come ad un idilliaco momento felice in cui il passato si trasforma, perché indietro non si può tornare ed è forse questa la speranza che il regista serba, la speranza di un domani florido e felice per la sua Hong Kong che sospesa cresce a dismisura nell’infinita malinconia.
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