Violenza e vendetta
Come il rape & revenge racconta la visione della donna nei decenni, dal cinema di Meir Zarchi a quello di Oplev e Craven
Un corpo fragile e indomabile, una donna minuta e tostissima, è questo Lisbeth Salander, l’hacker informatica protagonista del film Uomini che odiano le donne, adattamento del primo capitolo della serie di romanzi Millennium nata dalla penna di Stieg Larsson, scrittore e giornalista svedese, da sempre impegnato nella lotta contro il razzismo e la violenza sulle donne. Che si tratti della versione di Niels Arden Oplev del 2009 o di quella di David Fincher del 2011, ciò che emerge con prepotenza è l’eroina in perenne guerra contro le istituzioni, contro una società maschilista che umilia, violenta, uccide. Lisbeth è sola al mondo, lotta, nessuno l’ha fatto per lei, è stata riconosciuta incapace di badare a sé stessa ed è affidata a un tutore perché il suo passato, costellato di violenze, ricoveri, perizie psichiatriche, grava come un macigno. Non lotta solo per sé Lisbeth, il film racconta il suo lavoro assieme al giornalista Mikael Blomkvist, con cui risolve casi spinosi, complessi, in cui le vittime sono le donne, immerse in un mondo fallocentrico che sa essere feroce, sadico, violento.
Occhi bistrati, abiti neri, tatuaggi e piercing, la giovane ha un fascino oscuro, un’intelligenza superiore, una personalità complessa. Proprio a causa di quest’ultima vive da sempre affiancata ad un tutore che viene sostituito da Nils Bjurman, un sadico che sfrutta la sua posizione in quanto amministratore dei suoi beni per estorcerle favori sessuali. La storia di Lisbeth, quasi un piccolo affluente nel film, rientra nel sottogenere exploitation del Rape & Revenge (stupro e vendetta), nato negli anni ’70 negli Stati Uniti e diffusosi anche negli altri paesi la cui struttura narrativa si basa prima sullo stupro e poi sulla vendetta da parte della famiglia o della vittima stessa. Questa narrazione racconta metaforicamente anche i cambiamenti storici, sociali, culturali che hanno visto prima la sottomissione e l’umiliazione della donna, rappresentazione della sudditanza in cui vive, poi la sua rinascita, qui metaforizzata dalla vendetta contro i criminali da cui ha subito violenza.
Il rape & revenge racconta metaforicamente anche i cambiamenti storici, sociali, culturali che hanno visto prima la sottomissione della donna e poi la sua rinascita
Il Rape & Revenge è rappresentazione della storia femminile, delle sue lotte e affermazioni, di tutti quei secoli in cui la donna è stata costretta al silenzio, alla prigionia, alla ghettizzazione, e di come ad un certo punto abbia iniziato a dare forma a quel silenzio, riempiendolo di parole, pretendendo un ruolo e una dignità. Il rape diventa esemplificazione del castigo, messo in atto dal maschio per ristabilire, con la forza, la supremazia che le conquiste della donna post ’68 (non a caso il sottogenere è nato negli anni ’70) gli hanno tolto. La donna però non accetta più abusi di nessun tipo e nel revenge c’è proprio questo, il rifiuto di subire ancora, di rinunciare alle libertà conquistate.
Nel Rape & Revenge lo stupro è l’arma con cui il maschio tenta di soggiogare la donna, metterla sotto silenzio, conquista il terreno sessuale per trionfare nuovamente in quello sociale, infatti l’abuso è «un processo cosciente di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura», per dirlo con le parole di Susan Brownmiller nel libro Against Our Will: Men, Women and Rape, uscito nel 1975. Lo stupro è una punizione, sintesi perversa e animale di tutte le violenze e le umiliazioni che colpiscono la donna. In entrambi i film Uomini che odiano le donne la sequenza è breve, poche e limitate inquadrature che feriscono come lame per il loro cupo realismo, poche parole che fanno capire cosa sta per accadere, parte di una grammatica conosciuta – nella versione svedese l’uomo chiude le tende, in quella americana l’uomo si vede ed è viscido, insinuante e malizioso che tocca e guarda – e cosa è accaduto. Il corpo di Bjurman incombe su di lei e l’occhio cinematografico descrive la dialettica forte/debole mostrandoci Lisbeth dall’alto verso il basso: l’uomo la desidera, vuole da lei qualcosa, lei guarda a terra, evitando il suo sguardo, lei cerca di opporre resistenza ma le mani del suo aguzzino la muovono come un giocattolo, vorrebbe resistere ma soccombe. Tutto è costruito per arrivare al sesso orale a cui la ragazza è costretta, il primo atto delle violenze che subirà. Come in I Spit on Your Grave (Meir Zarchi, 1978), caposaldo del genere, lo stupro è una questione politica, gerarchico-sociale. Nel film di Zarchi però gli stupratori soffrono la condizione economica-sociale stagnante in cui versano mentre Jennifer, la protagonista, è figlia della rivoluzione sessuale, femminista, ricca cittadina newyorkese, per tutto questo la puniscono. Qui invece è Lisbeth ad essere in una condizione di sudditanza perché il tutore è in possesso del suo patrimonio e con questo la ricatta. Nella versione di I Spit on Your Grave diretta nel 2010 da Steven R. Monroe al contrario, si rappresenta il maschio che compie il crimine perché si sente svirilizzato dal rifiuto delle proprie avance: sta proprio qui, nella mascolinità in crisi, bisognosa di dimostrare l’inferiorità femminile e dunque il proprio potere, il punto in comune con Uomini che odiano le donne.
Nel secondo stupro tutto si fa ancora più inquietante, Lisbeth torna dal tutore armata di una telecamerina per documentare il possibile sopruso ma non può immaginare ciò che le sta per accadere: viene stordita, legata al letto, imbavagliata, costretta ad un rapporto anale. Se la prima volta è stata remissiva aspettando la fine dell’incubo, questa volta invece si ribella, grida, scalcia. L’uomo nel pieno godimento continua nel perverso gioco di potere ma nulla, dalla luce alla messa in scena, è eroticizzato, si rappresenta solo la più brutale e atroce violenza, tra silenzio (di lui) e urla (di lei).
La ragazza viene picchiata, ridicolizzata, sodomizzata da un uomo che ne ha il diritto, perché lei è di sua proprietà. Bjurman è quel maschio che con gli stupri conferma la supremazia, l’appartenenza ad una società fallocratica, per cui una donna non è nient’altro che un organo sessuale. Lisbeth, soggiacendo alla dialettica maschilista del do ut des, si fa possedere per avere i soldi che sono suoi. Rispetto ad altre storie del Rape & Revenge Lisbeth è cresciuta, lavora, è un’hacker, è coraggiosa, geniale, non gioca con la propria sessualità, eppure viene ridotta a orifizio (boccale, anale), sottomessa al piacere maschile, rimessa “al suo posto”, quello del suo destino biologico: oggetto da possedere, privo di ruolo politico e sociale, da abusare e ricattare.
Finito il calvario, faticando a camminare, turbata e ferita, esce da quella prigione con una sola certezza: vuole vendetta. In molti film di genere la vittima ha bisogno di tempo per riprendersi, trova un posto in cui rintanarsi, leccarsi le ferite, si traveste (Kill Bill, Tarantino, 2003), si costruisce una nuova immagine (Thriller en grym film, Bo Arne Vibenius, 1974), Lisbeth invece, nonostante lo strazio, è già pronta. Come in Revenge (2017) di Coralie Fargeat, una delle poche opere di questo genere dirette da una donna, in cui la protagonista Jennifer dopo essere stata abusata e gettata in un burrone torna e uccide i suoi carnefici, allo stesso modo Lisbeth diventa dea del castigo che si riappropria del proprio corpo, si fa demone ancestrale, vendica ogni ingiustizia e reclama così il potere femminile.
Umanità ferità da un passato cicatriziale, torna come una giustiziera che non uccide indistintamente gli uomini (L’angelo della vendetta, Abel Ferrara, 1981) ma infierisce su colui che l’ha stuprata. Non ci sono amanti (Irréversible, Gaspar Noé, 2002), genitori (L’ultima casa a sinistra, Wes Craven, 1972) che prendano le sue difese, fa tutto da sola. Riappare senza essere invitata da Bjurman, mette in scena ciò che lui le ha fatto, lo stordisce, lo denuda, lo imbavaglia rendendolo spettatore del calvario da lei vissuto mostrandogli la videocassetta con le immagini da lei riprese. Lo sguardo non è più mezzo per ricostruire il dominio maschile sul femminile ma, come in una cura Ludovico, lui guarda ciò che ha compiuto e il piacere non è più contemplato. La vendetta si compie: Bjurman viene sodomizzato con un vibratore. Alle urla di Lisbeth, alle sue lacrime rispondono quelle dell’uomo che prima era carnefice. Alla guisa delle altre vendicatrici, la donna rifiuta la nozione di passività e di fragilità senza però utilizzare la sessualità, tatua l’uomo per fargli portare addosso un’onta perpetua: Io sono uno stupratore (nella versione danese), Io sono un porco, sadico, stupratore (nella versione americana).
Nella vendetta lo sguardo non è più mezzo per ricostruire il dominio maschile sul femminile ma, come in una cura Ludovico, lui guarda ciò che ha compiuto e il piacere non è più contemplato
Questo schema bipartito (stupro e vendetta) si ripete nel Rape & Revenge declinandosi a seconda del periodo, della nazione e della cultura di provenienza: è una radiografia del periodo storico, della società, della condizione femminile e maschile differenti. Ne L’ultima casa a sinistra di Craven, uscito nei primi anni Settanta, Mari viene stuprata e uccisa da un branco di balordi e spetta alla famiglia vendicarla, questo perché il percorso della donna è ancora agli inizi, non ha tutti gli strumenti per salvarsi da sola. La Jennifer di Zarchi invece, figlia della fine degli anni Settanta, ha compiuto un passo in più nella sua evoluzione, è una donna matura che non ha la necessità di essere aiutata da altri e può regolare i suoi conti senza il sostegno altrui. In L’angelo della vendetta, diretto da Ferrara nel 1981, Thana è una sordomuta e come tale rappresenta il silenzio in cui per molto tempo la figura femminile è vissuta e i ripetuti stupri che mettono in moto la sua ribellione: indossa abiti di pelle e rossetto rosso, armi con cui vuole sedurre, e decide vendicarsi di tutti gli uomini che incontra. Le sfumature e le letture cambiano, il dramma è lo stesso, e a fare da filo rosso tra i vari film sono le donne che si rialzano e lottano dopo essere state schiacciate da uno o più maschi in un gioco di potere e di sopraffazione. Lisbeth è una delle tante ma non è una sprovveduta, non è la ragazzina data in pasto al mondo né una che muove i primi passi nella rivoluzione femminista, il suo calvario è semplicemente figlio dell’epoca in cui vive. È una ribelle moderna che porta su di sé il lungo percorso compiuto da coloro che l’hanno preceduta. Ha fatto sue sevizie, molestie, percosse, abusi e sa che non è più disposta ad accettare tutto questo per sé e per tutte le altre.
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