Un sogno in mezzo al mare

Intervista a Daniele Pasquini, autore del romanzo Un naufragio, tra storia sentimentale e romanzo d’avventura

Gli ultimi due anni hanno contratto gli spazi e gli orizzonti di tanti di noi, che per mesi hanno sognato di uscire dalle quattro mura della propria casa per viaggi lunghi e luoghi lontani. Da un sogno simile Daniele Pasquini, toscano classe ’88 e autore per Intermezzi Editore di Io volevo Ringo Starr (2009), Le rockstar non muoiono mai (2013) e dalla raccolta Ripescati dalla piena (2015), ha immaginato il suo nuovo romanzo Un naufragio, uscito con SEM. È la storia di Tommaso e Valentina, coppia atipica che dopo un viaggio di nozze disastroso finisce su un’isola deserta a causa di un’incidente aereo, una storia che Daniele mi racconta durante la prima presentazione fiorentina negli spazi di Alice Storyteller, una nuova libreria e spazio culturale nel centro di Firenze, per chi sfida le onde e guarda al futuro. Al contrario di Tommaso e Valentina, bloccati in mezzo al mare in un eterno presente nel tentativo di salvare se stessi e la loro relazione. Un’idea, appunto, sognata. 

Com’è successo?, chiedo a Daniele.
È successo che ho fatto un sogno, quella del sogno è una dinamica che ogni tanto mi risuccede. Mi capita che un sogno ti arriva, ti svegli e dici “Aspetta, questa roba funziona, mi sta scuotendo e non riesco a riprendere sonno e continuo a risognarla”. Il caso ha voluto che io fossi veramente su un’isola: non ero in viaggio di nozze ma ero su un’isola in vacanza con mia moglie e al mattino mi sono svegliato e mi sono appuntato il sogno sul telefono. E questa dinamica del sogno di me che ero su un’isola continuava ad essere presente, e secondo me ad un certo punto alle ossessioni bisogna trovargli una porta di uscita.
C’era solo il problema, non da poco, che io non sono mai stato naufrago, non sono mai stato in mezzo all’oceano indiano, non sono mai stato in mezzo alle Seychelles, non sono mai stato su un’isola deserta e quindi ho detto: va bene, forse ambientare la storia in un appartamento era più semplice, però l’isola mi dà delle possibilità in più. E ho cominciato a pensare ad una storia che fosse sì una storia di coppia, una storia di formazione, una storia quasi di terapia, ma fosse anche e soprattutto un romanzo d’avventura. Volevo che le due dimensioni, quella più psicologica, più sentimentale e quella avventurosa, si compenetrassero e che fosse uno di quei libri che tu inizi a leggere per sapere: “Come va a finire? Questi due si salveranno dal loro naufragio?”. E poi è chiaro che la parola “salvezza” può voler dire “mettersi in salvo” ma anche “salvarsi”. Non vado a toccare dimensioni escatologiche, magari le accenno, però è una salvezza che ha un doppio livello di lettura.

Sei una delle poche persone che si sveglia da un sogno e quel sogno non è un’idiozia, anzi è effettivamente lo spunto per un’idea brillante. Quanto hai studiato per dare corpo a questa idea?
Mi sono reso conto, quando ho scelto l’isola, che era un tòpos stra-abusato, ma non da poco, da sempre. È da Omero che si va sulle isole. Ho iniziato a rileggere alcuni libri: Robinson, Gabriel García Márquez, Il signore delle mosche. Io non sono un letterato, non ho una formazione letteraria, sono solo una persona un po’ curiosa, però mi sembra di poter dire che le isole in letteratura, ma anche nel cinema, possono avere due funzioni: da un lato l’isola che è il luogo dell’altro, il luogo della scoperta – il caso di Omero, il caso di Gulliver – dall’altro l’isola che è il luogo del sé, il luogo privo di contaminazioni esterne in cui emerge la vera natura dell’uomo. Nel caso di Robinson lui va sull’isola e grazie alla forza della ragione, al pensiero positivo – l’uomo che sa dominare la natura e il mondo – sta lì tot anni e riesce a ricostruirsi tutto, ad addomesticare le capre, a far agricoltura, a soggiogare Venerdì e via dicendo, un tipo di esperienza così l’uomo moderno non la può fare: se uno di noi va su un’isola muore dopo un giorno. Questi sono i modelli, poi ci sono film, alcune cose che ho dovuto riguardare per capire come ad esempio si costruiva una capanna, ma più dei libri e dei film, lo confesso anche se passo male, sono stati utili i tutorial su YouTube di alcuni pazzi a cui piace fare queste esperienze survivaliste in cui vanno lì, intrecciano i rami, si costruiscono i cestini.

Che sono poi quelli che Tommaso, una volta finito sull’isola, si rammarica di non poter vedere.
La verità è che chiunque dovesse finire su un’isola deserta, penso, la prima cosa che proverebbe a fare sarebbe prendere il cellulare e scrivere su Google “Come accendere fuoco”, “Come fare capanna” oppure che so “Pesci commestibili”. Solo che se vai su un’isola deserta Google non c’è, il cellulare di solito non funziona e i tutorial non li puoi vedere. Era anche il modo per mettere i personaggi in un contesto vergine e sicuramente fallimentare.

Hai detto che l’isola è anche un tentativo per far emergere la vera natura dei personaggi, eppure tu hai comunque sentito la necessità di dar loro degli strumenti che potessero far emergere alcuni aspetti del loro essere: per Tommaso la copia di Moby Dick che non ha mai finito di leggere, per Valentina le scarpe e i vestiti.
C’è il famoso detto di Čhecov, che se compare una pistola all’inizio a un certo punto deve sparare. Io avevo bisogno che in un contesto in cui non c’era nulla ci fossero degli oggetti che permettessero una serie di riflessioni e di azioni. Da un lato, in riferimento al vestiario di Valentina, c’è il simbolo del superfluo a cui ti attacchi: cose che magari nella vita ti sembrano importantissime, come i vestiti o le scarpe, ma che poi in quel contesto hanno un connotato quasi ridicolo. Dall’altro, nel caso di Moby Dick, Tommaso ha tutta una serie di turbe che sono anche in parte dovute alla letteratura. Volevo che fosse un libro duro, da un certo punto di vista, verso un certo tipo di sistema culturale, perché questi libri che lui cita, che lui pensa che siano importanti, che lui legge ma non capisce, che lui sottolinea ma poi non manda a memoria e su cui non si sa orientare, lui li vive come un fallimento. È il suo fallimento sociale e intellettuale, e Moby Dick – il libro che dice di aver sempre lì e che non è mai riuscito a finire di leggere – ne è il simbolo.

Coi libri si potrebbero anche costruire delle cose: una fortezza in cui arroccarsi o una torre di avvistamento per guardare più lontano


Il libro inizialmente aveva una forma diversa, poi certe cose si sono asciugate. Ad un certo punto lui rifletteva sul fatto che i libri li avrebbe potuti usare come mattoni, che coi libri si potrebbero anche costruire delle cose: una fortezza in cui arroccarsi o una torre di avvistamento per guardare più lontano. Lui è totalmente schiacciato dall’idea che in questi libri ci si deve trincerare e non ce la fa, e di questo soffre. Anche se nella sua relazione trincerarsi nei libri non serve a nulla, anzi è uno degli ostacoli per cui la relazione tra Tommaso e Valentina a volte non funziona.

Il romanzo è diviso in due tempi e in due spazi differenti, uno è quello dell’isola uno è quello della relazione. Al quarto capitolo, “Incontrarsi”, il libro comincia a tornare indietro, a fare questo percorso a ritroso nel passato della coppia raccontando l’origine della loro relazione. Perché hai scelto di raccontare la storia in questo modo e che possibilità ti dava muoverti tra questi due tempi: il presente dell’isola e il passato della relazione?
Perché l’ho scelto? Secondo me perché sono una persona incapace di gestire narrazioni di altro tipo, mentre fare dei salti avanti e indietro ti permette anche di risolvere i momenti di blocco. Una narrazione sempre su un’isola per uno che non è mai stato su un’isola poteva diventare molto faticosa, però io avevo bisogno di spiegare perché questi due erano naufragati: sono naufragati perché caduto l’aereo, ma il loro naufragio – l’altro naufragio – iniziava da prima. E io volevo spiegare perché, attraverso le tappe che li aveva portati dal conoscersi fino al matrimonio.

Arrivando verso la fine del libro diventa più chiaro il titolo: non Il naufragio ma Un naufragio. Mi sembra che il titolo aiuti a mettere in prospettiva il rapporto tra i personaggi, che sono ovviamente ben definiti e hanno le loro storie particolari, ma mi sembra che il libro non voglia raccontare la storia di questa coppia, ma usare questa coppia per raccontare un momento che può essere di tutte le coppie.
Dire Il naufragio o Naufragio sarebbe stato un titolo anche troppo importante, un titolo adelphiano. In Un naufragio c’è una vena di understatement, come dire “Guarda, anche meno”. I naufragi sarebbe stato disastroso, avrebbero detto “Ah, un’epopea generazionale!”: no. Un naufragio è lo storia di Tommaso e Valentina, una sola. Era anche un modo per essere molto più devoto nei confronti della storia; quell’un era una parola che serviva a me per stare tranquillo, per dire: “È solo una, è solo una, tranquillo Daniele, racconta solo questa storia, non strafare, non strabordare, non avere pretese di universalità”.

Benissimo, esattamente l’opposto. Avevo capito tutto.

Daniele Pasquini (a sinistra) durante la presentazione di Un naufragio (SEM, 2022) ad Alice Storyteller



Il naufragio spesso in una relazione si annida in una parola sbagliata, in un gesto, non è così facilmente individuabile, così come nel percorso di Tommaso e Valentina. La nomini una sola volta, ma leggendo il romanzo continua a risuonare in testa la parola ‘entropia’. Legata al personaggio di Tommaso, sì, ma anche a una sensazione che si percepisce nel rapporto tra i due personaggi, questa sensazione che qualcosa si sta distruggendo, e che è ineluttabile il destino di questo rapporto. Una parola legata un po’ a Tommaso, un po’ alla relazione, un po’ alla generazione. In che modo il concetto di entropia è entrato nel tuo libro?
L’entropia è un concetto a cui sono sempre stato legato: se io avessi avuto una band indie-rock l’avrei chiamata così, però facevo schifo a suonare, e poi ho chiamato entropia il mio blog. L’entropia è la misura del disordine di un sistema. La cosa che mi interessava di più era l’idea di disordine quantificabile, che è un po’ un ossimoro: il caos che però puoi valutare. Dire “Io domino il caos” è impossibile, dire “Io misuro l’entropia” è già qualcosa che si può affrontare. Tommaso cerca di farlo attraverso i libri, scopre però che non funziona così.

Volevo arrivare proprio al tuo blog per farti una domanda un po’ più personale, leggendo il post che riassume anche una parte centrale del romanzo e uno dei nodi del rapporto tra Tommaso e Valentina.
Questo non me lo ricordo.
Il post si intitola “Quando le ho chiesto di sposarmi”, e fa così.
 

Il pensiero di decidere di passare una vita intera insieme non era affatto nuovo. Ne parlavamo: prima come battuta, poi litigando. A tirare il freno a mano ero io. Una domenica pomeriggio in cucina ne discutemmo fino a farci male. Io argomentai parlando del tempo, del lavoro, dei soldi, della casa, delle cose. Lasciai l’appartamento per un’ora per andare a potare le siepi del condominio, risalendo in casa la trovai attaccata a una bottiglia in preda a un pianto isterico.

Questa mia ponderatezza l’ho sempre voluta dipingere come una forma di razionalità, di capacità di dominare il senso di prospettiva storica delle tappe dell’esistenza: quasi ad avere con me un narratore esterno, onnisciente, che sa mostrare i passi compiuti, tratteggiando percorsi decennali, per mostrarmi chiaramente una via. Una via quasi sempre tragica. Ilaria è dotata invece di una straordinaria memoria a brevissimo termine e abbina al rifiuto categorico di elaborare il passato uno sproporzionato entusiasmo circa le questioni future. Adesso, col senno di poi, le due correnti si sono riunite.


Non me lo ricordavo. Che merda che sei.

La cosa interessante è che, nel romanzo, diventi tu il narratore onnisciente della tua stessa storia, che entra nel vissuto di Tommaso e Valentina.
 

Discussero restando in trincea, con Tommaso che guardava sempre in basso, e Valentina, struccata, che lo osservava senza filtri. Finì male: lei alzò i toni, irritata dalla vaghezza del suo ragazzo. Tommaso decise di andare a prendere aria, passeggiò per il quartiere e, prima di rientrare, si fermò al bar sotto casa, ordinò Campari e gin – «Sicuro, bello? Tutto bene? Ok, te lo faccio forte» – e appena iniziò a sentirsi meglio, più confuso e deciso, salì in casa e trovò Valentina a piangere attaccata alla Falanghina: l’aveva stappata appena lui era sceso, si era tirata fuori un calice dal set di bicchieri spaiati e aveva cominciato a bere coi pugni serrati. Quando della bottiglia non era rimasto niente, se non le ultime gocce, aveva iniziato a piangere. Ma perché poi, si domandava, perché si disperava così, non le bastava forse stare con lui, che era così carino, e dolce, intelligente, disponibile, e tutte quelle cazzo di doti che l’avevano fatta innamorare? Non era sufficiente forse godersi l’amore nella sua forma più pura, finché durava? A cosa le serviva una certificazione? Per riconoscimento sociale, per convenzione, per scappare finalmente da casa, per lasciarsi alle spalle suo padre? Sì, no, cioè, anche: voleva sposare Tommaso per amore, e perché tutta la sua vita era stata un continuo passeggiare verso cose che pensava di desiderare, e una volta in cui si era sentita veramente accolta non accettava di dover patteggiare. Valentina voleva tutto, e lo voleva come voleva lei.
Quando Tommaso rientrò e la vide attaccata alla bottiglia, la fissò intimorito. Ma fu subito trascinato dalla compassione, la abbracciò e pianse con lei. Pensò: “Uno passa anni a convincersi che la felicità è una menzogna, poi una volta che ha scoperto che non è vero decide di mandare tutto all’aria? Non sarà che ho solo paura di smentirmi?”.


Hai appena evidenziato che io scrivo sempre la stessa storia.

Quanto viene da te quello che troviamo nel romanzo?
L’intreccio chiaramente è forte, anche se non c’è niente di vero in questo libro. È ovvio però che racconta la storia di due giovani sposi e io sono un giovane sposo, sto con una ragazza che è una giovane sposa, per cui ci può stare un po’ di immedesimazione. Non sono io a dirlo, lo hanno detto in tanti: non esiste scrittura che non sia in parte autobiografica. Quello che ho fatto rispetto ad altre volte e a quella cosa che hai letto sul blog è che se quella è autofiction, qui ho preso un dato di fatto della mia vita e ho cercato di esasperarlo e poi grazie alla forma romanzo ho scavato molto più in profondità, rispetto a quello che faccio di solito. È stato abbastanza buffo: dopo la prima bozza l’ho lasciato un attimo lì, l’ho riletto, ho detto “mamma mia”, ho fatto un po’ di correzioni e poi ho iniziato a rileggerlo con Ilaria, mia moglie. E con la lettura ad alta voce è diventato evidente che i personaggi che avevo scritto non erano io e non erano lei, e in una fase successiva di editing io ho iniziato a volere bene ai personaggi, a volergli bene veramente. Volergli bene voleva dire fargli fare le cazzate in santa pace, renderli fastidiosi, fargli dire delle amenità, mostrarli sporchi nudi antipatici, perché con se stessi si cerca di essere un pochino indulgenti, ma i personaggi si può invece trattarli male e farli sembrare degli imbecilli totali – io non mi dipingerei mai come un imbecille totale, lo sono ma non lo farei, mentre con un personaggio lo si può fare, ed è anche un modo per volergli bene, per farlo funzionare meglio in una storia.
 

Per scrivere Un naufragio ho preso me, ho peggiorato tutto il possibile, l’ho reso un’esperienza romanzata e l’ho proiettata in una dimensione che non esiste


Io mi sono reso conto, molto tardi, che per me è un romanzo distopico. Me ne sono reso conto proprio in occasione del concorso letterario Petrarca.fiv organizzato da L’Eco del Nulla insieme al Comune di Figline e Incisa Valdarno, a cui ho partecipato. Mi sono reso conto che è un romanzo distopico, perché la distopia cosa fa: prende uno scenario che tu intravedi, qualcosa che ha a che fare con il tuo presente e lo proietti nel futuro o in una dimensione che non esiste. In questo senso è stata l’esperienza autobiografica. Io ho preso me, ho peggiorato tutto il possibile, l’ho reso un’esperienza romanzata e l’ho proiettata in una dimensione che non esiste.

È interessante il modo in cui libro si muove attraverso due tempi: ci sono sicuramente il presente dell’isola e il passato della relazione, ma anche il tempo della possibilità e il tempo della realtà. Tutto il romanzo si muove tentando di aprire ai personaggi un terzo tempo, che è quello del futuro, che loro non vedono in quel momento. È un tempo che gli è precluso. In che modo ti sei mosso per far percepire questo stallo?
È come se l’evoluzione dei personaggi seguisse ritmi diversi e accelerazioni diverse. È una cosa dal punto di vista narrativo è molto difficile – per far evolvere il personaggio ci sono delle tecniche, puoi far succedere delle cose –, però volevo che assomigliasse un po’ di più alla vita vera. Nella vita vera non succede che te esci di casa, ti succede una cosa e dici “Accidenti, che esperienza formativa per la mia vita”. E dopo “Ah, accidenti, ora sono cambiato, ho una nuova prospettiva del futuro”. Non succede questo. Avevo bisogno che questa cosa fosse più verosimile, e volevo cercare di incasinarli per far sì che questi due, il futuro, non riuscissero a concepirlo. Avevo bisogno che cercassero di tirarsi un po’ a vicenda, di accusarsi un po’ a vicenda, perché poi se lo domandassero loro stessi: ma mi salverò? ci salveremo?
Perché una coppia che si interroga sul futuro? La mia generazione è una generazione che rispetto a quella dei propri padri e delle proprie madri ha molta meno sicurezza economica, campa sulle loro spalle, non andrà in pensione…
…vabbè, non importa sottolineare tutto...
...vive in un contesto politico molto arido, lo spazio pubblico si è ridimensionato e ha acquisito altre sembianze. È una generazione che è molto più chiusa in se stessa, molto più chiusa in casa, quindi la coppia diventa anche il teatro di sperimentazione relazionale, sociale, politica. È quello l’orizzonte che molte persone, me compreso, hanno. Tante altre dinamiche oggi sono molto più esasperate e la coppia è anche la roccia a cui ti aggrappi. Perché altrove non hai altro. Perché non ce l’hai più il partito, non hai più la chiesa, non hai più la piazza. Hai la tua compagna, Hai il tuo appartamento. Messo in discussione quello, non rimane veramente più nulla.
 

«Allora perfetto, mandiamo una mail di riepilogo. E ancora felicitazioni!»
Rimase in piedi col telefono in mano, senza il tempo di metabolizzare la proposta. Strano tempismo: proprio adesso che aveva qualcosa, un posto in cui tornare, una definizione anche spaziale del domani. È un fatto che appare sempre ovvio quando è ormai troppo tardi, ma la più spiccata differenza tra innamorarsi e amare è che l’innamoramento è un liquido, l’amore un solido. Con una consistenza reale, ma anche con un ingombro, con un peso. Qualcosa lo invitava a considerare l’ipotesi di sciogliersi.


Questo concetto mi sembra il nodo del rapporto tra i personaggi e il motivo per cui fanno fatica a pensarlo, questo futuro. È una coppia che proprio perché è cresciuta liquida e vive in una società liquida fa difficoltà a dare solidità al proprio amore.
Avevo bisogno di due personaggi sofferenti, che fossero sofferenti davvero ma sofferenti in due modi totalmente diversi. Spesso quando si parla delle coppie si tende a dire “hanno tanto in comune”, e solitamente si pensa alle cose belle, alle passioni in comune: a tutti e due piace lo stesso gruppo, vanno tutti e due a teatro… mentre mettere in comune il dolore è un esercizio più difficile. È chiaro che tutti i dolori sono diversi – Tommaso ne ha uno, Valentina ne ha un altro – e il dolore diventa centrale nell’esperienza di vita, come si affronta il dolore. Il vero problema di questi due personaggi è che hanno entrambi un dolore, ma non lo sanno condividere. Mentre la felicità è più facile da condividere, il dolore ti centra quasi sempre su te stesso, ed è molto difficile quando sei centrato su te stesso ma sul tuo dolore concepire non un uno ma un due. In questo senso è un libro sul dolore e come provare ad affrontarlo.


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