Una morte dopo l'altra

Amore, morte e loop temporali nella serie Netflix Russian Doll di Natasha Lyonne e Amy Poehler

Come i Greci insegnavano che conoscenza è reminiscenza, così la modernità insegna che tutta la vita è una ripresa. Viviamo nell’epoca della nostalgia immaginata, dei posticci sentimenti vintage per epoche e gusti mai vissuti ma che per qualche motivo sentiamo nostri, vogliamo far nostri, dobbiamo ripetere e così rinnovare. Perché «quello che si può riprendere è già stato, altrimenti non si potrebbe riprendere, ma proprio in questo essere già stato consiste la novità della ripresa». Con queste parole Kierkegaard, che pur viveva un paio di secoli fa, ci consegna una delle più pregnanti caratterizzazioni della retromania che contraddistingue la nostra modernità. Fenomeno che, lungi dal cristallizzarsi in una semplice moda o posa estetica, riguarda tutto l’ampio spettro costituito dalle sperimentazioni possibili di vite alternative e da quei what if attorno ai quali ruota, oggi più che ieri, tanta produzione letteraria e cinematografica. E pare proprio che Natasha Lyonne e Amy Poehler abbiano voluto collocarsi in virtuale dialogo col filosofo danese quando hanno scritto Russian Doll, nuova serie Netflix uscita lo scorso febbraio.

Fulcro della vicenda è la ripresa, ovvero la capacità terapeutica che una particolare ripetizione può avere all’interno di una vita umana. Cosa accadrebbe se dovessi ripercorrere incessantemente le ultime ore della mia vita, sapendo che da un momento all’altro potrei morire e ricominciare da capo questo loop? Cosa farei diversamente? È questo che si chiede la protagonista Nadia Vulvokov, costretta a rivivere ogni volta la notte del suo 36esimo compleanno fino alla morte, che le si presenta ora nei panni di una botola nella quale inciampare, ora di una macchina che la investe, ora di un ossicino di pollo che la soffoca o in altri mille modi tanto fantasiosi quanto tragicomici. Nessun cambiamento sembra permetterle di uscire da questo ciclo infinito fatto di morti e rinascite, e tutti i suoi tentativi di eludere la drammatica fine sembrano appiattirsi su una cieca linearità dagli esiti inesorabili. Eppure man mano che la serie si sviluppa cominciamo a notare piccole variazioni,piccoli indizi contro quella perfetta identità ripetitiva. Inizialmente semplici dettagli appena percepibili, ma che si fanno poi sempre più evidenti. Fintanto che, nel quarto episodio (emblematicamente collocato a metà dell’opera), non ci viene presentato un nuovo personaggio, Alan, apparentemente un altro Sisifo moderno al quale tocca rivivere ripetutamente la sera in cui viene lasciato dalla sua fidanzata.
 

Nessun cambiamento sembra permetterle di uscire da questo ciclo infinito fatto di morti e rinascite, e tutti i suoi tentativi di eludere la drammatica fine sembrano appiattirsi su una cieca linearità dagli esiti inesorabili


Nulla, se non la condivisione di questo grottesco destino, pare unire i due: lei cinica, inaffidabile e stronza, tendente a indulgere generosamente in droghe e alcolici, ma anche in avventure occasionali; lui fragile, ipersensibile e fiacco, incapace di accettare e fronteggiare la fine di una relazione da tempo giunta al capolinea. Eppure i loro cammini si incrociano, e ben presto entrambi realizzano che non solo la vita dell’altro li riguarda, ma che anzi nasconde la chiave per uscire dallo strampalato limbo nel quale entrambi sono precipitati. Come due specchi posti l’uno di fronte all’altro creano una matrioska di infiniti riflessi, così Nadia e Alan rappresentano l’una per l’altro l’occasione per vedere dentro se stessi le infinite sfaccettature che costituiscono le loro personalità.  La differenza speculare che sembra separare i due altro non è che il sintomo della parzialità che consuma le loro vite. Entrambi sono sostanzialmente incapaci di relazionarsi con l’altro, di vedere altra realtà che non sia la propria. Perciò non possono che morire, perché la loro vita è già morta, mancata, preda della medesima e inesorabile decomposizione che, sorta di inquietante memento mori, lentamente vediamo affliggere tutto ciò che li circonda: la loro frutta, i loro fiori episodio dopo episodio cominciano a marcire e ad appassire. Fintanto che le correzioni si collocano sul piano dei contenuti, sul cosa cambiare – andare in un altro posto, dire parole diverse, compiere altri gesti – la via d’uscita rimane sbarrata. Sempre la morte si presenterà come crash sistemico, monito del fatto che la soluzione alle loro fatiche non è lì dove stanno cercando. Perché è solo nel come che sta il potenziale rivoluzionario del cambiamento, della metamorfosi. Ed è precisamente questo non detto, questa diversa posa, che entrambi imparano proprio conoscendosi, legandosi l’una all’altro e così trovando il modo per bucare la cappa di desolante solitudine che avvolge le loro vite.

Come ci insegnano la tragedia e la mitologia greche, dalla ripetizione non si esce. È un concetto matematico, quantitativo, circolarmente chiuso. Per quanti sforzi possa fare Tantalo non riuscirà mai a placare né la sua fame né la sua sete: gli oggetti del suo desiderio sono eternamente destinati a sfuggirgli; così come Sisifo non potrà mai trovare riposo e porre fine al compito di trascinare incessantemente il suo macigno. Infrangere l’horror vacui della ripetizione è possibile solo tramite la conversione della ripresa, ovvero della capacità di trasformare il passato rinnovandolo nel presente attraverso un movimento di coscienza dinamico e qualitativo. Una sorta di redenzione impossibile del tempo nel tempo, la cui realizzazione diventa tuttavia speranza e missione all’interno della virtualità finzionale offerta dalla intersezione tra i molteplici piani temporali. Lo stuck and repeat può allora essere visto non più come una gabbia soffocante, ma come chance di navigazione all’interno dei propri vissuti che proprio nella loro apparente mera ripetizione svelano quelle fratture rimosse da ricomporre.
 

Come Nadia sa, da programmatrice di videogiochi, fixare il bug che impedisce al gioco di proseguire è impossibile fintanto che si rimane all’interno della griglia di gioco


Così, è possibile guardare alle vicende di Nadia e Alan come a un tortuoso e rocambolesco viaggio in se stessi, dove la meta è appunto questo ritrovarsi, capace di sanare le ferite di una vita segmentata e frastagliata. Come d’altronde Nadia sa, in quanto programmatrice di videogiochi, fixare il bug che impedisce al gioco di proseguire è impossibile fintanto che si rimane all’interno della griglia di gioco. Occorre uscire dal gioco per ricostruirne la trama e ripercorrerne i passaggi alla ricerca del punto di rottura dove si innesca il loop. Da lì può partire l’analisi, di se stessi quanto dell’altro. Ma per interrompere questa spirale concentrica della ripetizione devono imparare a distrarsi – in latino distractio è la separazione della mente dalla propria realtà attuale, rivolta ad altro, “distratta” – dall’autoreferenzialità dei rispettivi vissuti, dalle loro singole lacune e concentrarsi su quelli dell’altro, reciprocamente.

Nessuno dei due si salva perché effettivamente risolve i propri singoli problemi, che si tratti di quelli dovuti a una madre schizoide come per Nadia o a quelli di una tendenza suicida legata al senso di inadeguatezza che Alan prova nei confronti della propria esistenza. La terapia non è all’insegna del lavoro individuale, bensì di quello collettivo secondo il quale ci si salva solo indirettamente, solo grazie a un altro gratuitamente aiutato. E può forse sorprendere come, nel finale, questo cambiamento giunga pressoché inaspettato. A ben guardare nulla di particolare è successo, nessuna azione plateale è stata compiuta. Eppure, sottotraccia, è possibile notare l’evoluzione dei due personaggi e la maturazione del loro rapporto. Certo, una conclusione dai tratti così onirici e utopici può lasciare un po’ confusi – vediamo Nadia e Alan che finalmente si gettano festosi nella sarabanda della propria vita, fatta di quei piccoli difetti e mediocri imperfezioni che, forse, hanno saputo più accettare e superare che risolvere.
 

Nel finale Nadia e Alan si rigettano festosi nella sarabanda della propria vita, fatta di quei piccoli difetti e mediocri imperfezioni che, forse, hanno saputo più accettare e superare che risolvere


Il tema del rapporto tra dimensioni temporali concatenate su diversi piani non è d’altronde originale. Né tantomeno utilizzare questa cornice per mettere in scena le vicissitudini dell’Io alla ricerca di se stesso. Lo abbiamo recentemente visto all’opera in Westworld e, per certi versi, nell’ultimo capitolo di Black Mirror Bandersnatch, ma ciò che rende Russian Doll degna di nota è la sua capacità di sfiorare questo tema con leggerezza e disincantata ironia, facendoci al tempo stesso divertire e riflettere attraverso il gioco di una finzione che, per quanto impossibile, ci coinvolge e ci riguarda.


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