Versi in assetto di volo - Parte seconda

La poesia essenziale di Pierluigi Cappello

Gli anni successivi alla degenza ospedaliera sono il laboratorio di un’esistenza alle prese con una parte del proprio corpo che non sente più nulla, incapace di reagire a qualsiasi stimolo, ma sono anche un periodo di rielaborazione intellettuale profondissima, che culmina nella pubblicazione de Le Nebbie, la sua prima raccolta poetica. Quattro anni dopo, La misura dell’erba segna una svolta; la metrica si fa più libera, la rima non è più indispensabile, e anche la riflessione autobiografica appare più complessa:

Se essermi è un carcere / è in questo carcere che sono libero / non fuggirmi adesso che ti avvicini / ma liberami, piuttosto, / perché io non ti vedo.

Seguono Amôrs e Il me Donzel, con il loro friulano montanaro mai così delicato fino ad allora, e nel 2002 il ritorno all’italiano con Dentro Gerico. Nel 2004, la sezione vernacolare Inniò e quella in lingua Ritornare danno vita a Dittico, mentre nel 2006 è tempo di un primo bilancio con Assetto di volo, antologia della sua produzione letteraria. Il libro che consegna Cappello alla notorietà popolare, però, è Mandate a dire all’imperatore, uscito nel 2010: da allora è tutto un susseguirsi di premi, riconoscimenti, onori di ogni tipo. Che si portano dietro il passaggio alla Rizzoli e la stampa di una imperdibile raccolta, pressoché completa, di diciotto anni di poesie: Azzurro elementare. Per chi non sa nulla di questo autore, sfogliare le prime pagine della silloge può riservare alcune sorprese:

Il nonnulla che ti coprì le spalle / quel cencio di sole e luce che corse / la volontà disalberata e franta, / le dita di chi porse alle tue dita / breve calore, il vertice d’inverno / dei letti nichelati d’ospedale / e, nera a paragone di ogni nero, / la mezzanotte nera dentro il sonno / e il tuo centesimo rabbrividito / d’anima, il fuoco di febbre che rese / ogni minuto battaglia di lazzaro / una caduta ogni sosta di sangue, / quel nonnulla: che ti coprì le spalle // non eri tu.

Vi ricorda qualcosa? A me questo:

La folata che alzò l’amaro aroma / del mare alle spirali delle valli, / e t’investì, ti scompigliò la chioma, / groviglio breve contro il cielo pallido; / la raffica che t'incollò la veste / e ti modulò rapida a sua imagine, / com’è tornata, te lontana, a queste / pietre che sporge il monte alla voragine; / e come spenta la furia briaca / ritrova ora il giardino il sommesso alito / che ti cullò, riversa sull'amaca, / tra gli alberi, ne’ tuoi voli senz’ali.

Il primo è Pierluigi Cappello, Arie; il secondo Eugenio Montale, Vento e bandiere. Il ritmo è quasi identico, la metrica procede allo stesso modo, l’uso dei verbi al passato remoto è il medesimo, eppure la citazione iniziale che apre la raccolta del poeta friulano - e dunque la ripresa del tema - è da Franco Fortini, Composita solvantur:

I globi chiari, i lenti globi / templari cumuli dei venti // non sono me.

È come se, per entrambi, il procedere poetico di Montale fosse un’acquisizione stabile, sedimentata, e magari proprio per questo inconsapevole. Scorrendo Azzurro elementare, tuttavia, si scoprono anche altri rimandi, più o meno espliciti e molto eterogenei: Omero, Saint-Exupéry, Saba, Ariosto, Tasso, la Chanson de Roland - che un Pierluigi ancora ragazzino ascoltò attonito e rapito, letta per intero in lingua originale dalla sua professoressa delle medie -, e poi Pasolini, Wisława Szymborska, Caproni, Ida Vallerugo, Sereni, Dante, Ungaretti, Melville, Hemingway, Salgari. Eppure, questo patrimonio letterario non è esibito con sfoggio muscolare, perché è stato letteralmente divorato negli anni dell’adolescenza o, per lo meno, assorbito con lo stesso spirito che la caratterizza:

Libro e libero sono una cosa / e non c’è distanza che non sia desiderare / non esiste fantasia che non liberi distanza, / oscurano il cielo le murate delle navi / e gli occhi vedono azzurri mai uditi / se un bambino dalle pagine dei libri / li legga stampati e chiari per la prima volta. // Così anch’io ho incontrato il mio Pequod / e ho visto arrampicarsi fino al cielo / le lamiere del Batavia / e ho imparato leggendo gli economici di Hemingway / che se un viaggio dura dalla seggiola di casa / alla scorza di un tiglio solitario / non c’è metro che possa misurarne / l’eternità della distanza. // Esistono baie, conforti, fiordi di sonno nascosti / mappe che sono segnate soltanto / nel calore che c’è dietro due occhi / e rade dove saldi si alzano i desideri / finché non scivolerà via dai sogni / l’impronta di quei sogni, / le notti calde e gli alisei.

Per Cappello, la letteratura è innanzitutto libertà: è la capacità di volare con la mente al di là delle montagne di Chiusaforte, di navigare dall’Atlantico al Pacifico pur rimanendo ancorati al proprio letto d’ospedale, di volare sui continenti anche se è la carrozzina a dettare le tue distanze e i tuoi ritmi di vita. Ed è per questo che i richiami agli autori del passato non sono citazioni compassate, bensì materia viva; ciò che incanta è la capacità di creare immagini di straordinaria suggestione rimanendo attaccati alle cose. Il poeta me lo disse personalmente, con forza: «La realtà, la realtà: bisogna rimanere legati alla realtà!». Attenersi «alla misura dell’erba» è un imperativo morale, prima che artistico:

Attieniti alla misura dell’erba / di questo prato che è largo / quanto si stende di verde / è qui che sei approdato, adesso; / ti sei svegliato / hai inforcato gli occhiali / hai calzato le scarpe / hai camminato, perfino: / per questo è plausibile / che ogni soffio di brezza / sia un bacio di Armida / che il prato sorrida / com’è scritto nei libri.

In questa poesia ‘manifesto’ c’è tutto Cappello, con la consapevolezza dei propri mezzi espressivi e la chiarezza dei confini nei quali muoversi: Paul Valéry, non a caso, diceva che «le calzature troppo strette possono fare inventare nuove danze». Solo una poesia legata alla concretezza rende plausibile - si noti l’ironia - Armida e i prati sorridenti, perché l’invenzione retorica - nel senso buono del termine - è più credibile se parte dalla concretezza.
C’è poi un’epica domestica che raggiunge punte sublimi, soprattutto nelle liriche dedicate alla figura paterna; è il caso di Ombre, rievocazione di un mondo immortalato pochi attimi prima della catastrofe sismica:

E qui, mentre intere città si muovono / sulle piste ramate degli hardware / e il presente irrompe con la violenza di un tavolo rovesciato, / mio padre torna per sempre nella sua cerata verde / bagnata dalla pioggia e schiude ai figli il suo sorridere / come fosse eternamente schiuso. / Se siamo ancora cosa siamo stati, / io sono lo stare di quell’uomo bagnato dalla pioggia, / che portava in casa un odore di traversine e ghisa.

A spezzare il ciclo delle poesie incentrate sul passato c’è la deliziosa Lettera per una nascita, dedicata alla nipotina Chiara, ed è una delle splendide occasioni in cui non c’è nulla da aggiungere, perché i versi parlano da soli:

Scrivo per te parole senza diminutivi / senza nappe né nastri, Chiara. / Resto un uomo di montagna, / aperto alle ferite, / mi piace quando l’azzurro e le pietre si tengono / il suono dei “sì” pronunciati senza condizione, / dei “no” senza margini di dubbio; / penso che le parole rincorrano il silenzio / e che nel tuo odore di stagione buona / nel tuo sguardo più liscio dei sassi di fiume / esploda l’enigma del “sì” assordante che sei. // Scriverti è facile; e se potessi verserei / la conoscenza tutta intera delle nuvole / la punteggiatura del cosmo / la forza dei sette mari, i sette mari in te / nel bicchiere dei tuoi giorni incorrotti. // Ma non sono che un uomo, e quest’uomo / ti scrive da un tavolo ingombro / e piove, oggi, e anche la pioggia ha le sue beatitudini / sulla casa dalle grondaie rotte / quando quest’uomo ti pensa e fra tutte le parole da scegliere / non sa che l’inciampo nel dire come si resta / e come si preme / nel mistero del giorno nuovo in te / che prima non c’era / adesso c’è.

Ma in questa dichiarazione d’affetto, oltre alle parole, contano le pause, ossia gli spazi bianchi che distinguono una strofa dall’altra: sono i silenzi che marcano i concetti e rendono ancora più assordante il «sì» rappresentato da una nuova vita che si affaccia al mondo. Ed ecco che riemerge la lezione di Ungaretti, di una poesia che tende all’essenziale, all’inesprimibile, e dunque al silenzio inteso come parola perfetta e massima concentrazione di senso:

Scrivere come sai dimenticare, / scrivere e dimenticare. // Tenere un mondo intero sul palmo / e dopo soffiare.


Parte della serie La poesia essenziale di Pierluigi Cappello

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