Un film fuori dal coro

Intervista a Sergio Misuraca, regista della commedia-gangster "Fuori dal coro"

«Ancora oggi, non saprei dire per quale motivo sono andato via dalla Sicilia. E se m’avessero detto che prima o poi sarei tornato, gli avrei risposto che si sbagliavano. Avrei scommesso qualsiasi cosa, anche di non bere mai più un Negroni, ma ho imparato che nella vita solo su due cose non si può essere mai sicuri: di quando si muore e di quando a volte, pur non volendo, è necessario tornare in Sicilia». Sergio Misuraca, siciliano di Terrasini emigrato a Los Angeles per inseguire un sogno e tornato poi in terra natia dove quel sogno l’ha realizzato, apre con queste parole, pronunciate dallo zio Tony di Alessandro Schiavo, la sua opera prima Fuori dal coro, ambientata nella sua Sicilia in cui a volte, pur non volendo, “è necessario tornare”. Il film racconta la storia di Dario (D. Raimondi) e Nicola (A. Barone), due ragazzi disoccupati che cercando di tirare avanti finiscono, per colpa di un professore e di una Panda rossa, nel giro della criminalità organizzata, in un pericoloso asse Sicilia-Roma da cui l’esperto zio Tony (A. Schiavo), parente di Dario, prova a tirarli fuori. Quello di Misuraca, 42 anni e lo spirito di un ragazzino, è un esordio brillante e pieno di vitalità; un film in tre atti che comincia come una commedia, ma non ha paura di aprirsi a toni drammatici e grotteschi, per poi sfociare nella tragedia. Un’opera originale, che recupera le passioni del regista di Terrasini – da Tarantino a Guy Ritchie, da Scorsese al Piva de LaCapaGira – e cala nel sottobosco criminale la spassosa sicilianità dei due giovani protagonisti.

Sergio, da dove nasce l’idea di questa tua opera prima, di cui sei anche autore?
«Fuori dal coro nasce soprattutto dal desiderio di misurarmi con un film vero e proprio, perché l’approccio che ho avuto con il cinema è stato veramente amatoriale, molto sperimentale, di divertimento, di coinvolgimento degli amici, con cui abbiamo fatto delle operazioni sempre a costo zero. Nasce dal desiderio di vedere in immagini quello che avevo scritto, per capire se alcune cose funzionavano, per avere la possibilità di misurarmi con qualcosa di più grosso. E chiaramente quando mi sono ritrovato a misurarmi con Fuori dal coro è stato un progetto più grande di me, e ci sono stati momenti in cui ho avuto delle difficoltà».

In queste difficoltà, quanto è servito l’aiuto e il coinvolgimento delle persone che hanno lavorato nel film, e che atmosfera si è creata sul set? Te lo chiedo perché il film trasuda vita, si sente che c’è divertimento, che c’è allegria.
«Questo è un film che senza il coinvolgimento, totale, di tutta la troupe e il cast non era possibile realizzare. E si vede, hai detto bene. Secondo me è un film sincero e dove c’è veramente cuore. Non si può avere la presunzione di dire “Io ho fatto il film”. Il film l’abbiamo fatto tutti. C’è gente che ha lavorato a costo zero, facendo 15 ore al giorno, persone che mi hanno dato la massima disponibilità, ma anche gli attori stessi, che sono quelli che magari hanno delle esigenze diverse. Tutti ci hanno creduto. Gli elettricisti sono scesi da Roma dicendomi: “Abbiamo letto la sceneggiatura. Troppo forte, ci piace. Siamo contenti di farlo”. E non è che in tutti i film agli elettricisti gliene fotte un cazzo della sceneggiatura. Fanno il loro lavoro, sono pagati e buonanotte. Qua c’era invece quest’atmosfera amichevole di dire “facciamolo, anche se non guadagniamo niente, perché c’è un sacrificio dietro questa cosa”; non ci sono stati aiuti economici da fondi pubblici, quindi anche questo ha spinto pure gli altri a dare una mano in più. Hanno dato più del 100% anche per questo, perché hanno capito il sacrificio e la volontà di portarla a termine, questa cosa».

E tanto di questo cuore viene anche dal legame con la tua terra. Quanto è forte questo legame e come mai hai scelto di girare non soltanto nella tua terra, ma proprio nella tua città?
«Per due motivi: per una questione economica, ma soprattutto perché avevo voglia di far vedere Terrasini, la sua bellezza. E quando dico Terrasini intendo poi la Sicilia, perché io sono legatissimo alla mia terra. Sono andato via, quindi ho avuto la possibilità di confrontarmi con un’altra realtà, che è quella americana tra l’altro, quindi grande, enorme, e soprattutto difficile nei rapporti sociali. Qua io mi sento bene, io vivo bene nonostante la Sicilia sia un posto maledetto, tra virgolette, perché non è che io sono cieco e neanche cretino. Lo vedo che qua ci sono dei problemi, questo a me duole, perché sarei molto più contento se tutto funzionasse bene, se non ci fossero le situazioni che purtroppo spesso accadono. Succede in tutto il resto d’Italia, solo che qua è chiaro che sono un po’ più amplificate, e diciamo che la nostra storia non aiuta in questo senso.
E poi c’era proprio l’idea di far vedere una Sicilia solare. Questo abbiamo cercato di farlo e mi auguro che poi venga anche apprezzato, il fatto di fare vedere una Sicilia moderna, nuova, non con i classici stereotipi: donne vestite di nero, lupare, coppole… Tra l’altro è un film di cui molti dicono “chiaramente ci sono dei riferimenti alla mafia”. Io ho cercato in tutti i modi di non darli, questi riferimenti, però appena c’è un morto ammazzato in Sicilia automaticamente è un omicidio di mafia».

In realtà, anche grazie alla scelta di genere, il film si svincola dai riferimenti sociali. Si vede che la Sicilia è importante, ma è altrettanto importante la volontà di fare un film puro…
«…legato anche a questo asse Sicilia-Roma, di malaffare, a personaggi che sono completamente distanti dalla realtà siciliana, come può essere la delinquenza slava, in questo caso. Ci ho provato, spero di esserci riuscito, non sta a me dirlo, però ho avuto dei pareri e delle interviste in cui questi riferimenti sono stati fatti, perché associano subito il malaffare a ‘mafia’, parola che tra l’altro non viene mai pronunciata, proprio perché ho cercato di allontanare quel tipo di cinema dal mio film».

Il fantasma sociale diventa anche una condanna, nel momento in cui si fa un film legato a certi territori, ma che magari vuole raccontare semplicemente altre storie, altri personaggi.
«Io ho raccontato una storia che sarebbe potuta accadere in un’altra parte d’Italia, però è chiaramente in Sicilia, e si vede che è in Sicilia – ci sono riferimenti legati a feste e ad altre cose che sono legate alla mia terra –, però è una storia di pura fantasia, magari ci sono dei personaggi che nel mio percorso di vita ho incontrato. Si è cercato di fare qualcosa di diverso, anche con un film che ha una doppia anima».

Questa volontà di mostrare la Sicilia, il suo aspetto solare ma anche l’umanità e i personaggi che la abitano, si riversa nel modo in cui la storia è messa in scena. Il film comincia su toni di commedia, su toni solari, e poi vira su tonalità totalmente diverse, dal grottesco al drammatico.
«L’idea è quella di mettere lo spettatore, che sta considerando il film una commedia classica, con questi due protagonisti che cazzeggiano, perdono un po’ di tempo facendo le cose che a loro piace fare, e che poi si trovano in un gioco più grande di loro. A un certo punto il film cambia tono, in tutti i sensi: cambia nelle musiche, cambia nella fotografia. Si è cercato di dare allo spettatore un altro film. Questa è un’operazione chiaramente rischiosa, perché magari la gente non è abituata a questo, però è sicuramente una cosa che noi volevamo fare».

In questo senso e in molti altri è il film davvero Fuori dal coro. Fuori dal coro per la scrittura, per il modo in cui la storia vira senza dare riferimenti, con uno stacco netto, come poi può succedere in ogni momento nella vita reale, ma fuori dal coro anche perché tu hai scelto – in un cast che vede anche la presenza di comprimari di alto livello come Ivan Franek (La grande bellezza) e Aurora Quattrocchi (È stato il figlio, Anime nere) – due protagonisti giovani: Alessio Barone e Dario Raimondi.
«La scelta era questa ed era quella giusta. Noi abbiamo fatto un lavoro di preparazione con Dario, Alessio e Alessandro Schiavo che è partito tre mesi prima del film. Io a loro ho richiesto la disponibilità di venire qua in Sicilia a provare, perché in loro avevo visto le caratteristiche giuste. Con Dario ci conosciamo da più tempo, abbiamo anche fatto un cortometraggio assieme e c’è una stima reciproca. È una persona che a me serviva perché Dario è una bella faccia ed ha il taglio che avevo pensato io: una persona che è un po’ semplice e perciò si ritrova in cose brutte suo malgrado. Dario Raimondi non è stupido come il suo personaggio, però sicuramente è una persona buona, di cuore buono, che magari ad essere così buono a volte, come diciamo noi in Sicilia: “Quando uno è troppo buono è anche minchia”.
Dario e Alessio sono due buoni, e io sono assolutamente strafelice di aver avuto la possibilità di lavorare con loro. C’erano giornate in cui avevamo tre ore libere e Alessio non era in programmazione per la giornata e noi lo chiamavamo: “Alessio, dai, abbiamo la possibilità di girare due ore una scena, che fai, vieni?”. Non è una cosa da tutti.
Voglio fare un altro appunto, sulla fiducia che mi ha dato, e che io ho contraccambiato, il direttore della fotografia Giuseppe Pignone. C’è stata intesa, c’è stato feeling. È chiaro che poi sul set si possono avere opinioni diverse su alcune cose, però io mi sono fidato di lui e sono veramente contento del lavoro fatto. E quando parlo di Giuseppe parlo di tutte le persone che erano coinvolte nel suo reparto. È stato bello scoprire una persona che si è dimostrata sincera, che ha fatto il lavoro al massimo e ci ha creduto fin dal primo momento».

Spesso in film dal budget ridotto, con 15 ore al giorno di lavoro, dalla storia stessa del film nascono altre storie. Ci sono episodi del set che vuoi raccontare?
«Ce n’è uno che è pazzesco. Avevamo un’esterna e quel giorno pioveva; non avevamo la possibilità di rimandare ad un altro giorno perché eravamo completamente limitati, in questo senso, e abbiamo optato per un’alta location vista un’ora prima, che è una delle location più belle del film. Quella della scena dell'incontro con gli slavi, fatta in un posto che sembra un sobborgo newyorkese, invece è Terrasini».

Tu sei cresciuto guardando film e non studiando film, che è un approccio molto diverso, a volte persino migliore. Spesso questo genere di film hanno molta più vita di tante altre pellicole girate da professionisti del cinema, perché sono fatti di cuore, di passione. Sono film che negli ultimi anni stanno tornando a fare parte del nostro panorama cinematografico, da cui mancavano da tempo. La vitalità che esce dal film è forse una delle cose più belle di Fuori dal coro.
«Anche perché il film ritengo che non sia un film dove ci sono degli eccessi, non c’è l’idea di dare segni autoriali. Lungi da me fare l’autore, io volevo raccontare una storia, che ha una sua freschezza. Io vedo tantissimi film, vedo tanto cinema italiano. Di molti film non riesco neanche ad arrivare ai venti minuti, però cerco di vedere cosa c’è in giro. Ed è un film sicuramente un po’ diverso da quello che siamo abituati a vedere, questo penso che sia innegabile. Poi può piacere o non piacere, ma io ci ho provato, a fare una cosa diversa. E chiaramente anche in questo ha avuto un ruolo importante Microcinema, che quando l’ha visto ha detto che “è un film complicato da distribuire, però noi lo distribuiremo perché ci crediamo”. Complicato perché io non sono nessuno, non abbiamo nomi da cartellone, e purtroppo nel panorama cinematografico italiano questo è quello che ti dà la possibilità di vendere più biglietti. I film che incassano di più sono quelli che hanno sempre più sale, che hanno una distribuzione e una produzione che è la stessa. Diciamo che è molto facile vincere, in questo senso. Se tu fai un film di merda e lo metti in 600 sale come fai a perdere, se i cinema sono pure tuoi? Tu hai produzione, distribuzione e le sale cinematografiche di proprietà. Non puoi perdere. Con un’operazione commerciale giusta, se va malissimo vai alla pari. Ma questo non è cinema, è matematica. Mi auguro che in futuro ci siano tante possibilità per molti giovani che hanno studiato cinema, che hanno voglia di fare cinema, di potersi confrontare insieme agli altri, non essere chiusi solamente da sette, otto registi e cinquanta attori».

Hai detto più volte che uno dei registi italiani che stimi di più è Paolo Sorrentino, che a proposito del cinema una volta ha detto: «Mi sono avvicinato da spettatore, e poi ho pensato che il cinema fosse un’attività che richiedeva solo un buon dilettantismo per cominciare, e dunque mi è sembrata una cosa possibile per me. Voglio dire che per iniziare a fare cinema non occorre essere dotati preliminarmente di una grande tecnica, come ad esempio per suonare la chitarra o per dipingere o fare una scultura. Mi ero fatto l’idea che il cinema potesse essere il rifugio del dilettante, e che era divertente mettermi alla prova». Sembra che persino Sorrentino abbia cominciato con il tuo stesso percorso.

Al paragone con Sorrentino Sergio s’imbarazza. Dalle sue parole emerge la soddisfazione per un traguardo raggiunto, lo stupore di un entusiasmo, il suo, che è riuscito a contagiare tutta la troupe, ma anche e soprattutto l’incredula umiltà di un uomo che ha realizzato il sogno di una vita: «Sono sincero: io non mi sento un regista, anche se ho fatto il regista. È strano a dirsi, però lo penso. Io ho voluto mettermi alla prova e ho avuto la possibilità di realizzare un piccolo miracolo. Perché, veramente, quando io ho iniziato a pensare e a scrivere non avrei neanche sognato che poi effettivamente il film potesse uscire nelle sale, anche se ci ho sempre sperato». E invece il film è uscito, nelle sale, in tutto il territorio siciliano e presto nelle principali città d’Italia. Un film che sta già facendo divertire mezza Sicilia per merito di una sceneggiatura brillante, di un’affiatata compagnia d’attori e di Sergio Misuraca, il regista di Fuori dal coro. «Ho difficoltà a concepirlo, quando dicono “ah, il regista di Fuori dal coro”. Un po’ mi suona strano», confessa ridendo. «Con il tempo sto metabolizzando l’idea di essere il regista del film».

 

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