Turchi e cristiani: Gian Dionigi Galeni
Othersiders - Esperienze passate nell’incontro/scontro tra culture
«Mi trovai in quella felicissima spedizione con il grado di capitano di fanteria […] e in quel giorno così felice per la cristianità, perché in esso tutte le nazioni si liberarono dall’errore in cui si trovavano, credendo che i turchi fossero invincibili per mare; in quel giorno, […] fra tanti fortunati […] io solo fui sventurato perché […] la notte stessa io mi trovai con le catene ai piedi e le manette alle mani». Parla lo "schiavo" che s’incontra nel capitolo XXXIX del Don Chisciotte; parla dell’autunno 1571, quando il 7 ottobre la Lega Santa ingaggia la flotta ottomana di Alì Pascià. Ai comandi di don Giovanni d’Austria, «fratello naturale del nostro buon re don Filippo», a Lepanto i cristiani troveranno una vittoria schiacciante: come finisce prigioniero, allora, il nostro testimone? Miguel de Cervantes, che a Lepanto combatté febbricitante e perse la mano sinistra, racconta che fu «Uccialì, re di Algeri, avventuroso e audace corsaro», a farlo schiavo. Ma non è di fantasia la scena descritta dal manco de Lepanto: nell’infuriare della battaglia, Uccialì abborda l’ammiraglia di Malta e subito contro di lui accorre lo sprovveduto erede del grande Andrea Doria, Gian Andrea, con la sua capitana; da qui, dov’è imbarcato, il nostro salta sulla nave nemica, ma una manovra improvvisa allontana gli scafi e il pover’uomo si trova solo fra i nemici, costretto a soccombere e presto in ceppi. S’intreccia alla sua personale disfatta l’altrettanto ristretta vittoria di Uccialì, che sa cavarsi dalla battaglia e con la sua squadra, unica superstite, far rotta su Instanbul per recare al sultano il gonfalone di Malta, splendida preda. Ora, il grandammiraglio turco è morto a Lepanto: chi più di Uluch Alì, coperto di gloria anche nella sconfitta, merita di succedergli? Il sultano, Selim II, non ha dubbi: così Uccialì è promosso Ammiraglio del Mare. Il nuovo kapudan governa un arsenale che in pochi mesi rimette in acqua una flotta; ogni guscio turco del Mediterraneo gli risponde; sono sue Pera e Gallipoli; così i sangiaccati di Rodi, Metellino, Scio, Lepanto, Negroponte, Prevesa. Nuovo potere, nuovo nome: da Uluch, barbaro, Alì si fa Kilich, la spada.
Non era cosa da poco essere kapudan. Lepanto non scalfì la potenza formidabile dell’Impero Ottomano. Bruciava ancora la stella di Solimano il Magnifico, morto nel 1566, e ancora per molto da Istanbul l’Europa avrebbe atteso cattive nuove. Maometto II aveva preso Costantinopoli nel 1453: da allora sovrani e popoli dell’Occidente cristiano avevano guardato con terrore ad un popolo che sembrava inarrestabile per terra e per mare e che solo a Lepanto mostrò i primi segni di una debolezza militare per di più effimera. Com’erano giunti sotto le mura di Vienna nel 1529, i turchi sarebbero stati capaci di tornarvi nel 1683. Se per terra il numero e la disciplina li rendeva assolutamente imbattibili, per mare il Cinquecento vide un Mediterraneo affollato di corsari leggendari, che riuscivano spesso ad eludere le pattuglie della cristianità e a saccheggiarne le coste. Riecco l’invasore, riecco il saraceno all’improvviso; nessuno poteva dirsi al sicuro. Ma sulle sponde del gran mare crogiolo di mondi, che non a caso Fernand Braudel ha scelto per soggetto del suo epocale Civiltà e imperi, forte come la paura è la curiosità. Gli europei vogliono sapere tutto di questo Turco, questo diverso così vicino che ha il volto del pericolo e della morte: oltre alla guerra permanente, la razzia di uomini e il commercio di schiavi che se ne nutre sono una realtà quotidiana per il secolo. Così capita che da un piccolo villaggio di pescatori della Calabria si venga rapiti in un altro mondo; un’altra vita di privazioni, passata ai remi delle galere; ma, in barba ad ogni pregiudizio, ben più ricca di opportunità di quella che si è perduta insieme alla cosiddetta libertà. Così il diverso, per alcuni, ha il volto della speranza, dell’ascesa e della ricchezza; si fa tanto vicino che entra dentro. Inturcarsi: questa la via che scelse anche Gian Dionigi Galeni, l’avventuroso e audace corsaro Uccialì.
Padre pescatore, madre contadina, il piccolo Gian Dionigi nasce intorno al 1520 a Le Castella, sulla costa ionica calabrese. Il 29 aprile 1536 spuntano dal mare le navi del feroce Barbarossa, il predone mezzo turco e mezzo greco Khayr al-Din. Si saccheggia, ammazza e rapisce. Nel bottino c’è il giovane Galeni, che è venduto schiavo a Instabul. A questo ragazzuccio gracile, brutto e malaticcio è affibbiato il primo dei suoi altri nomi: Al Fartas, il tignoso. Lo compra il corsaro Giafer e lo mette due anni al remo, poi lo accoglie in casa per salvarlo dallo sfinimento, perché forse ha intuito, in lui, qualcosa di diverso. Svelto e bravo Gian Dionigi trova la simpatia della padrona e conforta quella del marito; ma due suoi pari, un siciliano e un napoletano, gl’invidiano il trattamento di favore e gli rendono la vita difficile. Un giorno arriva uno schiaffo; Galeni risponde con un pugno e uccide. Per lo schiavo che uccide lo schiavo c’è la morte, o l’inturcamento. Fino ad allora Gian Dionigi aveva resistito alle lusinghe dei benevoli padroni che lo volevano turco, respingendo la possibilità di rinnegare la fede, con tutto quel che comportava. Farsi turco, circonciso e musulmano significava abbandonare di proposito ogni legame col passato, con la cristianità: dannare l’anima per sempre, perdere se stessi. Ma quel giorno sradicarsi significò salvarsi, ritrovarsi innestato su una pianta nuova – dimenticare le noie dello spirito per gratificare il corpo; a chi importava l’omicidio di uno schiavo cristiano per mano di un Detentore della fede? Ed ecco che Gian Dionigi Galeni si fa turco e rinasce Uluch Alì, Alì il barbaro, lo straniero. Dal remo passa alla frusta che schiocca sui rematori, e dal mendicare il favore dei padroni passa al dispensarlo; siccome la moglie del Giafer vuole a tutti costi farsi suocera del neoturco, Gian Dionigi prende in sposa sua figlia, Bracaduna; qui il corsaro Uccialì imbocca la lunga via per Lepanto e l’Ammiragliato del Mare. È Giafer che lo raccomanda al kapudan succeduto al Barbarossa, il celebre Dragut. Al suo seguito Uluch-Alì fa strada nei ranghi della marina ottomana e nell’immaginario collettivo di ambo le parti: duro e scaltro il rinnegato passa di scorreria in saccheggio, guadagnando personali spazi di manovra via via che gli arride più frequente la vittoria. Il suo nome è ormai noto quando per un soffio non cattura il duca di Savoia sulle coste liguri, tanto che Solimano gli conferisce il comando della squadra di Alessandria. È il 1562; tre anni dopo subentra al defunto Dragut nel comando dell’assedio di Malta e nel governatorato di Tripoli. Quando Uluch-Alì è costretto a ritirarsi dall’isola, Solimano vorrebbe punirlo duramente, ma il principe Selim dissuade il genitore e riconferma il corsaro nei suoi incarichi; nel ’68, ora sultano, lo fa viceré d’Algeri. Il Mediterraneo lo chiama direttamente Re, perché re si diventa, a farsi turchi.
La figura del rinnegato non era rara nello spazio e nel tempo di Gian Dionigi Galeni. Basti pensare che solo uno dei kapudan fu turco, il Dragut; la tensione all’evangelizzazione, sentita vivamente da ogni europeo che guardasse un mare, si combinava ad un sentimento misto di terrore e disprezzo per chi negava il senso stesso dell’apostolato missionario, dimostrando con la propria vicenda che, pur conoscendo la Verità, si poteva ignorarla e vivere meglio di altri che invece si battevano per essa. Da qui interviene, in questo magmatico sentire, una stilla di segreta ammirazione per i trapassati come lo è Uluch-Alì: l’attrattiva delle sue ricchezze terrene è inossidabile, mentre chi gli è più vicino – i diplomatici della Serenissima residenti a Istanbul nei suoi ultimi anni – indulgono in giudizi positivi e lo riconoscono sì crudelissimo, ma pure munifico e umano, tanto da lasciar vivere in pace i suoi schiavi in una cittadina da lui fondata, Nova Calavria. Prova infine l’eccezionale rilievo dell’uomo Galeni l’apprensione che gli si riservò alla corte di Spagna. Filippo II arrivò a concepire strategie ad personam per piegarlo, specie con la corruzione; ma se il corsaro diede ascolto ai suoi emissari, lo fece per lungimirante simulazione o non ebbe la forza né la volontà di percorrere all’indietro la strada che l’aveva portato fin lassù all’Ammiragliato del Mare. Su quella via s’era svolta la straordinaria arrampicata di un povero pescatore calabrese che, stretto tra le potenze del condizionamento e dell’aspirazione, aveva dimostrato una capacità di calcolo non sospetta in un secolo già più propenso all’oro che alle delizie del Cielo, ma prendendo una decisione non comune in un mondo più portato per l’identificazione che per l’ibridazione. C’erano stati motivi forti e concreti per intraprendere quel viaggio del corpo e dello spirito, ma rimossa la necessità, soddisfatta l’aspirazione e fatta la propria scelta, non ce n’erano più per tornare indietro.
Commenta