Un quadro d'insieme
Finis Gloriae Mundi, il fotografo e il suo tempo – Quadro storico
Walter Benjamin, nella sua Piccola storia della fotografia, afferma che:
«Una volta che la fotografia si è emancipata dalle connessioni con gli interessi fisiognomici, politici, scientifici […] diventa creativa»[1]
In questa frase appare evidente come il momento creativo, il momento autenticamente positivo e propositivo, si affermi come realtà interna alla tecnica fotografica solamente in un secondo momento. Non a caso i pionieri e i primi virtuosi del nuovo ritrovato tecnologico non hanno alcuna intenzione di fare concorrenza allʼarte come la si intendeva nel XIX secolo, quando lʼinvenzione della fotografia venne ufficializzata col celebre discorso tenuto da François Arago alla Camera dei Deputati il 3 luglio 1839.
Le prime fotografie sono tuttʼaltro che una salda dichiarazione di autocoscienza del nuovo strumento: spesso le fotografie sono usate come comoda riduzione a immagine di oggetti di studio difficilmente approcciabili. Le immagini di William Fox Talbot ammirano, già nel loro titolo, la Natura più che lʼobiettivo; e David Octavius Hill, dal canto suo, fa parte di quella folta schiera di personaggî che, lungi dal cercare la gloria attraverso le immagini fotografiche, sfruttano il mezzo a fini personali, per intimo compiacimento (come Lewis Carrol) oppure come supporto per la loro attività artistica. Eppure, anche se solo in ambito privato e amatoriale, la novità del mezzo non esita a farsi riconoscere e proprio in campo artistico: si tenga conto che il compito che Hill decide di assolvere affidandosi alla fotografia (un affresco del primo Sinodo generale della Chiesa scozzese) non era nuovo alla storia della pittura: la vertiginosa serie di schizzi realizzati dal vivo da Jacques-Louis David per il suo quadro Lʼincoronazione di Napoleone (1808) ne è la prova.
Ma anche senza indugiare nei suoi primordî ci si può accorgere di come la funzione strumentale, nientʼaffatto autonoma o creativa, della fotografia permanga per lungo tempo, addirittura per decennî (tra i fotografi citati da Benjamin come notevoli nel campo della fotografia connessa a interessi di altre discipline figura Karl Blossfeldt il cui ambiguo – almeno nel titolo – Urformen der Kunst venne pubblicato nel 1928).
Ora, una simile ritrosia della tecnica e dei tecnici nei confronti di una professione di autonomia – specialmente artistica – testimonia abbastanza eloquentemente la sostanziale invalidità delle due testi interpretative proposte.
Se veramente la fotografia non fosse stata altro che un processo degenerativo interno alla dimensione artistica (un tentativo di agenti degeneri e rivoluzionarî come i fotografi, corifei della massa ignorante e assetata di potere) non si vedono i motivi per cui essa non si sarebbe dovuta immediatamente riconoscere come parte dellʼarte stessa, ponendo subito in essere la propria dimensione creativa, senza alcun bisogno di passare per vie traverse che le facessero incrociare campi a lei estranei.
Dʼaltro canto, se la fotografia fosse stata veramente lo strumento con cui masse barbare avrebbero tentato una penetrazione nellʼuniverso della conoscenza al fine di piegare alla propria prospettiva il mondo esistente (non curandosi, quindi, di addentrarsi nel mondo dellʼarte se non per romperne, sin dal primo momento, i gangli vitali), tanta riservatezza, quasi vergognosa, non avrebbe trovato ragion dʼesistere.
Se ciò non bastasse può essere fatta unʼaltra constatazione: è ancora Benjamin a sottolineare come, oltre alla dimensione marginale della fotografia dei primordî, anche il pubblico dei fruitori dellʼimmagine fotografica, agli inizî, fosse sostanzialmente ristretto, al punto che i modelli dei primi ritratti fotografici
«non avrebbero saputo che farsene della loro fotografia»[2].
Con tutto ciò il legame tra la tecnica fotografica e lʼodiata moltitudine permane senza che nessuna delle due sembri possa essere stata generata dallʼaltra: non la fotografia dalle masse, non la massa dalla fotografia.
Dove ricercare, quindi, il luogo genetico di questo connubio?
È ancora Benjamin (tanto per non smentirsi) a risultare luminosamente chiarificatore:
«per il cliente, la persona del fotografo incarnava un tecnica di recentissima scuola, e per il fotografo, dʼaltra parte, il cliente era appartenente a una classe in ascesa»[3]
«Nel giro di lunghi periodi storici, insieme con le forme complessive di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale. Il modo e il genere secondo cui si organizza la percezione sensoriale umana – il medium in cui essa ha luogo – è condizionato non soltanto in senso naturale, bensì anche in senso storico. […] se le modificazioni nel medium della percezione di cui noi siamo contemporanei possono intendersi come una decadenza dellʼaura, si può anche indicarne le condizioni sociali»[4]
Questi brani illustrano fin troppo bene la questione: il fortissimo legame che unisce le moltitudini di Baudelaire allʼimmagine fotografica – geneticamente parlando – non ha niente a che vedere con la maggiore leggibilità di questʼultima o, addirittura, con unʼaspirazione rivoluzionaria delle masse, intenzionate a sostituire allʼarte cultuale e aristocratica della tradizione una nuova forma artistica che potesse essere finalmente fruibile da tutti.
Il fondamento del legame, lungi dal posizionarsi nella genesi della tecnica fotografica o nellʼafflato rivoluzionario delle masse, trova la sua origine accanto alla fotografia stessa, nelle «condizioni sociali», nel comune humus storico-culturale che vide nascere entrambe.
«Del resto, per quel che si riferisce allʼindividuo, ciascuno è senzʼaltro figlio del suo tempo»[5]
È, dunque, la temperie storica, sociale, culturale il terreno da sondare e interrogare perché si possa sperare in una qualche conoscenza riguardo il rapporto tra lʼimmagine fotografica e le masse di fruitori ma anche, e soprattutto, riguardo la funzione che il fotografo si trova a ricoprire nel mondo cui appartiene.
Posando lo sguardo su questo secolo (il XIX secolo; il «nostro disgraziato secolo diciannovesimo», come lo ebbe a chiamare Dostoevskij) lo spettacolo che ci si staglia innanzi è quello di una copiosa emorragia: i primi frutti, maturi, dellʼepoca moderna avevano iniziato a dissanguare il modello aristocratico, che sino a allora aveva dominato, sotto la spinta del primo capitalismo industriale, delle sue borghesie e delle sue masse popolari inurbate (non è un caso che i primi fotografi di professione vedano il proprio cliente come «appartenete a una classe in ascesa»).
Sul versante filosofico gli idealismi, sul retaggio della Lumière e dellʼAufklärung, segnano il trionfo della ragione contro lʼoscurantismo dellʼinarrivabile distanza misterica e trascendente della tradizione. In ambito artistico, il romanticismo (come ha brillantemente sottolineato Benjamin), con la sua costante attenzione allʼesperienza della distanza (ispirata) tradisce, proprio in sé, la crisi di quegli schemi tradizionali, nel cui grembo era nata e cui ancora voleva, anzi, esigeva rifarsi in quanto, essenzialmente, arte.
Ma già di per sé, anche la stessa fine dellʼancien régime, con la sua negazione delle sacralità antiche, aveva segnato un punto di non ritorno, destinato tuttʼaltro che a regredire.
Su questo palcoscenico della storia, il fotografo si impone, dunque. Ma con quale funzione? Il suo contegno rispettoso nei confronti dellʼarte, gli inizî (in sordina) della fotografia non ci permettono di figurarcelo come il corifeo delle masse, lʼintenzionato, deciso iniziatore di una nuova era. Sembra quasi che la novità di cui era foriero si sia librata dalle sue immagini senza che egli (almeno inizialmente) neppure lo volesse.
Chi è, allora, questo fotografo?
(Continua)
[1] Walter Benjamin, Piccola Storia della fotografia, trad. it. in L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica – Arte e società di massa, con una nota di Paolo Pelluga Einaudi, 1955, p. 75
[2] Walter Benjamin, op. cit. pp. 71-72
[3] Walter Benjamin, op. cit. p. 68 (corsivo mio)
[4] Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica – Arte e società di massa, con una nota di Paolo Pelluga Einaudi, 1955, pp. 9-10
[5] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti della filosofia del diritto, Prefazione
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