Versi in assetto di volo
La poesia essenziale di Pierluigi Cappello
6 maggio 1976. È una sera insolitamente calda per i primi di maggio e sono appena passate le 21. Un ragazzo di Udine, Mario Garlatti, sta riversando l’album Wish you were here dei Pink Floyd da vinile a cassetta con il suo registratore a microfono. Arrivato al sesto minuto della prima traccia, la mitica Shine On You Crazy Diamond, la terra impazzisce per davvero. La riproduzione del disco si ferma, ma il registratore continua a funzionare: si sentono un velocissimo tic-tac, la casa che trema, le urla dei familiari.
Bastano 57 secondi per uccidere quasi 1.000 persone e portare via, definitivamente, una civiltà rurale durata millenni, toccata solo superficialmente dal boom economico:
E non era l’Italia del settanta Chiusaforte / ma una bolla, minuti raddensati in secoli / nei gesti di uno stare fermi nel mondo / cose che avevano confini piccoli, gli orti poveri, le cataste / di ceppi che erano state un’eco di tempo in tempo rincorsa / di falda in falda, dentro il buio.
57 secondi per dare inizio a una violenta modernizzazione forzata di usi, costumi, abitudini, idee, visioni del mondo e della vita. Pochi minuti dopo l’intero Friuli è già mobilitato; servono sacche di sangue, volontari per spalare, assistenza a chi ha perso tutto: è l’atto di nascita della Protezione Civile e di una ricostruzione che ha pagine di civiltà bellissime, miseramente strumentalizzate dalla futura retorica indipendentista. Ed è anche l’ingresso nella storia contemporanea, fatta di cemento, case anonime e infrastrutture, ma anche di lavatrici comprate a rate, televisori e ambizioni finalmente possibili. Come l’università a Udine, che nel 1978 porta in casa un’istituzione per secoli oggetto delle migrazioni dei giovanotti bene verso Padova o Vienna, e come l’autostrada Udine - Tarvisio, iniziata nel 1973 ma diventata, dopo il sisma, simbolo di una terra da risollevare e collegare al resto del Paese per non essere più periferia.
Fra le località più colpite dal sisma ci fu Chiusaforte. Un nome che la dice lunga: qui, in questa gola strettissima dove il Fella sembra ruggire con le sue acque, il Patriarca di Aquileia Vodolrico di Eppenstein (1086-1121) fece costruire una chiusa per il pagamento dei pedaggi e una fortezza difensiva per qualsiasi evenienza. È un luogo dal fascino straordinario: le montagne, potenti e spettrali, chiudono l’orizzonte da ogni lato e serrano il cielo in una morsa. Le leggende, qui, si sprecano e parlano di streghe, nani delle caverne, anime vaganti di dannati: non a caso, il terremoto del 6 maggio 1976 sarà subito ribattezzato Orcolat, «Orcaccio», il mostro che la tradizione orale indica, con il suo agitarsi nei monti della Carnia, come causa dei terremoti in Friuli. La Chiusaforte di oggi è un borgo ricostruito quasi per intero dopo la tragedia, ma le osterie non sono diventate wine bar per orridi spritz con l’Aperol ed entrando in un bar è ancora possibile vedere queste scene:
Guardate come sta, come sta in piedi ancora / i pantaloni senza la riga, larghi sul davanti / e appena sporchi agli orli / la giacchetta era delle feste / dei Natali e dei funerali / e adesso stringe gli anni e insieme / un magro di scapole e le spalle / piegate sul bancone, manda dai polsini il bianco della mano / per dire mettimi davanti un altro nero / e fa’ attenzione al colletto. / Quel poco di sé è le montagne di Chiusaforte / quando d’inverno si spaccano col gelo / e un poco franano ogni giorno. / Uno qua uno là, gli altri leggono il giornale / guardando la televisione da lontano / dove un cuoco e una allegra con le tette grosse / insegnano ricette. / Fuori c’è troppo poco cielo per dire domani / per dire cosa siamo stati / e il sole splende sull’autostrada / e sulla corsa delle macchine / quando uno apre la porta ed entra per guardare / come se il tempo lo guardasse da sempre.
Questi e i precedenti sono versi di Pierluigi Cappello, un poeta che a Chiusaforte ha trascorso la sua infanzia e che il 6 maggio del 1976 aveva solo nove anni. Fu anch’egli uno sfollato, ma di quegli anni ha un ricordo felice: «Per noi bambini, l’esperienza del campo terremotati fu un’occasione unica di libertà: eravamo sempre all’aperto, mentre i genitori erano impegnati a ricostruire. Però poi abbiamo avvertito che non saremmo tornati indietro: dicevamo “un giorno torneremo a casa”, ma non ci siamo mai tornati». Così mi disse durante un’intervista e io andavo con la memoria a un’altra sua poesia, intitolata Campo Ceclis, 1978:
due cerchioni cromati, copertoni consumati / fino all’anima di metallo / un vecchio telaio Bianchi / una rete da materasso sfondata al centro / una quantità imprecisata di bottiglioni vuoti / un disordine slavo e un fusto di latta / un motore grippato su un cavalletto / la ruggine bagnata, il metallo di tubi Innocenti / addossati alla parete di legno / la libertà dei terremotati, / lo zenit dei prefabbricati.
Ho visitato Chiusaforte per la prima volta nel settembre 2012, durante un viaggio in bici lungo la ciclovia che unisce il confine austriaco al mare. Qualche mese dopo, andando a conoscere di persona Pierluigi Cappello, oggi residente a Tricesimo, ho potuto vedere la casa di riposo e la pista per le bocce a pochi passi dalla sua abitazione, un prefabbricato donato ai terremotati dal governo austriaco: la sua poesia mi è quindi venuta incontro fisicamente, trasformando in materia le parole che fino ad allora avevo solo letto e plasmato in immagini mentali, secondo il vero significato del fingo nell’Infinito di Giacomo Leopardi. E ho avuto la prova definitiva che l’aderenza alla realtà, per il poeta di Chiusaforte, è un dovere morale prima che artistico:
Sono nato al di qua di questi fogli / lungo un fiume, porto nelle narici / il cuore di resina degli abeti, negli occhi il silenzio /di quando nevica, la memoria lunga / di chi ha poco da raccontare.
L’essere nato «al di qua di questi fogli» comporta una necessaria conoscenza del mondo in cui Cappello è cresciuto. E sono in particolare due le liriche che lo descrivono meglio: L’autostrada e Parole povere. Ma c’è anche un altro elemento - tragicamente - fondamentale nella sua biografia: l’incidente in moto che, a sedici anni, gli ha tranciato il midollo spinale, costringendolo alla sedia a rotelle. La narrazione del dopo è uno dei capitoli più intensi di Questa libertà, la sua prima, meravigliosa prova da romanziere. Ed è, soprattutto, l’inizio di una nuova storia, con l’uscita dall’ospedale il 16 marzo 1985:
Quando Cortez sbarcò sulle coste del Messico, fece bruciare le navi. Con quel gesto intendeva spingere dentro la polpa di un mondo sconosciuto il coraggio dei suoi archibugieri. Innervato dalla disperazione, quel coraggio sarebbe diventato ferocia e quella ferocia avrebbe abbattuto un impero. Nel momento in cui mio padre prese la borsa da viaggio, io, senza la ferocia di Cortez, con una spinta decisa alla carrozzina, lasciai bruciare le mie caravelle alle spalle. Davanti, la porta automatica si spalancò su un continente ignoto.
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