Vivere con la cultura
Deplorazione dello spreco delle risorse culturali e dei piagnistei
“Con la cultura non si mangia”. Almeno secondo Tremonti, ai tempi di una delle sue tanto amate Finanziarie, quelle delle sforbiciate disinvolte e insensate. “La cultura è il petrolio dell’Italia”. Almeno secondo Vendola, entro i centoquaranta caratteri di un tweet, in ottica elettorale. E stai a vedere che questa volta ha ragione Nichi. Certo, il paragone con il greggio può sembrare inappropriato. Un po’ rozzo, grossolano. Eppure lucidissimo, se parliamo del Paese che può vantare il maggior numero di siti tutelati dall’Unesco. Quarantanove. Oltre ad un patrimonio culturale vastissimo, invidiato dal mondo.
Ma questa è l’Italia, signori. Nel momento in cui la situazione economica peggiora quasi quotidianamente, se i beni culturali possono diventare una risorsa – e la letteratura, su questo, è assai esaustiva – , un Paese normale investirebbe su di essa. E se questo Paese fosse l’Italia, il giro d’affari sarebbe enorme. Tanto da dare sollievo almeno ad un ampio settore, quello turistico. Invece, stando all’ultimo rapporto di Federculture, tra i tanti segni negativi, ne spicca uno in particolare: in un anno i musei statali hanno visto calare il numero dei visitatori del dieci percento. Questa, in fondo, non è che un’ulteriore conferma della disfatta italiana anche sul fronte della cultura.
Non è una situazione di emergenza, giacché – come un qualsiasi buon vocabolario insegna – l’emergenza è, per definizione, improvvisa e transeunte. Qui, piuttosto, si tratta di normalità. Lo stato di emergenza presumibilmente ha favorito a Pompei la cementificazione del Teatro Grande, ai tempi di Bertolaso. E basta. Il problema sta alla base. Annoso, come tutti i problemi italiani. Non è sufficiente avere il Colosseo, simbolo di Roma e del Belpaese nel mondo, se poi l’ultimo restauro organico risale al 1939. Non basta nemmeno avere Pompei ed Ercolano, impareggiabile testimonianza storica, se si susseguono i crolli, e buona parte dei siti è inagibile, o in attesa di interventi, spesso aggraziati e disinvolti quanto quelli di Evans o Schliemann a Creta. Non può bastare disporre di un patrimonio culturale dal valore inestimabile e pretendere ottusamente che possa conservarsi grazie alla Provvidenza. È chiaro, allora, che la tutela e la promozione del territorio e delle ricchezze culturali debba essere attiva, e non meramente burocratica. In sostanza, c’è bisogno di un nuovo modo di concepire la salvaguardia dei beni culturali italiani.
Il solo accennare a una revisione dei criteri di tutela del patrimonio culturale, tuttavia, può essere letale. Basta un radical-chic dotato di modeste capacità retoriche per sentirsi vomitare un’ingenua ma convinta apologia della cultura così com’è, fatta di sprechi e di incompetenza. La polemica si dipana seguendo una specie di canovaccio comune ad ogni buon presunto paladino della cultura per tutti. L’esordio non può che basarsi sulla scarsità di finanziamenti dello Stato. Seguono invettive generiche contro tagli non meglio specificati. Un tocco di raffinatezza: qualche riferimento alla Costituzione. Poi, il governo Berlusconi, artefice di ogni male – perché ci sta sempre bene. Immancabile la querimonia circa la carenza di archeologi, custodi, restauratori, uscieri, storici e persino della carta igienica. Per concludere, infine, come in una ringkomposition che si rispetti, rimarcando la penuria di finanziamenti. Così il dibattito prosegue sterile, senza veri intenti di miglioramento, senza la capacità di discutere e porre in essere un nuovo piano nazionale per il settore dei beni culturali.
Il lamento indistinto accomuna quasi tutti: musei, fondazioni liriche, teatri, cinema, scuole di musica. Tutti alla disperata ricerca del finanziamento pubblico. Ciascuno pronto ad addurre le proprie ragioni per sostenere convintamente l’imprescindibilità dell’ente di cui è parte. Nessuno in grado di ammettere che forse è giunto il momento di razionalizzare le spese. Non tagliare, ma razionalizzare. Adottare nuovi criteri di spesa e di gestione. Ciò non significa spendere meno, quanto piuttosto spendere meglio. Distribuire commisuratamente al valore culturale le risorse, secondo un piano di investimento equilibrato, sarebbe già un inizio accettabile. Ma è radicata la convinzione che un buon museo sia quello che ha i conti in rosso. Che la qualità dell’offerta culturale sia direttamente proporzionale all’indebitamento. No, assolutamente. Non è così. Almeno, non dovrebbe esserlo più.
Checché accada all’estero, il nostro Paese è l’Italia. Le condizioni in cui le finanze versano sono ben note. Allora, che senso ha continuare a pretendere capricciosamente finanziamenti che non possono più essere quelli dell’età dell’oro? Tra i benpensanti della cultura con il mito della fruizione pubblica, l’idea che un privato concorra alla tutela e alla promozione del patrimonio artistico italiano desta scandalo, immediatamente. Prima ancora di definirne le modalità. Con questa forte convinzione atavica e aprioristica, infatti, si è pensato di poter gestire il settore dei beni culturali fino ad oggi. Sottovalutando colpevolmente il potenziale economico delle risorse culturali del nostro Paese. È anacronistico sostenere che la cultura non deve essere fonte di guadagno per uno Stato. Perché non potrebbe esserlo?
Dinanzi alle notizie sul tema della tutela del patrimonio culturale, che lasciano basiti, e a fronte dei richiami dell’Unesco, che suonano come degli ultimatum, è chiaro che urge una soluzione. Una soluzione che apra le porte anche ai privati, e ad una nuova concezione della promozione delle nostre risorse, che sappia stare al passo con i tempi. Una visione che garantisca un’offerta ampia ai visitatori del nostro Paese. Ciò significa logiche di gestione dei beni culturali migliori, ma anche un efficiente trasporto pubblico e la possibilità di gustarsi un gelato a costi contenuti. Anche questo è fondamentale per il rilancio della cultura, benché possa non piacere. Basta appena un poco di buona volontà, e il nostro patrimonio culturale potrebbe essere di nuovo valorizzato, e conservato al meglio. E forse Bray potrebbe essere il nostro Epicuro effringere ut arta primusportarum claustra. La possibilità di esportare nei musei esteri per un periodo di tempo determinato le opere non esposte in Italia, come indicato nel decreto del fare dell’esecutivo Letta, potrebbe essere un primo passo.
Tra i privati, comunque, un primo tentativo c’è stato, piuttosto echeggiato dai media. È stato quello di Della Valle, con la proposta di offrire venticinque milioni di Euro per il restauro dell’Anfiteatro simbolo di Roma e dell’Italia nel mondo, in cambio della concessione dell’esclusiva sull’immagine dello stesso per quindici anni. Nonostante questo, la proposta sarebbe risultata conveniente per il governo. Le lungaggini burocratiche e le insidie pronte a falcidiare i finanziamenti privati, però, sono sempre in agguato. Oltre ai malumori delle forze politiche di sinistra, ci si è messo di mezzo il Codacons. L’accusa mossa è quella sulla presunta illegittimità dell’affidamento del restauro alla Tod’s. Nell’attesa, il Colosseo rimane in condizioni piuttosto precarie.
Affidarsi ad un privato per la tutela del patrimonio artistico, o permettere che concorra al suo mantenimento, tuttavia, non equivale a svendere. Ciononostante, all’estremo ci sono iniziative come quella approvata dal comune di Firenze di recente, con la chiusura totale del Ponte Vecchio per una notte, per immolarlo alla cena della Ferrari Cavalcade 2013. Senza alcun preavviso. Per centomila Euro cash, più ventimila per opere di restauro di un monumento, almeno stando alle fonti ufficiali. Ma non è finita: per due consiglieri di opposizione, Grassi e De Zordo, le autorizzazioni per la chiusura del Ponte sarebbero giunte solo il giorno successivo alla manifestazione. Inoltre, avrebbero imposto agli organizzatori di lasciare uno spazio per il transito. Eppure, chiusura totale. Senza che si considerasse minimamente l’ingente danno di immagine provocato alla città e all’indotto del turismo con la chiusura totale di un luogo simbolo di Firenze, lasciandosi piuttosto obnubilare la mente dai soldi facili nelle casse comunali in tempi di magra.
E il danno di immagine è anche quello del Venerdì nero della cultura. 28 Giugno 2013. Pantheon, Colosseo, Pinacoteca di Brera, Scavi di Pompei ed Ercolano, Galleria degli Uffizi, Galleria dell’Accademia, Castel Sant’Angelo, Galleria Barberini chiusi. Sbarrati per scioperi o assemblee sindacali. Turisti increduli, infuriati. Pur non mettendo in discussione il diritto di sciopero e tutte le buone ragioni del personale in agitazione, forse si è esagerato. È stato solo un modo plateale di infierire ancora su un moribondo, con la scusa di chiedere aiuto.
Cosa aspettarsi, allora, da questo Paese? Forse mani ottuse potranno continuare a deturpare il patrimonio culturale che ci è stato concesso? Probabilmente sì. In assenza di un progetto definito a livello nazionale, non c’è di meglio da aspettarsi.
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