Tutti con Draghi
La fiducia (in)condizionata al governo di Mario Draghi fra illusioni, compromessi e speranze
Due mesi fa, quando da questo blog dichiaravo di bramare un futuro governo Draghi, non avevo la minima idea che il desiderio si sarebbe effettivamente realizzato. Tuttavia non era certo questo l’esecutivo che avevo in mente: nella mia ingenuità immaginavo un governo tecnico, con dicasteri affidati alla migliore classe dirigente del Paese, umiliata e offesa da decenni di cialtroneria al potere. Agognavo, in altre parole, una ‘pausa di riflessione’ di tutti i partiti, da destra a sinistra, senza rendermi conto che stavo covando un desidero di antipolitica uguale e contrario a quello del MoVimento 5 Stelle delle origini: qualunque governo è sempre politico, se non altro perché deve ottenere la fiducia del Parlamento. E nell’Italia del 2021, piaccia o no, la politica è fatta anche da Luigi Di Maio (quello del «mandato zero»), confermato al Ministero degli Esteri, e Mariastella Gelmini (quella del tunnel dei neutrini da Ginevra al Gran Sasso), finita agli Affari regionali.
Dalle elezioni del 2018 sembra passata un’era geologica: oggi, a metà della XVIII legislatura, abbiamo visto un governo populista di destra e uno populista di sinistra, entrambi guidati dalla stessa persona
Come tutti i liberali che si rispettino, anche questa volta devo lamentarmi. Abbiate pazienza, è la nostra natura: siamo rimasti fermi a Luigi Einaudi, perciò come dovremmo reagire se ci illudete con Draghi premier e poi ci propinate Brunetta ministro? Tuttavia, dopo la delusione iniziale, torniamo a guardare le cose per quelle che sono: si chiama ‘realismo’, l’abbiamo letto nei trattati dei classici che tanto amiamo ed è la nostra risposta all’‘analisi della sconfitta’ che costituisce il tratto caratterizzante della sinistra italiana. Tale realismo ci impone di tornare ai numeri del Parlamento, stabiliti dalle elezioni del 2018: 32,7% MoVimento 5 Stelle, 18,7% Partito Democratico, 17,4% Lega, 14% Forza Italia, 4,3% Fratelli d’Italia, 3,4% Liberi e Uguali, 2,5% +Europa, percentuali risibili per tutti gli altri. Sembra passata un’era geologica, ma parliamo soltanto di due anni e mezzo fa e il Parlamento non è cambiato: arrivati esattamente a metà della XVIII legislatura, abbiamo già visto un governo populista di destra e uno populista di sinistra, entrambi guidati dalla stessa persona (una circostanza possibile solo in Italia) ed entrambi caduti vergognosamente. Sicché Draghi non ha fatto altro che rispettare la volontà espressa da Mattarella nel suo drammatico annuncio di martedì 2 febbraio:
Avverto, pertanto, il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica.
Come mettere assieme due concetti apparentemente ossimorici quali ‘fiducia di tutte le forze politiche’ e ‘nessuna formula politica’? Con un governo in cui tutti i partiti (tranne quello della Meloni, rimasto all’opposizione) ottengono almeno una poltrona, mentre ai tecnici vengono affidati i settori strategici legati ai fondi europei: scuola, università, infrastrutture, transizione ecologica, innovazione digitale, economia e giustizia, dove Draghi ha selezionato nomi di alto profilo quali Roberto Cingolani, Marta Cartabia e Daniele Franco, che assieme a Roberto Garofoli (neo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) è uno dei dirigenti apostrofati come «pezzi di merda» in un celebre fuorionda di Rocco Casalino. Fossi in Franco e Garofoli lo indicherei nel curriculum: nulla come un insulto dell’ex concorrente del Grande Fratello certifica la propria competenza.
Il passaggio simbolico della campanella tra l’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte e Mario Draghi durante la cerimonia di insediamento del nuovo governo
Draghi è riuscito nel miracolo di unire quasi l’intero arco parlamentare: non accadeva dai tempi dell’Assemblea Costituente, con i governi De Gasperi I, II e III (1945-1947). All’epoca uscivamo sconfitti dalla Seconda guerra mondiale e per risollevarci dalle macerie riuscimmo a mettere assieme democristiani, comunisti, liberali, socialisti e repubblicani, con l’esclusione dei neofascisti; oggi, nella lotta contro il Covid-19, è significativo che inclusi ed esclusi siano più o meno gli eredi delle stesse formazioni politiche (tant’è che la fiamma tricolore del Msi brucia ancora nel logo di Fratelli d’Italia, unico partito rimasto fuori dal governo). Sono tragicamente diversi, però, i singoli protagonisti: con tutto il rispetto per Franceschini, Speranza, Carfagna, Orlando e Bonetti, siamo ben lontani da De Gasperi, Togliatti, Cattani, Nenni e La Malfa. Ma è anche vero che all’epoca di questi giganti c’era chi rimpiangeva Giolitti e Salvemini; e quando questi ultimi dominavano la politica italiana, i riferimenti mitici erano Cavour e Rattazzi; e continuando a ritroso potremmo arrivare a Lorenzo il Magnifico, Federico II, Teodorico, Augusto e Cicerone, il quale a sua volta vagheggiava i bei tempi di Scipione Emiliano.
Da Furio Camillo a Lorenzo Guerini ce ne passa, è inutile ribadirlo, ma la politica si fa nel presente. E nel presente c’è la Lega, che fino a due minuti fa lottava per ottenere il titolo di compagine più xenofoba dell’emisfero occidentale; eppure, chi segue le vicende del Carroccio sa che al suo interno c’è sempre stata una voce fuori dal coro: quella di Giancarlo Giorgetti, non a caso scelto da Draghi. Sono anni che il numero due della Lega predica un riposizionamento del partito, trasformato da Salvini in una succursale del peggior sovranismo; ora, con la sua nomina al Ministero dello Sviluppo Economico, Giorgetti ha la possibilità di riallacciarsi all’imprenditoria settentrionale, dove finalmente si inizia a capire che il nostro destino è a Bruxelles e a Strasburgo (pochi lo ricordano, ma la vecchia Lega Nord nacque europeista). Speriamo che a questo nuovo corso corrisponda, una volta per tutte, l’abbandono delle ruspe e degli interrogatori al citofono, come farebbero intuire alcune dichiarazioni ‘moderate’ di Salvini, improvvisamente folgorato sulla via di Damasco. Del resto al Capitano è bastato un giro di valzer per passare da «prima il Nord» a «prima i pugliesi», «prima i calabresi» e «prima i campani»; magari adesso arriverà al «prima gli europei»… e chissà che nel 2030 arrivi finalmente a «prima gli esseri umani».
Appurato che il livello del Parlamento è sceso sotto zero, con alleanze montate e impazzite (urge una moratoria per l'abolizione della formula «mai con»), confido nel fatto che Draghi riesca comunque a mettere in campo gli interventi necessari per rifare il piano vaccinale e gestire con intelligenza i fondi del Recovery Plan; il pericolo, semmai, è che i partiti decidano di staccare la spina a questo strano esecutivo quando i soldi saranno arrivati nelle casse dell’erario. Distribuendo a tutti una piccola quota di governo, l’ex capo della Banca Centrale Europea ha di fatto sterilizzato il potere contrattuale dei vari azionisti: una buona tattica che però rischia di alimentare trattative sottobanco e cordate di interessi meschini, unite nel tentativo di pugnalare alle spalle un tecnico le cui idee confliggono apertamente con tutto quello che la politica italiana ha espresso dagli anni Novanta a oggi.
Il giuramento del governo Draghi. In prima fila da sinistra: Franco, Cartabia, Di Maio, Mattarella, Draghi, Lamorgese, Guerini, Giorgetti. In seconda fila: Speranza, Messa, Orlando, Cingolani, Patuanelli, Giovannini, Bianchi, Franceschini, D'Inca. In terza fila: Stefani, Dadone, Gelmini, Colao, Brunetta, Carfagna, Bonetti, Garavaglia. Foto di Roberto Monaldo / LaPresse
Sono passati pochi mesi da quando Draghi, al Meeting di Rimini, ammoniva i nostri onorevoli parlando di «debito buono» VS «debito cattivo» e ricordava che «i sussidi servono a sopravvivere, a ripartire; ai giovani bisogna però dare di più; i sussidi finiranno e se non si è fatto niente resterà la mancanza di una qualificazione professionale che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e i loro redditi futuri». Quel discorso, che culminava nella sentenza «privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di disuguaglianza», fu accolto come una predica papale: un rito cattolico da applaudire per lavarsi la coscienza e riprendere, più forti di prima, a erogare bonus e dilapidare le casse statali con nazionalizzazioni di imprese già morte. Quasi nessuno, dai banchi del Parlamento, ebbe il coraggio di ammettere la verità: le parole di Draghi prospettavano interventi strutturali, per il semplice fatto che l’Italia non cresce da decenni. Il debito pubblico, complice la pandemia, è arrivato al 160%, ma prima del Covid si trovava già al 134,6%; la produttività è ferma dal 1995, quando l’Euro non c’era ancora (con buona pace di tutti quelli che «è colpa della moneta unica»); per la prima volta dall’Unità d’Italia, le giovani generazioni hanno prospettive di reddito inferiori a quelle di genitori e nonni (come ha ben spiegato Carlo Cottarelli in una conferenza del 6 marzo 2019 al Politecnico di Milano). La crisi del 2008, nata nel mercato interbancario, non ha fatto altro che dare il colpo di grazia a un’economia già destinata alla marginalità. Le cause sono note: ritardo tecnologico nei settori chiave, inefficienza della pubblica amministrazione, corruzione dilagante, criminalità organizzata, evasione fiscale, tasse rapaci, burocrazia elefantiaca e al contempo parassitaria, giustizia civile e penale da repubblica delle banane. Proprio in relazione a questi temi il neopresidente del Consiglio, nel suo breve intervento alla Camera, ha prospettato un cambio di passo: secondo Draghi, il malaffare non si aggredisce complicando, bensì semplificando le procedure amministrative, perché è proprio tra una follia burocratica e l’altra che si annida la tentazione della scorciatoia. Buon senso e concretezza, alla faccia di chi per anni ha alimentato la cultura del sospetto (che Giovanni Falcone definiva l’«anticamera del khomeinismo»).
Ogni volta che si delega il «cambiamento» a salvatori della patria e uomini della provvidenza arrivano sempre tragedie peggiori delle precedenti
Riuscirà il premier ad avviare almeno una parte delle riforme necessarie per rimettere l’Italia in carreggiata? Non oso rispondere a questa domanda. Prima di qualunque maggioranza parlamentare, siamo noi italiani che dobbiamo cambiare: se continueremo a sostenere illusioni, assistenzialismi, piccoli cabotaggi e disprezzo per i dati, nessun Super Mario potrà aiutarci. A maggior ragione trovo vomitevole la melassa miracolistica sparsa dai media negli ultimi giorni, perché ogni volta che si delega il «cambiamento» a salvatori della patria e uomini della provvidenza arrivano sempre tragedie peggiori delle precedenti. E infatti il primo decreto del governo, a firma del riconfermato ministro Speranza, è stato maldestro e improvvido: la proroga alla chiusura degli impianti sciistici a poche ore dalla riapertura prevista è un pessimo segnale di continuità rispetto al Conte II. Altrettanto sconsiderata la dichiarazione del suo consigliere Ricciardi, che ha subito parlato di lockdown totale. La misura potrebbe anche essere necessaria, ma è catastrofica la modalità comunicativa, perché a un paese stremato dalla pandemia non si può parlare in ordine sparso. Consulenti, commissari e membri del Comitato tecnico scientifico devono smettere, una volta per tutte, di twittare e conversare in televisione: il loro compito è rivolgersi al governo, non a Fabio Fazio, e la comunicazione ai cittadini deve passare soltanto da Palazzo Chigi.
Tuttavia, dopo il discorso di Draghi al Senato, questi inciampi sembrano già acqua passata. Sui giornali fioriscono raffinate esegesi, ma al di là dei grandi temi (europeismo, atlantismo, lotta alla pandemia, potenziamento dell’istruzione, parità di genere, ambiente e sviluppo), la distanza abissale rispetto al precedente inquilino di Palazzo Chigi si misura soprattutto sulle questioni di metodo. Un esempio su tutti è il passaggio dedicato al sistema tributario, «meccanismo complesso le cui parti si legano l’una all’altra»; secondo il premier, «non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta. Un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli». Gli opposti populismi della flat-tax e della patrimoniale annientati in dieci secondi. Archiviata la pratica della fiducia, la politica deve ora passare ai fatti per ricostruire un paese allo sfascio. Tutti assieme, senza veti di parte, con quel senso di responsabilità che finora è mancato. E di cui, mai come oggi, sentiamo un disperato bisogno.
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