Turismo di massa e usura del mondo

Rodolphe Christin e l'edonismo del viaggio ai tempi del tardocapitalismo

Turismo sostenibile: antitesi dove il secondo termine pare ripulire il primo delle sue vergogne. Di questo genere di ossimori ne conosciamo molti e sappiamo che sono ottimi espedienti per giustificare grossi giri di soldi, uno tra i migliori quello del turismo, settore economico in continua crescita che si stima possa arrivare a muovere, nel 2030, 1,8 miliardi di viaggiatori in tutto il mondo (+80% sul 2013). È la World Tourism Organization (UNWTO), roccaforte delle politiche turistiche promossa dalle Nazione Unite, a tenere sott’occhio gli annuali trend di crescita, accessibili anche dal sito web dove nella homepage si staglia  l’immagine di una tartaruga impigliata in un brandello di plastica e una headline che recita: “Il turismo è una risorsa per il consolidamento sociale, per la lotta ai cambiamenti climatici e alla disuguaglianza”. Ecco cosa succede cliccandoci sopra:

Una porzione di testo mancante di CSS sulla sinistra e molte persone lunghissime e soddisfatte. L’unico a mostrare dell’incertezza pare il signore che ho cerchiato in rosso e, infatti, oltre al formato dell’immagine c’è altro che non torna: in che modo il turismo, che favorisce l’espansione del capitalismo contemporaneo, può incoraggiare la diminuzione delle diseguaglianze? Come può un diversivo alla vita reale, che passa sempre dalla cassa ed è destinato a specifici luoghi buoni da visitare in tempi circoscritti, essere d’aiuto per l’ambiente, per quella che amiamo definire “natura”? E perché la nostra soggettività, spinta a catturare infiniti stimoli e a muoversi continuamente, dovrebbe meglio consolidarsi in uno spazio sociale?

 

In che modo il turismo, che favorisce l’espansione del capitalismo contemporaneo, può incoraggiare la diminuzione delle diseguaglianze?



A queste e altre domande risponde a chiare lettere Rodolphe Christin in Turismo di massa e usura del mondo (2019), libro tradotto per Elèuthera da Gaia Cangioli che in sole 135 pagine riesce a far riconsiderare il valore che diamo al nostro tempo libero, qui definito come una forma di dromomania, ovvero di automatismo deambulatorio sostenuto da una cultura liberale che ci esorta a muoverci in continuazione, verso una ricerca edonista che pare sostituire il raggiungimento di un vero e proprio fine: lo scopo è spingerci oltre noi stessi in un altrove più lontano, e il piacere è già in essere in questa continua ricerca. Lo stile di vita idealizzato che ne deriva è quello di un individuo “nomade” che rifiuta la sedentarietà, la fissità, ormai sinonimi di “ritardo culturale” e “arretratezza”. Non c’è niente di affascinante nel non far nulla di nuovo, o peggio nel non far nulla, e il rifiuto della persistenza e della routine passa anche per i nostri dispositivi digitali, quelli che Timothy Morton scrive essere fenotipi estesi, parti del corpo che usiamo in continuazione per dissimulare la noia o, perché no, la possibile infelicità. Del resto è difficile farsi troppe domande con gli occhi pieni e le ore occupate, e se la crepa si crea il soma huxleiano è lì pronto all’uso: il turista ipermoderno è distratto, allergico all’insoddisfazione; se non può godere subito in prima persona, almeno può permettersi di farlo riproducendo ciò che è osservato da altri.

Nel turista isterico la dimensione politica vigente, fa notare Christin, è divisa in due: il tempo libero che lenisce e permette di sopportare le ore spese per il tempo del lavoro che, a sua volta, ricompensa il primo:
 

Questa stessa partizione è presente nel turista e struttura la relazione commerciale che intrattiene con il mondo. Anzi, il turismo è l’esempio perfetto di questa ambivalenza dell’uomo contemporaneo, diviso tra il desiderio di avere, qui e ora, la possibilità di godersela senza alcun ostacolo e l’obbligo di pagare un prezzo per tutto questo, ovvero l’obbligo di lavorare per guadagnare il denaro necessario per i suoi acquisti, che farà durante il tempo libero.


Tempo che è quindi sistematicamente funzionale all’ideologia, a quello che Pierre Bourdieu chiama “l’uso del mondo”, dove anche la trasgressione, mascherata da continui episodi iniziatici (basti pensare ai vari leitmotiv estatici di ‘viaggio come conoscenza di se stessi’), permette di vivere esperienze confezionate ad hoc in territori sradicati della loro autenticità, impacchettati a dovere e pronti ad accogliere la frenesia del turista che «non vuole affatto scoprire la realtà, vuole dimenticarla», scrive Christin, e, attraverso essa, dimenticarsi anche di se stesso. Il turista non parrebbe quindi per niente interessato al “diverso”, a meno che questo non abbia qualcosa d’interessante da offrirgli in relazione al soddisfacimento del suo sé individualista, e la pervasività del consumismo, reiterata in ogni angolo del visibile e ascoltabile, sempre in funzione della domanda crescente, moltiplica spazi eterotopici che necessitano di servizi travestiti di eccezionalità, da una parte, per soddisfare la voglia di evadere dalla realtà, ma che ubbidiscono al conformismo dall’altra, per incoraggiare il consenso ad un esotismo facilmente acquistabile strisciando la carta di credito.

Insomma, il turista è un leone che mangia delle ottime bistecche, che ruggisce allo zoo e non esce mai, al pericolo, fuori dalla condizione “ordinaria” del sé che gli è data. E, sebbene sia in grado di sospettare che il recinto non delimiti una foresta, non può smettere di considerarsene il re.
 

Questo ci dovrebbe spingere a riconsiderare i riflessi condizionati che prevalgono in materia di gestione degli spazi sia tra i sostenitori del progresso economico, sia tra gli ecologisti che gestiscono gli spazi protetti, impegnati più a contenere i danni che a evitarli. […] Come non vedere nella morsa delle organizzazioni turistiche un’estensione del dominio delle organizzazioni private sulla nostra vita privata o, peggio ancora, sulla nostra esperienza soggettiva, oltretutto con la scusa di volersi occupare in modo efficiente del nostro tempo libero e dei luoghi nei quali lo trascorriamo? Le nostre esperienze turistiche sono sì pensate per noi ma da altri. In queste condizioni, il nostro tempo libero lo è ancora?


La libertà data dal sogno turistico schiaccia con il dinamismo obbligato il sovversivo e il perturbante che emergono dall’ozio, che è anche la pretesa della personalità di conoscere la propria condizione. Come scriveva Milan Kundera in Lentezza: «Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio». E così, mentre su Instagram votiamo i migliori tramonti scegliendo in quale meta passare le ferie il più lontano possibile, ci confermiamo feticci della natura. Oggetto, prodotto regolamentato dai vertici manageriali secondo una visione progressista che vuole prima di tutto sostenere i suoi introiti, provando al contempo a limitare gli stessi danni che continua a fabbricare.
 

Usciamo di casa, facciamo un giro nelle solite strade, boccheggiamo sul divano, annoiamoci a morte con gli smartphone lontani


Come uscirne? Christin invita a ripensare agli spazi e alle relazioni umane del proprio esistente quotidiano, quelli più vicini a noi; riterritorializzare il tempo libero e intendere il viaggio come una trasformazione in quanto “totalità dell’esistente”, dove la condizione umana ha davvero poco a che fare con il suo rapporto fisico, con la dimostrazione del self, e non è qualcosa che usufruisce della natura, semmai ne fa parte. Quindi usciamo di casa, facciamo un giro nelle solite strade, boccheggiamo sul divano, annoiamoci a morte con gli smartphone lontani. Basta questo per iniziare a capire che ovunque è un altrove che manca qui.


Commenta