Vandali, ma non barbari

La letteratura di un popolo da rivalutare

Per noi, ‘vandali’ sono coloro che distruggono, o perlomeno danneggiano, oggetti altrui. Sedici secoli fa, erano invece la popolazione più colta e raffinata fra quelle che ‘invasero’ l’Impero Romano d’Occidente. Quando e perché, allora, i Vandali divennero vandali?
Nel 395, la morte di Teodosio I e la divisione dell’impero in Oriente e Occidente segna un punto di non ritorno: i primi ‘barbari’ a rompere la fragile alleanza con i Romani sono i Visigoti, guidati dal generale Alarico, che nel 410 addirittura mette a sacco l’Urbe, accelerando d’improvviso la sua agonia. Le altre popolazioni seguono a ruota, sparpagliandosi in quei territori che da loro, spesso, prenderanno il nome: nel caso dei Vandali, in (V)andalusia. La loro permanenza nel Sud della Spagna è però brevissima: la pressione dei Visigoti induce il sovrano Genserico, nel 429, a guidare il suo popolo dall’altra parte dello stretto di Gibilterra. Nel 435, dopo una conquista fulminea, i Vandali sono i nuovi veri padroni dell’Africa settentrionale: inizialmente riconosciuti come foederati dall’imperatore Valentiniano III, nel 442 ottengono l’indipendenza e la piena sovranità sulle odierne Tunisia e Algeria orientale dallo stesso Valentiniano. Assassinato quest’ultimo nel 455 e salito al potere Petronio Massimo, Genserico dichiara illegittima l’ascesa dell’usurpatore. Chiamati dalla stessa Licinia Eudossia, moglie di Valentiniano III, per vendicare la morte del marito, i Vandali entrano a Roma dando vita a un saccheggio che la storiografia del Settecento ha consegnato ai posteri come, per l’appunto, vandalico. In spregio, tuttavia, alla reale dinamica degli eventi. Nessun assassinio, nessun incendio, nessuna devastazione, ma il semplice trafugamento di denari e tesori e la riduzione in schiavitù dei notabili ‘traditori’, come per qualunque vittoria militare.

Alla morte di Genserico nel 477, il regno vandalico è ormai il più potente fra quelli nati dalle invasioni barbariche, nonché l’unico pienamente legittimato da Roma e da Bisanzio, tanto più che Eudocia, figlia di Valentiniano III, era diventata sposa del sovrano Hunirico. Inizia così una nuova fase di sviluppo culturale per l’Africa del Nord, pur con i limiti dovuti alle tensioni fra le fazioni cristiane devote all’Arianesimo e quelle fedeli alla linea ‘cattolica’. Gli ultimi grandi autori della letteratura latina provengono da qui: sono il poeta Draconzio, l’apologeta Fulgenzio di Ruspe e l’erudito Fabio Fulgenzio Planciade, esegeta di Virgilio e studioso di mitologia. Nonché i poeti Lussorio e Coronato, che si riuniscono attorno a un’opera ancora poco nota.
Alla Biblioteca Nazionale di Parigi è conservato un manoscritto particolarissimo: il Codex Salmasianus, così chiamato dal nome latinizzato del possessore più noto, Claude Saumaise, che lo ricevette in dono nel 1615 dal collezionista Jean Lacurne. Vergato da una mano umbra in una scrittura onciale databile tra fine dell’VIII e l'inizio del IX secolo, il codice manca di undici fascicoli iniziali ed è mutilo anche alla fine. Per quanto riguarda il contenuto, il Salmasiano è una miscellanea, ma la parte che c’interessa è quella compresa fra le pagine 1 e 188. Si tratta di componimenti di epoche molto diverse: si va dal centone Medea di Osidio Geta (II - III sec.) al Iudicium coci et pistoris di Vespa (III sec.), dai distici di Pentadio (III sec.) al De concubitu Martis et Veneris di Reposiano (III - IV sec.), fino ad alcuni versi attribuiti falsamente a Marziale, Seneca e Petronio; la parte più cospicua, tuttavia, è opera di autori africani di età vandalica. Tale Liber epigrammaton ­− il titolo si ricava ‘in negativo’ da un’iscrizione alla fine dell’opera­ − è una vera e propria ʻantologiaʼ in senso moderno, pianificata e organizzata nella Cartagine degli ultimi re vandalici secondo criteri ben definiti.

Poesie d’amore, liriche d’argomento mitologico, indovinelli, poemetti, epigrammi satirici: la lettura del Liber ci restituisce l’immagine di una corte più romana che barbarica, dove la cultura letteraria è tenuta in gran pregio e i riferimenti agli autori latini del passato formano una trama raffinata e complessa. Un genere a sé è quello dei carmi dedicati alla celebrazione di opere pubbliche legate al controllo dell’acqua, fondamentali in un’area desertica come quella nordafricana: scopriamo così un popolo appassionato di bagni termali, proprio come i Romani. Si prende addirittura in giro chi non si è ancora ‘romanizzato’ e continua a parlare una lingua incolta:

 

Inter ʻeilsʼ goticum ʻscapia mazia ia drincanʼ

non audit quisquam dignos edicere versus.

 

Fra i gotici «eils scapia mazia ia drincan»

non si ode alcuno recitare versi dignitosi.

 

Il titolo dell’epigramma è significativo: de conviviis barbaris, «sui banchetti dei barbari». È assai probabile che l’allusione sia alle gozzoviglie delle guardie gotiche di Amalafrida, sorella di Teodorico e sposa del re vandalo Trasamondo. Ospiti ben poco graditi al successore Hilderico, re dal 523 al 530, destinatario della poesia forse più importante dell’intero Liber (la n. 215):

 

Vandalirice potens, gemini diadematis heres,

ornasti proprium per facta ingentia nomen.

Belligeras acies domuit Theodosius ultor,

captivas facili reddens certamine gentes.

Adversos placidis subiecit Honorius armis,

cuius prosperitas melior fortissima fecit.

Ampla Valentiniani virtus cognita mundo

hostibus addictis ostenditur arce nepotis.

 

Potente re dei Vandali, erede del doppio diadema,

hai ornato la tua gloria tramite ingenti imprese.

Schiere bellicose domò Teodosio vendicatore,

rendendo schiave le genti con una facile contesa.

Gli oppositori soggiogò con placide armi Onorio,

il cui migliore favore divino realizzò gesta fortissime.

La grande virtù di Valentiniano nota al mondo intero

si mostra, ridotti alla mercè i nemici, dall’arca del nipote.

 

L'architettura di questo carme è sorvegliatissima: Vandaliricus e nepos, riferiti entrambi a Hilderico, sono rispettivamente la prima e l’ultima parola del testo; Vandaliricus e heres aprono e chiudono il primo verso; a sua volta, heres è nella stessa posizione finale di nepos e i due termini, di nuovo, si rifanno alla medesima persona. Particolare coerenza si riscontra nella successione degli altri personaggi storici (Teodosio I, Onorio, Valentiniano III): il sovrano legittima il suo potere in modo radicalmente diverso dalla tradizione vandalica, privilegiando la linea materna a dispetto di quella rigidamente paterna praticata fino ad allora, così da risalire direttamente agli imperatori romani. Questa, infatti, la genealogia: Teodosio I padre di Onorio e Galla Placidia; Galla Placidia moglie di Costanzo III, genitori di Valentiniano III; Valentiniano III padre di Eudocia, sposa del re vandalo Hunirico e madre di Hilderico.

Siamo di fronte a una dichiarazione di ‘romanità’ da parte di un sovrano dei Vandali; Hilderico vuole infatti dimostrare di avere le carte in regola, fin dai cromosomi, per essere l’erede degli imperatori d’Occidente e, dunque, il primo interlocutore degli imperatori d’Oriente: l’erede, per l’appunto, del doppio diadema dei principes romani. Di questa svolta abbiamo forse un riflesso in un singolare testo conservato nel Salmasiano subito dopo la conclusione del Liber epigrammaton: il Calculus Dionisi. Si tratta di un computo pascale, di quelli che si trovano spesso nei manoscritti medievali per sapere quando è caduta (nel passato) o cadrà (nel futuro) la festa più importante della cristianità. Fin qui nulla di speciale, se non fosse che il Calculus ha come estremi cronologici il 429 e il 523. Ora, nel 429 inizia la conquista vandalica dell'Africa, mentre il 523 è l'anno della morte di Trasamondo e dell'ascesa al trono di Hilderico: l’anno, cioè, in cui si chiude la fase dei re di estrazione esclusivamente barbarica e si apre quella del gemini diadematis heres. Sembra quasi che il Calculus sia una summa della storia vandalica in Africa: difficile pensare che non accompagnasse il Liber epigrammaton già nell’originale vergato a Cartagine sotto Hilderico. La cui virtù, tornando al carme 215, è la stessa del nonno Valentiniano III, riflessa nella magnificenza del suo palazzo e ostentata dinanzi ai nemici in catene, ossia le mille guardie gotiche imprigionate ­− e poi condannate a morte ­− assieme ad Amalafrida, presenza ingombrante perché legata a Teodorico, re d’Italia e dunque suo naturale avversario in termini di eredità romana.
Eppure, la nobiltà vandalica, seguace dell’Arianesimo, non perdonerà a Hilderico la sua fede cattolica: il colpo di stato di Geilamir, nel 530, pone fine al regno del gemini diadematis heres e fa retrocedere i Vandali su posizioni ostili all’Impero romano d’Oriente. La risposta di Bisanzio non si fa attendere: con la scusa di vendicare Hilderico e punire l’usurpatore, Giustiniano conquista il regno vandalico. La cui storia, stavolta, finisce davvero. Senza alcun Calculus Dionisi a celebrarla.


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