Una strada in salita
#italiariparte col nuovo Senato. È davvero #lavoltabuona?
Torna di nuovo il solito refrain. «Il Paese deve riformarsi da solo e lo sta facendo, dobbiamo farlo ancora più in fretta». Dalle parole del ministro Padoan compare ancora una volta quell’inappagata bramosia di celerità, quel primigenio futuristico bisogno di eterna velocità onnipresente del governo Renzi. Il tentativo piuttosto energico di destare l’Italia dall’immobilità pensosa, l’estasi ed il sonno. Il sempiterno obbiettivo resta quello di liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquarii: la cara vecchia rottamazione, insomma.
Fin da subito il premier Renzi ha compreso che la chiave per il successo sarebbe stata la rapidità. Gli esecutivi di Monti e di Letta, chiamati ad operare in una situazione di emergenza, avevano fallito proprio sulla celerità dell’azione di governo. Dopo i primi mesi di proclami distinti ricamati con parole forbite e di apparente produttività sotto l’egida sacra della responsabilità contabile, è giunta inesorabile l’impasse. Le misure volte ad arginare la crisi sono state superficiali, una tantum e perfino esiziali: l’aumento della pressione fiscale generalizzato e disinvolto non ha certo giovato all’economia reale. I tecnici, sebbene forse animati da uno spirito coscienzioso, sono presto divenuti ostaggio dei ben noti particolarismi dei partiti. Tanto più si invocava da ogni parte un’azione decisa e decisiva, tanto più si precipitava nella procrastinazione, nell’edulcorazione, sortendo l’unico effetto di prolungare tacitamente la situazione di criticità economica. È per porre fine al profondo sonno della ragione collettiva che il governo Renzi ha visto la luce. Ma rischia comunque di precipitare nel gorgo dell’inconcludenza.
Il premier ha sempre saputo che la rapidità delle decisioni avrebbe costituito un reale distinguo rispetto ai precedenti esecutivi. L’inusuale programma cadenzato di riforme ha fatto ben sperare. Ambizioso, certo. Ma finalmente qualcosa di più puntuale che una serie di frasi arricchite di futuri semplici indefiniti. Poi, con le elezioni europee dello scorso Maggio, il governo ha ricevuto un’ufficiosa investitura quasi inattesa. Più del quaranta percento dei voti, un vero unicum nel panorama della disaffezione europea. Il declino – anch’esso inatteso – del Movimento cinque stelle ha poi fatto il resto. L’unico vero avversario temibile del premier ancora brancola nell’inconcludenza. Tentennamenti, ripensamenti, streaming o non streaming. E poi, oltranzismo a priori, che è in fondo l’unico vero motivo di coesione interna. Si scoprono improvvisamente vittime della propria stessa sdegnosa alterigia populista.
È per quel quaranta percento che Renzi ha scelto di avviare un iter in salita, di cui la riforma del Senato rappresenta forse la vetta più alta. Trovatosi dinanzi alla necessità di una scelta radicale e non più rinviabile, quell’aut aut tra le riforme strutturali sul piano economico e quelle istituzionali, ha optato per la seconda via. Sfruttando il risultato delle europee, ha colto nel momento più opportuno l’occasione di intervenire per favorire la governabilità. Eliminare il bicameralismo perfetto, così da rendere più rapide le scelte. Cercare, in sostanza, di recuperare quell’insostenibile ritardo ormai accumulato negli anni.
Cominciare dalle istituzioni ha un senso. Soprattutto con una maggioranza incerta, che si regge sulla base di accordi di convenienza, circostanziati. E che non avrebbe certo mai permesso un efficace intervento riformatore nell’economia. Prova ne sia l’inconcludenza degli esecutivi precedenti proprio su questo fronte, ben visibile a chiunque. Nella trama sottile delle alleanze, il patto del Nazareno ha garantito il via libera al disegno di legge Boschi. Berlusconi non ha potuto che scegliere la collaborazione, per tentare di riaffermare il proprio ruolo offuscato, per riappacificare i falchi e le colombe grazie alla prospettiva di una nuova alba.
Il governo, adesso, conta di agire più liberamente. E se Forza Italia ha dimostrato di essere determinante nel proprio appoggio all’esecutivo, è anche vero che il partito dell’ex Cavaliere non è certo pronto per le elezioni. Il Partito democratico, invece, sì. Renzi lo sa bene, e dopo il voto che ha sancito l’avvio dell’ambizioso progetto di riforma costituzionale le urne sono più vicine. All’occorrenza, prima di scadere nell’ingovernabilità, saranno un’extrema ratio praticabile con minor apprensione.
La riforma del Senato non è esattamente quello che il Paese stava attendendo. Non è una riforma a breve termine. Non riduce le imposte, non rilancia l’occupazione. È una riforma che rende possibile una pianificazione di lungo periodo, e assicura maggiori certezze. Non ci saranno più attenuanti per le lungaggini burocratiche. Ma, soprattutto, non è una funesta svolta autoritaria, tantomeno un attentato alla democrazia. I toni apocalittici utilizzati dai detrattori della riforma non sono altro che nostalgici pretesti per conservare lo statu quo di benefici e privilegi. Se il Senato concorre ancora all’elezione del presidente della Repubblica, se mantiene la competenza legislativa sulle leggi costituzionali e sui trattati internazionali non c’è proprio nulla di autoritario. L’elezione indiretta dei senatori, il loro essere espressione delle autonomie locali e la riduzione del loro numero non segna l’incipit formale di un colpo di stato. C’è solo la determinazione di cambiare e di mettersi al passo coi tempi. Il resto, quello che è di ordinaria amministrazione, compresa la fiducia all’esecutivo, spetterà solo alla Camera. Così, forse, potrà esserci un governo con una maggioranza definita, che garantisca la stabilità politica. Non resta altro che contemperare il nuovo Senato con una valida legge elettorale.
Una cosa è comunque certa: adesso urgono le riforme economiche. Lo sostiene la Banca centrale europea di Draghi, lo sostengono i dati ancora negativi dell’Istat. La nuova recessione incute un timore del tutto legittimo. L’entusiasmo, soprattutto all’estero, è stato presto obnubilato da quel -0,2 percento del Pil nel secondo trimestre. Ma adesso il governo può – e deve – agire. Corroborata ancora di più la propria maggioranza, deve conservare il proprio coraggio. «Ci vorrà tempo, sarà difficile, ci saranno intoppi. Ma nessuno potrà più fermare il cambiamento iniziato oggi». Adesso, servono risposte chiare e distinte. Le chiedono tutti coloro che ogni giorno si districano tra imposte folli, scartoffie inutili, curriculum vitae disperati e mutui eterni. Se fino ad ora sono riusciti a conservare la dignità e la voglia di fare, è giusto che adesso quell’Italia che nonostante tutto continua a darsi da fare sia finalmente ascoltata. Cento, mille di questi giorni di governo. A patto che si agisca nella concretezza, e non ci si abbandoni più all’insostenibile leggerezza dell’attesa.
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