Un burattino d’autore
Sul Pinocchio di Matteo Garrone e le visioni letterarie e cinematografiche del burattino di Collodi
“Ma nel 2019 ancora non si sono stancati di ‘sto Pinocchio?”, si domanda lo spettatore di fronte all’ennesimo adattamento. La perplessità è legittima, come del resto lo è sempre quando si ha a che fare con una storia portata innumerevoli volte sullo schermo, ma è anche vero che il burattino di Collodi, nato prima a puntate tra il 1881 e il 1882 e poi pubblicato in volume nel 1883, ha suscitato l’interesse del cinema sin dai suoi albori. Film, mediometraggi, serie animate (persino due anime giapponesi), musical, fumetti, pièce teatrali sono nate attorno a Pinocchio. Staccatosi di dosso l’etichetta di romanzo per ragazzi, una volta entrato nel canone della nostra letteratura, il capolavoro collodiano ha affascinato non solo generazioni di comuni lettori, ma anche folte schiere di scrittori, artisti e intellettuali.
Basti pensare a un gigante come Carmelo Bene, che portò la sua personalissima riduzione sui palcoscenici per ben quattro volte (1961, 1966, 1981 e 1998), con tanto di versione televisiva, traendone inoltre tre drammi radiofonici e un disco. Aggiungiamoci anche Giorgio Manganelli, che nel 1977 lo rilesse in una via di mezzo tra commento, saggio e riscrittura: un oggetto letterario non identificato come spesso accadeva con l’autore di Centuria, intitolato Pinocchio. Un libro parallelo, nel quale emergono sia la genialità di Manganelli sia quella di Carlo Lorenzini in arte Collodi, nonché la ricchezza e le molteplici stratificazioni del suo testo. A riscriverlo ci provò anche un russo, Aleksej Tolstoj, appartenente al medesimo casato ma non imparentato col Tolstoj che conta: nel 1936, stravolse la storia alla sua maniera con un libro uscito in Italia solo nel 1984 per Stampa Alternativa col titolo Il compagno Pinocchio, trasposto nel 1976 per la tv, sempre in russo. E si potrebbe proseguire a lungo. Come ultima nota, è giusto ricordare anche Burattino senza fili, uno dei migliori album di Edoardo Bennato uscito nello stesso anno del libro parallelo di Manganelli che è, per l’appunto, un concept incentrato su Pinocchio.
Nel cinema troviamo adattamenti d’ogni tipo – pensiamo allo stesso A.I. di Steven Spielberg, che gli è debitore neanche troppo alla lontana – e per ultimo il Pinocchio del 2019, firmato da Matteo Garrone. La sfida, per il regista romano, era ambiziosa e nel contempo ardua: da un lato, per via della milionesima riproposizione dello stesso plot; dall’altro, per il confronto con un precedente illustre. No, non il disastro di Benigni del 2002, tanto fallimentare da divenire degno di nota per il suo voler a tutti i costi scimmiottare la messa in scena felliniana (pure Fellini avrebbe voluto fare il suo Pinocchio, se la morte non ci si fosse messa di traverso, e Benigni avrebbe dovuto recitarvi da protagonista); e neanche il film Disney, che dopo ottant’anni resta un fulgido esempio di animazione, senza però nulla di davvero pinocchiesco: se lo si guarda pensando a Collodi, vien quasi voglia di rivalutare quello di Benigni. E no, il precedente illustre non è nemmeno la buona prova di qualche anno fa (2012) di Enzo D’Alò, film animato splendidamente disegnato da Lorenzo Mattotti, autore di La famosa invasione degli orsi in Sicilia, anche lui già misuratosi in passato con la marionetta al pari di tanti altri disegnatori e illustratori, e con la musica dell’allora da poco scomparso Lucio Dalla.
Per sua stessa ammissione, Garrone si è confrontato con Le avventure di Pinocchio (1972) di Luigi Comencini con un immenso Nino Manfredi nel ruolo di Geppetto
Naturalmente, per sua stessa ammissione, Garrone si è confrontato con Le avventure di Pinocchio (1972) di Luigi Comencini, a oggi il miglior adattamento filmico, indovinato tanto per la formula dello sceneggiato – sei puntate di circa un’ora, poi rimontate in un comunque ottimo film di due ore e un quarto – quanto per la scelta delle ambientazioni e del cast, su tutti un immenso Nino Manfredi nel ruolo di Geppetto. Comencini, avvalendosi di una co-sceneggiatrice di razza quale Suso Cecchi d’Amico, si focalizzò sui risvolti più veristi, quasi verghiani e meno fiabeschi del testo, restituendo allo spettatore un film dimesso, sobrio, povero come i suoi personaggi, incredibilmente umano e non per questo meno magico. Andrea Balestri, il bambino che interpretava Pinocchio, stava sulla scena per gran parte del tempo senza trucco alcuno: in assenza delle tecnologie necessarie, si scelse da subito di tramutare il pupazzo di legno in bambino, che in seguito alle varie marachelle veniva fatto tornare burattino dalla fatina Gina Lollobrigida. Anche questa fu una scelta azzeccata, così come, tra i tanti elementi della pellicola, le musiche di Fiorenzo Carpi, entrate nelle orecchie degli italiani di ogni età.
Insomma, il terreno, per Matteo Garrone, era parecchio scivoloso: da tempo voleva realizzare il suo Pinocchio e in molte interviste ha affermato d’aver iniziato a disegnarlo a sei anni; e infatti a ispirarlo, oltre al testo e al film di Comencini, ci sono stati anche i disegni, in particolare quelli della prima edizione in volume a firma Enrico Mazzanti. Da lì, la necessità di piegare la trama a una poetica ampiamente consolidata da film – sempre in bilico tra l’ottimo e il capolavoro – come L’imbalsamatore (2002), Primo amore (2004), Gomorra (2008) Reality (2012) e Dogman (2018). Lì in mezzo, c’è poi Il racconto dei racconti (2015), tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, primo vero banco di prova col fantastico per un regista sempre pronto a contaminare a suo piacimento anche le narrazioni più realistiche. Tolte le prime tre acerbe regie (Terra di mezzo, 1996; Ospiti, 1998; Estate romana, 2000), dove già s’intuiva il talento dietro la macchina da presa, nel cinema di Garrone sono sempre state peculiari le atmosfere oscure, l’equilibrio pressoché perfetto tra il film d’autore e il genere, due elementi che invero non dovrebbero escludersi a vicenda. Il noir, la fiaba, il grottesco e il dark spesso dominano i suoi film, e lo stesso avviene in parte anche in Pinocchio.
Perché in parte? Diciamo che Pinocchio di Garrone soffre, rispetto alle altre pellicole, di una certa freddezza, se vogliamo di un’eccessiva perfezione: tutto fila via privo di sbavature, ma a venir meno a tratti è il coinvolgimento. Il film conferma sin dalle prime inquadrature l’estetica dell’autore, ma al tempo stesso si fa fatica a rintracciare una scena memorabile, arricchita dai suoi virtuosi e al tempo stesso impercettibili movimenti di macchina, sempre al servizio della storia e dei personaggi. Chi guarda ha gli occhi riempiti dall’eccellente lavoro sulle scenografie, sui costumi e sulla scelta dei luoghi. Notevoli anche il trucco (quattro ore quotidiane di trucco per far diventare un burattino il giovanissimo Federico Ielapi), lo scarso uso della computer-grafica e la fotografia del ritrovato Nicolaj Brüel: dopo Dogman, lo spettacolo è assicurato. Ma tutto questo bendidio non basta, e per assurdo a far inciampare Garrone è stato il troppo attaccamento al testo.
Leggendo il romanzo ci rendiamo conto della sua costruzione episodica, a mo’ di poema eroicomico nel quale le singole avventure del burattino, di per sé quasi auto-conclusive, potrebbero potenzialmente moltiplicarsi all’infinito, e dove l’evoluzione del protagonista non è tralasciata, anzi la si avverte sottotraccia fino alla svolta finale. Ma tale architettura, sulla pagina tutt’oggi impeccabile, mal si presta a essere riportata filologicamente sullo schermo, quantomeno non a essere compendiata come viene fatto nella rilettura garroniana. La riuscita dello sceneggiato di Comencini, ad esempio, risiedeva anche nella dilatazione della durata, utile a ritagliare i giusti tempi per le varie tranche narrative e i personaggi: cosa impossibile per i 125 minuti del Pinocchio in questione, che soffre di una evidente frammentarietà e di qualche scelta affrettata in fase di sceneggiatura, scritta dal regista assieme a Massimo Ceccherini, nel film nella parte della Volpe.
Uno dei difetti del film è il didascalismo con cui alcune figure-chiave della trama vengono trattate. Su tutte il Mangiafuoco di Proietti è quella che ne esce con le ossa più rotte
Uno dei difetti è il didascalismo con cui alcune figure-chiave della trama vengono trattate. Su tutte, Mangiafuoco è quella che ne esce con le ossa più rotte: la dinamica della sua scena ricalca grossomodo quella del romanzo e anche quella comenciniana, con Pinocchio al principio accolto sul palco dai suoi fratelli burattini. La festa viene poi interrotta dall’arrivo del burattinaio, una sorta di incrocio tra uomo e orco, un personaggio «insanabilmente duplice», scrive Manganelli, giacché esercita la sua autorità solo sulle sue creature di legno, e dietro all’aspetto a tratti mostruoso e all’irascibilità nasconde una commovente umanità. Il capo del Gran Teatro dei burattini decide di buttare nel fuoco Pinocchio per arrostire il suo montone, ma lo grazierà, e lo stesso farà con Arlecchino un attimo dopo; darà anche a Pinocchio le cinque monete d’oro da portare al suo povero babbo, quelle che il Gatto e la Volpe (rispettivamente qui Rocco Papaleo e Ceccherini: abbastanza sfocato il primo, ottimo il secondo) tenteranno di rubargli a ogni costo.
Il problema della resa di questa sequenza sta innanzitutto nella recitazione di Gigi Proietti e nel poco spazio che gli viene concesso: non è colpa sua se il suo Mangiafuoco appare tanto piatto e senza il pathos che uno si attenderebbe dalla scena, qui davvero riassuntiva e compressa. L’attore lavora per sottrazione, ed essendo Proietti il tutto è ancor più paradossale.
Al contrario, l’omino di burro compare per breve tempo ma è invece ben tratteggiato: Nino Scardina presta corpo e voce a un uomo benevolente con i bambini, inconsapevoli della fine che riserverà loro al Paese dei balocchi dove Pinocchio, Lucignolo e gli altri ragazzi diverranno dei ciuchini, supervisionati dalle amorose lusinghe dell’omino di burro, ideale rovesciamento della positiva duplicità di Mangiafuoco.
Un plauso va poi a Benigni: dopo aver impersonato un inspiegabile Pinocchio cinquantenne – ma non inspiegabile quanto sua moglie a fare la fata – si riscatta con un magnifico Geppetto, un ruolo che Garrone gli ha cucito addosso e in cui il fisico asciutto e il talento del comico hanno fatto il resto. In questo caso l’interpretazione sotto le righe, per un attore che avrebbe potuto facilmente gigioneggiare, ha pagato. Le scene con al centro il babbo di Pinocchio sono tra le migliori del film, quelle in cui più di tutte è riconoscibile la mano del regista, equilibrata nel dosare gli ingredienti più cupi mischiandoli ai toni comici, alternando i freddi e polverosi squarci di miseria allo scintillio della fiaba; una fiaba che pullula di chiaroscuri, di paesaggi tardo-ottocenteschi incontaminati, di animali surreali e allegorici come nel testo di Collodi, un aspetto su cui Garrone ha puntato molto e che ha centrato, sia per gli interpreti (su tutti, il Grillo Parlante-Davide Marotta e la Lumaca-Maria Pia Timo) che per la resa visiva.
Dopo aver impersonato un inspiegabile Pinocchio cinquantenne, Benigni si riscatta con un magnifico Geppetto. Le scene con al centro il babbo di Pinocchio sono tra le migliori del film
Il film di Garrone resta però non del tutto riuscito, specie alla luce della qualità degli altri suoi lavori. Al netto delle grosse ambizioni e dei punti di forza esibiti dal comparto tecnico, è da relegare alla schiera dei suoi lavori minori. Il suo Pinocchio resta un po’ a metà, né troppo per adulti né troppo per bambini, né troppo collodiano né troppo personale; intrattiene piacevolmente ma manca di un vero guizzo autoriale, e viene da chiedersi come sarebbe stato con un più convinto tradimento del testo di partenza – un Pinocchio tutto napoletano o romanesco?, vista anche la particolare mescolanza di dialetti a cui si assiste. Il regista ha voluto tributare il suo amore attraverso un buon prodotto che sa più di sentito omaggio che di vero adattamento: da lui ci si sarebbe attesi qualcosa di più coraggioso, magari imperfetto ma capace di stupire. Intanto, mentre si parla e si scrive di questo film, da aggiungere alle famiglie intere di Pinocchi passati, s’intravedono all’orizzonte quelli di Guillermo Del Toro e di Zemeckis: il primo, un musical in stop-motion; il secondo, il rifacimento in live-action del vecchio film Disney del quale non si sente granché il bisogno. Quel che è indubbio è che il ciocco di legno continuerà ancora a far parlare di sé, alla faccia di chi si è stancato di lui.
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