Trenta chilometri al secondo
Il racconto ispirato all’opera Tempo di Dani Karavan, in ricordo dell’artista scomparso il 29 maggio 2021
Quando un pensiero si insinua nella testa inizia a ingigantirsi, a prendere altre forme, colori e odori. Un nulla diventa tutto. Le parole si stagnano nel cervello, si avvinghiano ai tessuti, alle fibre, ai vasi sanguigni. Non riesco a dominarli, i pensieri. Così ho imparato a evitarli, a scacciarli, a disintegrarli prima che si materializzino. Aspetto che prendano un tratto, un contorno, un vago profilo e poi prendo la mira. Quando ho visto la ruota per la prima volta ho esitato. Non sono più un tiratore scelto.
Quello delle sei è il turno che preferisco. Non faccio fatica a svegliarmi presto. A quell’ora l’aria ha qualcosa di vagamente catastrofico. Può succedere qualsiasi cosa alle sei del mattino. Le persone all’alba non hanno domande esistenziali, non sostano per fare futili commenti, non si dilungano in convenevoli sul meteo o sul clima. Le buone maniere sono sopravvalutate.
I miei preferiti sono gli automobilisti che non dicono niente, nemmeno buongiorno. Pagano il pedaggio e aspettano in silenzio che si alzi la sbarra. Alcuni fanno un cenno, giusto per dare un segno di vita. Altri alzano il volume sul radiogiornale di centotre punto tre. I riservati e gli introversi sono la minoranza, purtroppo.
I pendolari si sentono in dovere di mostrare amicizia e affetto, come se vedere una persona tutti i giorni fosse motivo di intimità e appartenenza. Per loro serbo resti in ramini. Una volta ho calcolato di aver pronunciato la parola “buongiorno” circa duecentoquarantasette volte in un solo turno: otto ore di buongiorno. Quando ripeti la stessa cosa così tante volte alla fine rischi di crederci. Immaginare che sia una buona giornata è sempre un azzardo.
I camionisti invece hanno argomentazioni brillanti o considerazioni meno banali, forse perché hanno un altro, oltre che alto, punto di vista sul mondo. Ne vedo parecchi di mezzi pesanti, a tutte le ore, questa è pur sempre una zona industriale, ma ormai scambiare una battuta è raro, hanno tutti il telepass.
Calenzano non l’ho mai vista. Arrivo alla postazione direttamente dall’autostrada, parcheggio la Golf verde bottiglia e mi infilo nel mio cubicolo. Quando mi è stata assegnata la destinazione, ignoravo che Calenzano fosse un’uscita dell’A1. In verità, ignoravo l’esistenza stessa di Calenzano. Che poi, per dovere di cronaca, il nome esatto del casello è Calenzano/Sesto Fiorentino. Non sono mai stato nemmeno a Sesto Fiorentino.
I miei colleghi sono propositivi:
“Dovresti farti un giro ogni tanto, la Piana non è male”.
“La campagna è pregevole”.
“Ci sono cose particolarissime, le ville, il castello, ci sono anche musei”.
“Si mangia benissimo”.
“Ci vengono i pullman di turisti giapponesi”.
A me un posto che chiamano “la Piana” non sembra così allettante.
Il lavoro del casellante può dare discrete soddisfazioni. Certo, esiste questo lato negativo del contatto con il pubblico, ma ben presto si prende dimestichezza con l’alienazione. È un’arte sottile che va praticata con eleganza e costanza: non dare confidenza, ignorare le formalità, soprattutto evitare di fornire indicazioni stradali. Annullare le differenze tra l’essere umano e il casello automatico è il fine ultimo, l’ambizione.
Detesto parlare di quello che faccio, l’interlocutore medio è prevedibile e irritante.
“Che lavoro fai?”
“L’esattore ausiliario”.
(silenzio imbarazzato)
“Ah, io pago sempre le tasse”.
(accenno di risata nevrotica)
“Mi fa piacere”.
(annuisco)
“Il vero problema dell’Italia è l’evasione fiscale”.
(alzando l’indice della mano destra per amplificare l’aura solenne)
“Non solo, ma sì, è una questione delicata”.
(mi sfrego il mento)
“Tutti dovrebbero pagare le tasse”.
(posizione di difesa con le braccia incrociate)
“Comunque, ‘esattore ausiliario’ vuol dire che faccio il casellante”.
(pausa)
“Aaah! Il casellante, certo!”
(una giocosa pacca sulla spalla con esternazione di confidenza)
Segue, di norma, una di queste quattro domande, in casi estremi di empatia anche due:
“E dove parcheggi l’auto?”
(banale, può fare di meglio)
“Cosa succede se perdo il biglietto dell’autostrada?”
(colpevole)
“Mi fai una multa se non ho soldi per pagare il pedaggio?”
(imbarazzato)
“Qualcuno si è mai presentato nudo?”
(imbarazzato e colpevole, mi fa l’occhiolino, o forse ha un tic)
Fino all’immancabile:
“Se ti trovo al casello puoi farmi passare senza pagare?”
Non riesco a dominarli, i pensieri. Si spingono, si strattonano, si affondano la testa nei fluidi. Si scapicollano tra le terminazioni nervose protesi in avanti fino a sfiorare le sinapsi. Tutti chiedono di uscire. Urlano le proprie ragioni. E quando ti illudi di averne intrappolato uno, ecco che i pensieri si moltiplicano, quell’uno ne conteneva altri dieci, cento, mille, tutti collegati, tutti connessi. Si rincorrono, si avvinghiano ai tessuti. È una gara. Quello che arriverà primo al traguardo determinerà il presente e forse il futuro.
Una mattina sono concentrato sulle repliche del novantaquattro di Un giorno in Pretura. Una puntata pazzesca sull’inchiesta Tangentopoli. Domenico D’Addario è stato convocato per sbaglio al posto di Amedeo D’Addario: un colpo di scena incredibile, ilarità in aula e perplessità svagata di Di Pietro, Non me lo ricordavo con la barba. Sgranocchio popcorn. Quando ecco che mi si affianca una BMW bianca, il guidatore mi ignora completamente, allunga il braccio per porgermi il biglietto senza nemmeno voltarsi. Mi ispira subito simpatia. Discute animatamente con il ragazzino di fianco a lui, i due non si guardano, anzi, entrambi hanno la faccia immobile, lo sguardo fisso in avanti, come ipnotizzati.
“È gigantesca!”
“Ho letto che ha un diametro di diciotto metri”.
Il ragazzino si sporge dal finestrino. Resta qualche secondo con il busto fuori dall’auto, le mani appoggiate salde allo sportello. Dovrei dire qualcosa, un richiamo, un rimprovero, un ammonimento ma la bocca è cucita, la scena mi provoca una strana curiosità. È la prima volta. Non posso fare a meno di ascoltare.
“Diciotto metri? Sembra anche più alta”.
“È che intorno non c’è niente, perciò sembra ancora più imponente”.
Pagano il pedaggio, la sbarra si alza e vanno via. Diciotto metri di che? Dal mio casottino due per due non vedo niente. Provo a voltarmi ma scorgo solo alberi e una coda di utilitarie. Di cosa diavolo stavano parlando? Che può esserci di così entusiasmante all’uscita di Calenzano? In un posto che chiamano “la Piana”. Faccio finta di niente. Torno a Tangentopoli ma un orecchio resta fuori dal finestrino.
Il giorno dopo mi si presenta una scena analoga. Una Polo X blu con una musica assordante da cui riesco a estrapolare solo alcune parole senza significato. Ho un principio di orticaria.
“Mio zio dice che il suo falegname con trecento euro la faceva meglio”.
“Grande il falegname di tuo zio, ne capisce di installazioni artistiche, eh”.
Sono tre ragazzi sui venticinque anni, quello dietro ha occhiali da vista con una spessa montatura nera e legge con voce impostata dallo smartphone.
“La ruota riconduce al carro, strumento caro alle tradizioni agricole ma anche simbolo dello sviluppo tecnologico, dell’innovazione e della…”
Il finestrino si alza e non sento le ultime parole.
Installazioni, arte, tradizione e innovazione. Perché mi sto interessando a cosa dicono le persone? Non me ne è mai importato nulla, e adesso? Inizio a tirarmi fuori dal mio gabbiotto, dalla mia fortezza di esclusione e silenzi. Apro gli occhi e vedo, forse per la prima volta, il mondo che ho respinto. Quando ti impegni a negarlo così ostinatamente, le cose ti accadono dietro le spalle. Dietro le mie spalle. Senti un rumore e ti giri di tre quarti credendo di averlo immaginato. Tendi l’orecchio, le labbra si aprono leggermente per la concentrazione. Resti immobile, senza respirare, per qualche secondo. Non accade niente. Non ti giri mai del tutto. Fissi un angolo che non esiste perché in realtà stai guardando un punto tra le tue sopracciglia. Le cose che mi accadono alle spalle mi terrorizzano. Fa paura la vita che va avanti, nonostante te.
Al turno delle ventidue, quattro giovani donne su una Micra rossa ridono sguaiate. Quella alla guida ha il trucco pesante, mi lancia un’occhiata, l’ombretto azzurro le dà l’aspetto di una cinquantenne. Di quella accanto scorgo solo i tacchi altissimi e una borsetta rosa con un fiocco vistoso. Le due dietro si scattano foto col telefono.
Si interrompono.
“Guardate, di notte si illumina”.
“E poi galleggia sull’acqua, forte”.
“A me sembra che debba cadere da un momento all’altro, mi mette ansia”.
“Sì, anche a me inquieta, come faccia a star su è un mistero”.
“Ma quale mistero, voi l’arte non sapete proprio dove sta di casa”.
“La solita saccente”.
“Com’è che si chiama lui?”
“Karavan”.
Smettono di parlare. Spariscono nel buio, così come erano arrivate. Come tutti gli altri. Non ho il tempo di metabolizzare le ultime informazioni che un vecchio Fiorino bianco mi si affianca. Un uomo sulla sessantina mi porge il biglietto. Gli sfioro la mano e sento che è ruvida, le unghie sono corte e nere. Le maniche della tuta da lavoro arrotolate fino al gomito. Immagino come dev’essere stata la sua giornata.
“Buonasera”.
“Buonasera”.
Accenno un sorriso ma non sono esercitato e il risultato è una specie di spasmo muscolare.
“Mi scusi”.
“C’è qualche problema?”
“No, no, nessun problema, volevo solo chiederle se conosce un certo Karavan”.
“Certo che so chi è Karavan”.
“E chi è?”
“Mi sta prendendo in giro?”
“No”.
Silenzio.
“Karavan è quello della ruota”.
“Quale ruota?”
“Allora mi sta prendendo in giro”.
“No, sul serio”.
“Senta, ho avuto una giornata pesante, sono stanco e voglio tornare a casa”.
“Sì, scusi, ha ragione, le do subito il suo resto”.
Cosa stavo facendo, importunare un utente, fare domande, mostrare interesse. Era il punto più basso della mia carriera.
“Ma davvero non ha mai visto la ruota?”
Adesso è lui che non se ne va.
“È proprio qui, alla rotonda alle sue spalle”.
Mi indica un punto davanti a sé. Vicinissimo. Poi mette la prima e scivola oltre la sbarra tenendo gli occhi fissi su di me.
Esco dalla mia postazione e percorro pochi metri. La vedo, dall’altra parte della strada. La ruota. Una semplicissima ruota. Gigante, nel mezzo di una rotonda. Su un letto d’acqua. Le auto le sfrecciano intorno. Un camion per la raccolta della spazzatura. Un centinato con la scritta trasporti-depositi-logistica. Scooter. Pullman. Furgoni. Suonano i clacson. Una Ford Focus SW blu mi passa a un metro di distanza. Sul sedile posteriore una bambina con un pupazzo in mano mi guarda. Un attimo dopo è sparita dietro la curva. Non mi vedono o non gli interessa vedermi. In fondo sono solo un tizio fermo sul ciglio della carreggiata. Mi sento piccolo e insignificante. Come ho fatto a diventare impassibile a tutto? Non ho legami, non mi interessano le relazioni interpersonali. Cosa ho fatto fino a questo momento? Osservo da lontano lo smisurato ingranaggio, passano dieci o forse quindici minuti. Che ci fa in una rotonda a Calenzano all’uscita dell’autostrada? Faccio un giro su me stesso e vedo capannoni, esercizi commerciali, fast food, alberghi di lusso; un ragazzo con una felpa bordeaux e il cappuccio tirato sulla testa; i tralicci si confondono con i pini e i cipressi che svettano rigogliosi in mezzo al grigio. Il vento scuote i cartelloni pubblicitari e sento un tintinnio metallico, uno stridore acuto che penetra la membrana del timpano. Mi gira la testa. Ripenso al ragazzo con gli occhiali e quella montatura massiccia che leggeva cose sulla campagna e le tradizioni e lo sviluppo e l’industria, ma forse c’è qualcos’altro. Qualcosa di personale e intimo che non si può raccontare. È lì per me, penso, non per me singolo essere umano, ma per tutti quelli come me. Estranei e vagabondi. Disillusi. Persi. Per ricordarci chi siamo e quali sono le nostre origini, le nostre radici.
Penso a mio padre che mi insegna ad andare in bicicletta nel cortile di casa, mi corre dietro e mi dice Guarda avanti, vai sempre dritto, fissa quell’albero e vai sempre dritto e io che gli dico Non mi lasciare, se mi lasci cado, non mi lasciare, e rido e ho paura e rido ancora e chiudo gli occhi, per un attimo, e tengo forte il manubrio tra le mani, e le mani sono calde e sudate e rigide, le stringo così forte che mi fanno male. Penso a mia madre che si siede accanto a me e mi corregge i miei compiti di matematica e dice Sei bravissimo, io non sono andata a scuola e imparo insieme a te. Penso al sapore dell’orzo nella sala d’attesa dell’ospedale. Penso al tempo che passa e vorrei che fosse autunno per vedere le foglie cadere.
Guardo la ruota e ho la sensazione che si stia muovendo. Ho un’allucinazione? No, non è un’allucinazione. La ruota si muove, è immobile e si muove. Gira con un movimento inconsistente o talmente rapido da non poter essere percepito. Tutto ciò che ho vissuto è in quell’impalpabile giro di ruota. Non posso restare fermo. Corro. Attraverso la strada tra le imprecazioni e le maledizioni e gli strepiti degli automobilisti. Raggiungo la rotonda, il prato è verde e giallo e bianco. I clacson sono assordanti. Mi avvicino lentamente, l’imponenza della ruota mi schiaccia. Mi levo le scarpe e metto i piedi nell’acqua, faccio qualche passo e sono proprio sotto la ruota, alzo la testa, sembra elevarsi fino al cielo, appoggio la mano sulla sua superficie, è umida e fredda.
Avrei voluto avere più tempo. Non aver sprecato tempo. Non aver detto “lo farò domani”, non aver inventato scuse. Avrei voluto fare una telefonata, aprire la porta, rispondere a una lettera, andare a vedere un film, uscire per mangiare un gelato. Ho finto di ignorare il passato e di essere concentrato solo sul presente. Il passato ci affossa le gambe nella terra, fino al ginocchio, ci strappa la lingua e ci costringe a guardare e a guardare e a guardare ancora, con la bocca grondante di sangue, senza poterci muovere, senza poterci ribellare. Ai piedi della ruota mi rendo conto che ci sono cose più grandi di me, dei miei piccoli sentimenti, delle mie sterili azioni. Ci sono cose che vengono da lontano e che non possiamo dimenticare, appartengono a tutti, hanno una storia che ci lega. La grandezza nella semplicità. Dovevo arrivare in questo luogo sperduto per rendermene conto. Nella Piana. All’uscita Calenzano-Sesto Fiorentino. In un posto che era solo un nome su un cartello stradale dell’autostrada del sole.
Mi sdraio sull’erba.
“Ma cosa stai facendo?”
Il mio collega urla dall’altra parte della strada.
Sono stordito, mi ci vuole qualche istante per realizzare che sta parlando con me.
“Come? Che succede?”
“Come che succede? Ma cosa fai sdraiato lì a terra. Ti abbiamo cercato ovunque, sei sparito. Il tuo turno non è ancora finito. Hai lasciato il casello, ma sei matto? Hai bloccato il traffico. Stanno tutti sbraitando, c’è una coda di chilometri. Ma che stai facendo!”
Mi alzo.
“Arrivo”.
“Arrivo? Arrivo? Mah, io non lo so. Ma cosa dici. Volare. Devi volare, muoviti. A me sembrano tutti scemi. Sdraiato sull’erba sta, sdraiato sull’erba”.
Quando un pensiero si insinua nella testa inizia a ingigantirsi, a prendere altre forme, colori e odori. Un nulla diventa tutto. Io non lo so cosa è giusto e cosa è sbagliato, non lo so cosa è successo quel giorno. Non ho mai creduto nell’arte, nella bellezza. Non le capisco. Non lo so perché vedere una semplice ruota, un ammasso di ferro e bulloni, abbia scatenato un tumulto, abbia fatto riaffiorare ricordi e speranze e tempi sepolti. Forse è bene non dominare i pensieri. Lasciarli scorrere, fluire, amalgamarsi con le certezze, penetrare negli interstizi più nascosti, colmare le crepe, le incrinature. Solo così si arriva alla pienezza.
Il presente racconto ispirato all'opera Tempo di Dani Karavan (in copertina fotografata da Francesca Gelli), insieme a Formiche di Benedetta Bendinelli, L’equazione impossibile di Selene Mattei, Il mio cuore bucato di Arzachena Leporatti e Il mondo a testa in giù di Andrea Cassini, fa parte della raccolta Forme d’autore. Cinque racconti di arte urbana scaricabile in ebook cliccando qui ▶ Scarica Forme d’autore
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