Tutto parla di te di Alina Marazzi
con Charlotte Rampling, Elena Radonicich, Maria Grazia Mandruzzato
C’è un cordone che reciso alle prime grida strozzate sancisce la venuta alla luce del mondo di una creatura piccola e indifesa, che a gran voce può ora autoproclamarsi ‘individuo’, di modo che magicamente l’identità e la separazione in atto vivano al contempo nel figlio che una madre impaurita tiene fra le braccia in bilico tra l’amore e il rifiuto per lo stesso. La visceralità di un legame unico e la fisicità di una distanza incolmabile trovano così sfogo in un prendersi cura dell’altro istintivo e incondizionatamente limpido, che però spesso sfocia nell’odio per una ‘colpa’ difficile da perdonare.
Dopo molti anni d’assenza dalla sua città natale, Pauline (Charlotte Rampling) torna a Torino dove intraprende una ricerca sui problemi della neo-maternità avvalendosi di interviste filmate e testimonianze fotografiche raccolte presso un Centro per la maternità diretto dall’amica Angela (Maria Grazia Mandruzzato). Qui incontra Emma (Elena Radonicich), una giovane danzatrice neo-mamma, in conflitto con le paure e le difficoltà per una vita nuova da ri-costruire alla luce dell’evento bello ma traumatico che l’ha travolta, destabilizzandone la serenità quotidiana. Tra le due s’istaurerà un rapporto di silente complicità che porterà entrambe verso una riconfigurazione matura del proprio dolore, rivolto indietro circa il viaggio tra i ricordi del triste passato di Pauline (legati alla madre), rivolto al presente e al futuro per Emma e la sua ‘iniziazione’.
Lungo i passi di una cinematografia poetica e originale, Alina Marazzi continua il dialogo privato con sua madre – morta prematuramente all’età di trentatré anni e conosciuta appena – a dieci anni di distanza dal delicato documentario Un’ora sola ti vorrei, donando allo spettatore sensazioni segrete ma al tempo stesso universali. Lo fa con un film frammentato nella dimensione percettiva della memoria, che scruta al contempo le ferite del burrascoso mondo della maternità.
Giovani mamme confidano le proprie paure con vergogna e risentimento, a volte abbandonandosi alla tenerezza – mai scontata e sempre conquistata a fatica – nei confronti della creatura che incute timore e a volte sembra rompersi tra le braccia tremanti.
La regista racconta con garbo «la misura della distanza, spesso indicibile, tra la fatica di essere madri e l’impreparazione culturale e sociale per affrontare e ammettere» un tale disagio, la «tensione dolorosa da vivere e difficile da confessare, perché va contro il senso comune di quel legame primordiale», confessa la Marazzi.
Stili, supporti e strumenti narrativi si mischiano in una commistione che disvela il tentativo raro di ricerca formale, di personale decostruzione e ricostruzione del linguaggio cinematografico esplorato, come detto, all’interno della dimensione della memoria, ma nella semantica della sofferta maternità, così restituendo, per stessa ammissione della regista, la complessità e i vari livelli emotivi del sentimento indagato. Notevole, in merito, la scena in cui Pauline ricostruisce una vecchia casetta di legno impolverata posizionando con cura i pupazzi del nucleo familiare, anch’esso, seppur nel gioco, adesso ricostruito, impreziosita da meravigliose tracce di memoria in stop motion.
Tutto parla di te non ci racconta una storia, ma il semplice incontro di due donne che, tra tante, s’intendono e si confortano in silenzio affidandosi l’una all’ascolto velato dell’altra, nella condivisione di una travolgente responsabilità in cui sono rispecchiate anche le paure di chi è o è stata figlia.
La Radonicich, distrattamente bella, il nuvolo sullo sguardo, dona la problematicità di un conflitto che impone rinunce, superato nella crescita di un personaggio che lentamente percorre il sentiero di autoaffermazione che coinvolgerà tanto la giovane donna, che oltre la riconosciuta primordialità dovrà imparare ad amare il proprio figlio e a conoscere il contenuto segreto di un sentimento nuovo, da vivere appieno e con sincerità, tanto la creatura appena venuta al mondo. La fisicità della sua danza bene si pone in contrasto alla nuova fisicità di chi è ora madre, laddove l’acqua si posa dolce sui seni – incantevole la scena della vasca. Fa da contraltare la malinconia della Rampling in un volto maturo che, composto, dona austerità e tenerezza alla complessità delle sfumature del ricordo, rivissuto nella polvere di oggetti lontani e dimenticati. Pauline invia a Emma una lettera scritta per la madre: «Oggi questa lettera ha trovato in te la madre che può accoglierla».
Forse, in parte debole la sceneggiatura, in parte abusati i contributi delle interviste alle giovani (vere) madri, addirittura a tratti si sente nel tocco il poco equilibrio sulla materia trattata, cui il coinvolgimento emotivo di Alina non può chiaramente sottrarsi: poco importa se, indubbio, resta il superamento coerente e libero verso mete più alte.
E chi si dovesse rammaricare per aver visto forse più un documentario che un film ‘consueto’ sia rinfrancato dall’aver visto finalmente un nuovo film.
«Quindi si comincia presto ad essere delle cattive madri»
ITA 2012 – Dramm. 83’ ***
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