Un impero e i suoi barbari

Finis Gloriae Mundi: il fotografo e il suo tempo – Introduzione

La diffidenza e il disprezzo nutriti nei confronti della fotografia (tanto della fotografia in sé quanto della fotografia nel suo rapporto di incontro e scontro con lʼarte) affondano le proprie radici sin nei suoi immemori primordî.
Tuonò Baudelaire, terribilmente, contro di essa e contro la sua «nuova industria che ha contribuito non poco a rafforzare nella sua fede la piatta stupidità»; contro «la sua naturale alleanza con la moltitudine».
Settantʼanni dopo Benjamin nella sua Piccola storia della fotografia delineò lʼimmagine come del frutto di una sensibilità immeschinita, dedita al cieco impossessamento delle cose e allo svuotamento del loro significato.
Balzac la guardò con sgomento e sospetto e contro il suo valore di verità tuonò ancora Rodin (di un tuono fragoroso, non di uno di quei sordi brontolî che scuotono lʼaria di lontano) affermando «è lʼartista che è veritiero ed è la fotografia che mente».

Cento e centʼaltre critiche si sono succedute e ammassate col tempo, lʼimmagine fotografica è divenuta onnipresente, ma quel che più è restata nellʼombra è la figura del fotografo. Sembra impossibile che questo ministro dellʼobiettivo (uomo dedito alle ombre, invisibile tramite tra il mondo della realtà e quello dellʼimmagine) possa essere stato quasi del tutto ignorato – difatti è proprio lui che, con la sua mimica misterica, aziona intenzionalmente e coscientemente (se non, addirittura, coscienziosamente) il meccanismo che permetterà, alfine, la risoluzione fotografica.
Eppure le accuse e le critiche che lo hanno investito assieme al nuovo ritrovato tecnologico, sono state a tal punto superficiali da non averlo scalfito minimamente (lʼodierna diffusione dellʼimmagine fotografica, credo, possa testimoniare qualcosa). Unʼimpotenza forsʼanche dovuta alla loro origine lontana, atavica, sorta in seno al divario tra teorèsi e prassi, tra immaginazione e rappresentazione; allʼinsegna del disprezzo che il ποιητής[1] (lʼalto fattore, ministro di innominabili potenze magiche) ha nutrito – sembra proprio “da sempre” – nei confronti del τεχνίτης[2] (il produttore volgare, asservito a pratiche eteronome e inetto a ogni creazione originale).

È in questa prospettiva che la fotografia, con la sua strepitosa irruzione quanto inaspettata, nasce e comincia ad affermarsi sotto lʼocchio altero di quanti non vi scorgono che il gingillo del pittore mancato o, peggio, del cattivo pittore il quale, a seconda della propria bile, si trova così nella condizione di potersi rivalere con tutti i mezzi e lʼ“arte” del mestiere sul proprio fallimento.
È in questo modo che, nellʼimmagine fotografica, si è visto (o si è voluto vedere) uno strumento al servizio di animi incapaci.
Incapaci, innanzitutto, di quella dialettica misterico-filosofica propria della pratica artistica, di quel mutuo scambio che rendeva lʼuomo, mago nel senso più spirituale della parola. Quel senso, già toccato e espresso da Plotino e dai neoplatonici, di un essere che nel suo dialogare con ciò che lo circonda attua una vicendevole compenetrazione, una dinamica che contempla allo stesso tempo un habere e un haberi, sulla strada per il raggiungimento delle più alte e compiute vette dellʼessenza.

La fotografia si macchia, così, nel suo stesso essere ciò che è, dellʼodioso delitto di lesa maestà nei confronti dellʼarte: nata, come già aveva sottolineato Hegel (e come non mancherà di dire anche Benjamin), allʼinsegna della prassi cultuale e votata alla distanza promanantesi da un contenuto trasfigurato (al di là della sua riconoscibilità) sub specie aeternitatis, essa non avrebbe voluto in alcun modo compromettersi con lʼultima arrivata né, dʼaltro canto, avrebbe potuto.
Allora diviene evidente la ragione per la quale, contrapposto a questa divina immagine dellʼartista (unʼimmagine che continuerà ancora per molto tempo, per non essere, forse, ancora del tutto spenta), il fotografo, tecnico per eccellenza, finisca per essere addirittura incolpato di blasfemia: la sua tecnica, lungi dal voler instaurare un dialogo con ciò che ritrae, perviene alla totale demistificazione del suo oggetto, alla eradicazione da esso di ogni mistero nonché di ogni senso ulteriore. Là dove essa posa il proprio occhio, là pone in maniera definitiva e inequivocabile uno spoglio obiectum[3], un qualcosa che, non solo non preserva più, in sé, traccia di distanza e insondabilità ma che, addirittura, è (proprio in quanto solo e semplice obiectum) inoffensivo, immobile, cieco e sordo; utilizzabile.

È stata lʼisteria di un mondo in pericolo (quello della tradizione e dellʼarte classica) a considerare la tecnica fotografica lo strumento votato dallʼinsipiente allo sfogo della propria smaniosa e barbarica volontà: incapace di sostenere il peso del mysterium e della lontananza, la fotografia gli avrebbe permesso, finalmente, di instaurare quel solo vincolo di potere che fosse alla sua portata (un potere tutto pratico, che si risolve nellʼassoluta e libera disponibilità dellʼoggetto al volere del soggetto), su ciò che lo circondava e che, fino a allora, era rimasto soffocato da quel mistero, che avvolgeva il mondo, e che lui non avrebbe potuto né sarebbe riuscito a penetrare e comprendere.
Ma la fotografia (se non la tecnica in sé, almeno i suoi prodotti e la sua incredibile diffusione e onnipresenza) pare suggerirci che il suo sia stato qualcosa di più di un semplice tentativo di abbassare il valore e il significato del mondo a uso e consumo di quella moltitudine di cui Baudelaire intuisce tutta la pericolosa volgarità. Nondimeno ci porta a considerare la nascita e lo sviluppo della tecnica fotografica in termini certamente non degenerativi rispetto alle epoche precedenti, giacché tanto lʼipotesi del pervertimento dellʼimmagine quanto la tentazione di voler costringere il tutto nella fitta tela della smania di potere e di dominio di un uomo che poco è più che bestia appaiono spiegazioni veramente troppo semplicistiche.

Se non altro, almeno a prima vista, lʼipotesi degenerativa non tiene conto dellʼeccezionalità della fotografia (se non allʼinterno della più ampia visuale dellʼarte tradizionale). Ma così manca di individuarne il dato di assoluta novità che la contraddistingue e la tiene discosta dallʼarte tradizionale; non riconosce, nel momento del suo manifestarsi, in punto di non ritorno per ciò che seguirà (in termini più specifici, il momento cairologico[4]).
Parimenti, vedere la fotografia come strumento di rivalsa della massa barbara e incapace di penetrare nel mistero delle cose, non tiene conto di tutti gli sviluppi (anche notevolissimi) che la tecnica fotografica e i suoi prodotti hanno avuto nel corso del tempo, finendo, così, per appiattire lʼinterpretazione su una dimensione reazionaria e promotrice di una visione filistea dellʼarte, incapace (questa per davvero) di penetrare nella novità del tempo (non tanto cronologico quanto umano) che la fotografia ha inaugurato.
Cosa scorgere, dunque, nellʼimmagine fotografica? Quale volontà le ha permesso di plasmarsi?

(Continua)

 

 

 


[1]    [/poietès/ vocabolo greco da ποιέω /poièo/, fo]. – Letteralmente ‘colui che fa, ‘autore’

[2]    [/technìtes/ vocabolo greco da τέχνη /tèchne/, arte, mestiere, professione]. –  Letteralmente ‘artigiano’, ‘artefice’

[3]    [vocabolo latino participio del verbo ʻobicioʼ, gettare davanti o verso; porre davanti ]. – Letteralmente posto, situato di fronte o davanti, opposto. Nel lessico filosofico indica, ciò che si oppone al soggetto in quanto realtà a lui esterna e estranea.

[4]    [dal greco antico καιρός /kairόs/, con significato di tempo il tempo giusto; la buona occasione; il momento propizio]. –  Aggettivo riferito al tempo in contrapposizione a cronologico: designa il tempo non logico né sequenziale in cui, nello stesso suo accadere, accade e si manifesta un evento eccezionale (allʼinterno della cultura occidentale il momento cairologico per eccellenza è, tradizionalmente, la nascita di Gesù Cristo).


Parte della serie Finis Gloriae Mundi: il fotografo e il suo tempo

Commenta