Un'altra sera, un'altra cena
Storie di vita e di coppia attorno alla tavola nell'esordio dello scrittore fiorentino Simone Lisi
Un’altra cena (o di come finiscono le cose) è un libro di Simone Lisi, esordiente scrittore fiorentino, edito da Effequ. Un’altra cena è un libro singolare, dove sin dalla prima pagina, che mostra la pianta dell’appartamento in cui si svolgerà tutta la narrazione, lo scrittore mette in scena un affresco sociale dalle sfumature teatrali: una cena darà vita ad una commedia che segue le tensioni e gli equilibri precari delle relazioni interpersonali e della vita lavorativa dei protagonisti.
«Dio ha dato il giorno, Dio ha dato le forze. E il giorno e le forze sono consacrati al lavoro, e in esso stesso è la ricompensa. Ma per chi è il lavoro? Quali saranno i frutti del lavoro? Queste sono considerazioni accessorie e nulle», scrive Tolstoj nella citazione da Anna Karenina che introduce al romanzo. Come Lévin per lo scrittore russo, il protagonista di questa storia è l’alter ego di Simone Lisi che non trova risposta a questa domanda. Il Capitale si insidia ovunque, anche in mezzo ad una cena fra amici, anche in un rapporto di coppia. Un’altra cena è un libro cinico e ironico, che mette il lettore davanti alla consapevolezza che, con le parole di Zygmunt Bauman, la modernità è la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza. Il protagonista è il riflesso della crisi dell’uomo postmoderno, un traduttore e sottotitolatore che avrebbe le capacità di fare della sua passione un mestiere, ma che non vuole cedere a questa tentazione per salvare il suo hobby dalla fagocitante società liquida.
Di oggi non rimangono che minuscole crepe e intarsi che fanno la giornata degna di essere stata vissuta, per il resto è un completo ed enorme Six feet under. Ecco qua, l’ho detto. I sepolti vivi siamo noi, la miseria delle nostre vite di lavoratori. Che faccio? Intendi che faccio di lavoro? Non ho più voglia di parlare del mio lavoro, non voglio farlo più. Fa differenza? Dici per i soldi? Certo, il giorno in cui passa il bonifico, il dieci del mese.
L’incertezza e la precarietà sono anche i due elementi che tengono in bilico la vita di Livia e il suo compagno. Vivono entrambi nella stesa casa. Sono le 19:06 e c’è una cena da preparare. Livia cammina seminuda, lui la osserva mentre beve una birra. La loro relazione è fragile, le parole non corrispondono mai alle loro intenzioni, che sembrano costantemente mancare di punti di riferimento a cui aggrapparsi. L’incomunicabilità fra i due cede la scena ad una sorta d’individualismo bulimico che ingoia tutto quello che rimane. Dell’empatia non c’è traccia, i pensieri e i discorsi si dilatano nel tempo attraverso una serie di considerazioni inconcluse e frammentarie. L’unico limite a questo flusso di parole è imposto dall’organizzazione della struttura narrativa, che scandisce costantemente il tempo e segue il muoversi dei personaggi all’interno della casa.
19:44, bagno
Per anni, anzi per la mia intera vita, ho pensato ai miei genitori credendo che il rapporto problematico fosse quello con mia madre. Oggi in questo bagno penso a come mi sia sconosciuto il rapporto con mio padre. Il che mi porta a concludere che di me non so assolutamente niente.
Un’altra cena è una specie di confessione faustiana del nuovo millennio. Tutto il libro traspira di una grande inquietudine dove nulla si sazia. È il presente che ci cade addosso, la nostra vita reale che viene palesata: i mille impegni, il lavoro, lo stipendio, le rate da pagare, una cena da preparare. In mezzo all’incalzante muoversi della routine emergono pensieri sempre più contorti. Rimane qualcosa d’interposto che non si riesce ad afferrare, la tensione di una forza che precede il balzo verso la dichiarazione di una realtà palesata dal suono del citofono: «Il tempo che intercorre tra il suono del campanello, tra il rispondere al citofono, dire: chi è, e l’effettivo ingresso degli ospiti nella casa è un momento di verità. In quel momento non è possibile fare niente di vero, perché tutto ciò che si fa è finalizzato al fatto che tra pochi istanti entrerà qualcuno in una stanza, qualcuno che prima non c’era, e gli equilibri cambieranno del tutto. Anche chi sostiene il contrario, anche chi nello spazio, nell’intercapedine, nell’interruzione tra i due momenti si mostra occupato, si sforza di continuare l’attività che stava compiendo un attimo prima dello squillo, mentirà».
Un campanello anticipa l’incontro di quattro corpi che si preparano ad un’altra cena insieme. Quello che separa i quattro amici seduti a tavola è uno spazio vuoto dove si inseriscono discorsi che vanno un po’ più in là; discorsi che solo all’apparenza sembrano voler raccontare quanto accade o è accaduto. La gabbia aperta ad un canarino, la possibilità di trovarsi bloccati nel traffico di fianco alla macchina della nostra ex, la lotta contro i multisala, un ultimo viaggio in Cilento, mondi dove i bambini non crescono oltre i tre anni di età; sono tutti simboli, metafore che prendono le sembianze di una protesta morale più consapevole che ottimista verso la stasi di un’esistenza ingannevole. Ad ogni battuta, i personaggi si tuffano in un mondo nuovo, fatto di situazioni che prima di esaurirsi nella loro narrazione fluiscono in altri racconti: un salto continuo fra débrayage e embrayage, una pallina da ping pong che non colpisce mai la rete, un botta e risposta che non si esaurisce mai nelle sue immagini possibili.
Ad ogni battuta, i personaggi si tuffano in un mondo nuovo, fatto di situazioni che prima di esaurirsi nella loro narrazione fluiscono in altri racconti
I protagonisti di questa storia sembrano attori cinematografici intenti a recitare i dialoghi di una commedia disinibita, che non si accontenta di registrare la vita così come trascorre davanti alla macchina da presa, ma che le dà una forma sempre diversa, riuscendo con semplicità a raggiungere la vera “anima delle cose”. Senza cadere nella presunzione di voler raccontare una nuova e noiosa teoria sulle inclinazioni degli uomini rispetto la crisi della civiltà odierna, Simone Lisi ci mostra le scene di un montaggio che riproduce l'intreccio confuso e disordinato tipico dei pensieri.
«In un certo senso anche il pupo, coi suoi pannolini e manine e tutto il resto, è un po’ come il canarino di Marcello e Adelaide».
«Come dici?»
«Cioè, è qualcosa che si è interposto, è giusto ‘interposto’? Senti qua che vocabolario, qualcosa che si è spalmato tra noi quattro. Vi pare?»
«Ci sta Andreas, in un certo senso».
«Sono un po’ ubriaco, credo».
«Sì, anche io».
Silenzio intorno alla tavola bianca a forma di ellisse. Il walkie-talkie dalla stanza del bambino trasmette rumore bianco.
«Ma quindi tra le righe dicevi che il sottotesto per cui si fanno figli è lo stesso per cui si contrae un mutuo?»
«No. Non lo so. Sei tu il ragazzo che si occupa di sottotitoli».
«Certo che strano verbo è ‘contrarre’, no? Si può usare anche per i virus?»
«Sì Andreas, mutui e malattie».
«E matrimoni».
E così, dietro quest’aria fintamente non obiettiva, si nasconde quello che siamo. Quantità di materia definita nello spazio che confluisce in una forma d’individualità poco chiara. Un mondo popolato da uomini e donne dei quali rimane una traduzione di concetti che non possono essere sottotitolati: non abbiamo forma, siamo astrazione, parole senza suoni, lettere ridotte al conoscibile e tradotte in qualcosa che può essere soltanto intuito.
Selene Mattei
Commenta