Un'ultima possibilità
La sfida titanica di Renzi all’Italia e all’Europa, tra argomenti facili e slide d’effetto
Fare le cose. Un condensato di saggezza popolare e spirito imprenditoriale. Un programma politico spiegato nell’ansia febbrile a un Paese stanco. Darsi da fare. Pur di non restare ancora con le mani in mano. O in tasca, se si è al Senato. Bisogna mettersi al lavoro. Senza indugi. Proporre, agire, attuare. I cardini sono essenziali. Senza fronzoli. L’unico lusso: le slide. Le diapositive, insomma. «La mia voglia di correre non è un tratto somatico e caratteriale di una persona disturbata, ma un’esigenza dei cittadini», dichiara. Forse è leggerezza. Ma il nostro, si sa, è un Paese emotivo. Da sempre le grandi passioni lo infatuano e lo esaltano.
Matteo Renzi sa di essere una grande speranza. È cosciente che buona parte dei cittadini si aspetta qualcosa da lui. Qualcosa di diverso. Qualsiasi cosa, purché segni un punto di discontinuità con gli ultimi vent’anni. Qualcosa che possa giustificare la ridondanza mediatica di un premier su cui pende più o meno velata la scomoda ombra della nomina, anziché l’effimero fulgore dell’elezione. Quell’Italia stremata, ormai pratica di tassi di disoccupazione, di concorsi truccati, di vessazioni fiscali e di lungaggini burocratiche lo osserva. Scampata alla deriva pentastellata, si rifugia in un personaggio più rassicurante. Più educato, più spigliato. Intraprendente ed energico. Rivede in lui se stessa. E si convince che questo nuovo parvenu della politica possa avere il rimedio adatto per il futuro più prossimo.
Quelle di Renzi non sono promesse. Sono tentativi. Per la maggior parte, titanici. Una lista di interventi innegabilmente urgenti tra cui si fa quel che si può. Un disperato colpo di reni. Le variabili, naturalmente, sono molte. Le insidie sono dentro al suo partito e dentro la sua maggioranza. Nei sindacati. Nella Confindustria. Dovunque c’è qualche scontento cronico delle riforme, qualche allarmista trasudante pregiudizio.
In fondo, il nostro è anche un Paese profondamente conservatore. Ad ogni accenno alla riforma della Costituzione, l’intellighenzia inorridisce per convenzione. La crème della cultura italiana è pronta a sdegnarsi con parole già pronte all’uso. A priori, pregiudizialmente. Per difendere il sogno di un’élite illuminata piuttosto frustrata che si trova schiava del controcorrente. Gli interessi di parte, come al solito, prevalgono su quelli collettivi, li soverchiano e li opprimono. Così prende una forma ormai usata l’appello colmo di pàthos contro la «svolta autoritaria», firmato, tra gli altri, da Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà e Salvatore Settis. Si mette in guardia platealmente da un «sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali». Si esortano alla reazione quei cittadini che «stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare». A guardare quale scempio? Il progetto di superamento del bicameralismo perfetto, e della trasformazione del Senato.
Non si può agitare ancora all’occorrenza lo spettro della deriva autocratica, con cui osteggiare qualsiasi riforma di ampio respiro. È anacronistico ritenere che la Costituzione sia senza tempo, valida in eterno, immutabile. Bisogna avere il coraggio di riuscire ad adattarla ai tempi che corrono, che non sono più gli stessi del 1947, per fortuna. Più in generale, bisogna riuscire a cambiare. Lo sforzo è notevole, perché presuppone una mentalità diversa rispetto a quella imperante. È necessario disfarsi di ideologie d’antan e adeguarsi a nuovi orizzonti.
La novità è l’arma più efficace di Renzi. Ne ha il monopolio, fatta eccezione per una disordinata e incoerente concorrenza grillina. Ma, ineluttabilmente, la novità è destinata a perdere di tonicità col passare del tempo, e anche piuttosto alla svelta. Per questo i ritmi del governo sono serrati. Per dare prova che, forse per la prima volta da anni, l’Italia può riuscire a migliorarsi dandosi da fare. L’obbiettivo più ambizioso è superare quel provincialismo indolente che vizia la classe dirigente. Restituire alla politica un ruolo fattivo e costruttivo che è stato alienato in favore della concertazione, del dibattito, delle lungaggini improduttive. Riformare il Paese ha dei costi, proprio per il carattere di urgenza che assumono gli interventi. A farne le spese devono essere le parti sociali. La concertazione, che ha immobilizzato troppo a lungo le scelte, non può essere uno strumento utile a confermare lo status quo. Se non è costruttiva, ma è semplice opposizione, allora è giusto che un governo la ignori. Più che arroganza, è decisionismo.
Ma per Renzi la discontinuità col passato ha anche un’altra condizione: emanciparsi da un Partito democratico ancorato a vecchi modelli, restio a sentir parlare in termini piuttosto liberali di riforme. I vecchi paradigmi egualitari e assistenzialisti hanno portato la situazione all’insostenibilità. Per questa ragione, programmare tagli razionali e economie non deve essere inteso come una minaccia, bensì come l’occasione per il centrosinistra di tornare a vincere le elezioni. Non è scritto da nessuna parte che il merito non sia di sinistra. Anzi, è un principio sancito dalla tanto osannata Costituzione, all’articolo trentaseiesimo: «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro».
I tagli sono essenziali in una riforma strutturale. La condizione è che siano assennati, e non inferti con la disinvoltura di un carnefice. Gli esuberi non vanno nascosti. L’improduttività non deve essere giustificata. Senza traumi, bisogna superare gli ostacoli della burocrazia e della cattiva amministrazione. Ma la visione efficientista di Renzi mal si concilia con la necessità di garantismo occupazionale dei sindacati, pronti ad ostacolarne l’opera.
Siccome questo Paese è bravo a piangersi addosso, ma anche capace di animarsi di intraprendenza, Renzi è l’ultimo baluardo per molti. Senza una vera e propria concretezza di mezzi, ma con idee solide da tradurre in fatti, il già sindaco di Firenze ha la propria occasione per affermarsi come leader. Dopo l’accelerata impressa al governo Letta, dopo le dimissioni e il nuovo governo, questa è probabilmente la prima e l’ultima possibilità che gli è concessa per ritagliarsi un ruolo di primo piano nel panorama politico. «Sto a Roma solo se posso cambiare l'Italia e soltanto fino a quando posso cambiare l'Italia». In caso di magri risultati durante questa legislatura, le urne non lo premierebbero. E, prima o poi, le elezioni ci saranno un’altra volta.
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