Una vita in fumo

La vita senza fumo è come fumo senza arrosto

«Io non fumerò mai».
Una volta me lo dissi anch’io. A fuoco volevo marchiare queste parole nella mia mente, lasciarvi in eterno una sensazione di pervenuta santità; volevo dire ad alta voce un modo e un motivo del mio essere futuro. Era invece una sicurezza libresca, un’ingenuità convinta di poter dare al tempo un indirizzo sicuro e libero da ripensamenti, inciampi e deviazioni. Ma l’esperienza, all’intenzione che vuol tradursi in atto, mi ha chiesto compromessi innumerevoli; si è data per falsa la medicina che volevo mandar giù. Quell’iniezione di programmatica certezza voleva essere la cura del dubbio, ma il dubbio mancava e la cura sortì l’effetto contrario: dove prima non c’era, in breve il dubbio germogliava.

In questa certezza è facile associare grandiose immagini d’ingegneria umana alla chimera della maturità, ma via via che il dubbio mette radici l’utopia si decanta in un piovigginare di immagini frastagliate e chiare solo per la loro piccola semplicità. Sfuma lo spirito delle grandi architetture, delle volontà inflessibili che si muovono per assiomi, e ci si ritira volentieri nei dettagli, nelle cose minute ma materiali, tangibili, sicure. Così per la sigaretta: un giorno si cerca la maturità nel saldo rifiuto, nell’ideale sicurezza che non se ne avrà mai voglia o bisogno; il giorno dopo quasi quasi si vuol vederla, la maturità, proprio nella sigaretta, nel fumarne una prima, o almeno una. C’è un potere misterico nel fumo, e nel fuoco che lo suscita si cerca la segreta prova che dà accesso al domani. Quel domani che si vuole sempre plasmare da sé; ma i dettagli ora ci bastano, ché forse hanno più significato, ci si lascia credere, del panorama che li raccoglie e contiene e che non c’interessa più. È un pensiero ben pericoloso quello che rimanda alla materia, alla sola materia, ma da qui non è per sempre chiusa l’ascesa. Anzi: può rimanere il dubbio salutare, che vieta ogni sosta tranquilla, e col suo battere cadenzato accresce la paura che, continuando a guardare il domani dallo spioncino –  accontentandosi della costola del libro, del calamaio, dell’angolo dello scrittoio –  si rischi la fine di Zeno: rubacchiare mezzi sigari spenti a un padre a cui non si ha mai il coraggio di chiedere da fumare, da diventare adulti.

È un cliché abusato quello che vuole la sigaretta metafora perfetta della vita, col senso che chiunque può indovinare: il fuoco divoratore che brucia superficie e contenuto, che misura il tempo del nostro irreversibile finire. C’è sì giovinezza e gioia e grandezza nella fiamma festante che accende l’estremo del piacere ed estate in quella bellezza che brucia e si consuma sotto i nostri occhi, chiusi a sognare la felicità di un presente creduto eterno; nel ritardare l’ultimo faticoso aspirare si presagisce lo smarrimento della vecchiaia e dei suoi ciechi indugi; chi arriva fino al filtro in fondo alla sigaretta, un muro alla fine di un corridoio, sente in gola il trauma della morte. E in quel gettare via irriflesso, in quell’assicurarsi che il fuoco sia spento, in quel pesticciare indifferente il mozzicone di quel che si è stati, c’è certo tutta la benevolenza di Dio. Ma ecco, non è la sigaretta solo il tempo del fumo che scarta i polmoni,  accarezza le labbra innamorate, dipinge i denti in sorriso e taglia il palato arrossato; non è la rabbia sottile dell’astinenza, la dipendenza, l’ingiallirsi dei denti e delle dita, una vita che avanza al ritmo di un pacchetto al giorno. Fumare per la sigaretta e non la sigaretta, che è vizio, non merita che ci s’investa del tempo. 

Alla sigaretta si può dare un senso ancor prima di fumarla. La mia mano si è chiesta se davvero avvicinarsi alla sigaretta, magari offerta da quella amica di un fratello di spirito. Era un animale mai visto, chissà se docile o letale, per le dita incerte se coglierla; e la sigaretta non sa, in preda ai febbrili polpastrelli di una mano inesperta, se verrà fumata o no, se piacerà o darà disgusto, se finirà sul marciapiede con un sorriso o una smorfia. Quando il braccio porta il filtro alle labbra, queste domande s’inscrivono lungo la cartina, ma il fuoco le cancella e le risposte cadono in un libero vuoto che è tutto in mano a chi fuma. Il movimento è ancora giovane, ma sarà presto norma prescritta, cultura consunta fino all’osso dell’istinto. Si appende il filtro alle labbra con la premura per le cose fragili e preziose. La fretta e il fastidio della rondella dell’accendino, che gira a vuoto e gratta; poi finalmente la scintilla che accende la fiamma, la bruciante soddisfazione del tabacco che si consuma. Questa sequenza di tensioni meccaniche, di pulsioni muscolari, rispecchia il modo in cui nella vita si cerca qualcosa, la furia o calma nell’avanzare, l’angoscia o la serenità; e il sospiro liberatorio che ci apre quando siamo vicini alla sigaretta è il segno che si sta cercando e forse si è trovato un assaggio della palingenesi che prima o poi ci rinnoverà.

Ma non è nel poi, nel sempre ripiegato su se stesso, che la sigaretta può spiegare una vita; l’abitudine immota è una palude in cui la sigaretta può continuare a macinare i polmoni, eppure spegnersi; non dare più nulla oltre la nicotina, non appagare più se non la voglia vuota di un farsi coraggio epilettico e compulsivo. È prima del fumo, prima del filtro che la sigaretta ci parla di come possiamo essere, in quell’istante iniziatico che precede il grande balzo, lungo pochi battiti, ma lanciato sulla prospettiva degli anni. Gli anni della prima adolescenza in cui non si è né carne né pesce, quando s’ignora che ogni presunta santità è solo una povera innocenza che nulla sa. Il senso del fumare sta nel mentre, in quell’apnea in cui forze multiformi, rifuse in un nodo irresolubile, spingono il corpo a muoversi verso la sigaretta. È un’evasione o un’invasione rispetto a sé, a seconda che si voglia fuggire, o ritornare; ma non è uno solo il passo di marcia, si può variare in lunghezza e peso, in cura e velocità. Quando il primo tiro è andato, la scelta è già fatta: i propri giorni vanno di conseguenza, irriflessi, distratti dall’abitudine, o sempre infusi d’affetto, attenti, lanciati al nuovo. Il percorso, poi, s’imbatte nel bivio tra l’abitudine alla stessa sigaretta, e la volontà, ogni giorno, di cambiare forma, di cambiare sapore. Ma questa è un’altra storia.


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