Tre letture epidemiche
Matheson, Poe e Sofocle, nel segno dell'infezione tra letteratura, politica e psicologia
Strade e piazze deserte, inondate dal sole, simili a quadri metafisici: così deserte che le poche presenze umane che le attraversano (perlopiù gente che va a fare la spesa o attività sportiva) assumono tratti quasi spettrali. Questo è lo scenario al quale da giorni stiamo assistendo. Viene subito in mente un altro paragone, letterario e cinematografico: Io sono leggenda di Richard Matheson e la sua trasposizione hollywoodiana, dove lo sperduto protagonista si muove tra le macerie di una civiltà ormai distrutta a causa di un misterioso virus che ha trasformato gli umani in vampiri. La sua unica compagnia è un cane, rappresentato nella sua classica versione di fedele amico dell’uomo (mai fedele come in queste settimane di quarantena).
Nell’antenato letterario del film, il protagonista è impegnato in una lotta con i vampiri che presto assume i connotati di un rituale macabro e sanguinario dal quale finisce per trarre anche un certo piacere: continua a sterminarli a colpi di paletti dopo averli stanati nei loro nascondigli diurni, senza mai sospettare che in un mondo del genere ormai il mostro è lui, mentre gli avidi vampiri rappresentano la maggioranza, e quindi la normalità. Alla fine, quello che l’autore sembra suggerire è la possibilità di una risata liberatoria che ci permetta di esorcizzare l’angoscia in un mondo dove qualsiasi metro di giudizio affidabile sembra essere saltato: «Il mondo è andato a farsi fottere». Del resto, di questa relazione tra il comico e l’orrore era consapevole anche Bram Stoker quando, nel suo Dracula, fa sganasciare dalle risate un esempio di vittoriana compostezza qual era stato fino a quel momento il dottor Van Helsing, e per di più durante un funerale. L’eccentrico mezzo scienziato olandese, per giustificare il suo atteggiamento davanti all’amico dottore che assiste incredulo, smorza la sua crisi isterica con la consueta saggezza che lo contraddistingue: «Risata è un re, e re viene quando e come piace a lui. Non chiede a nessuno; non sceglie momento adatto».
E le risate ci sono state, infatti. Abbiamo riso, e di gusto, delle sparate di De Luca: come quando in diretta video si è lamentato delle mascherine mandate dalla protezione civile, che possono andare bene per “Bunny il coniglietto”, o quando ha inveito contro chi gli chiedeva se con l’inizio della fase 2 si poteva riprendere la movida. Abbiamo riso anche in altre svariate occasioni. Ma il fatto che “re di risata” venga a trovarci, che la gioia si affermi anche in una situazione simile, non deve significare sminuire il dolore o sottovalutare l’importanza dell’impegno comune in vista di una ripartenza che ci vedrà, o quanto meno ci dovrebbe vedere, cresciuti e più consapevoli non solo sul piano individuale, ma anche come comunità.
Diversamente incorreremmo nello stesso errore di un gruppo di cortigiani in un famoso racconto di Poe, che offre una rappresentazione perfetta di come un’epidemia crei un livellamento sociale e di come sia vano illudersi di poterle sfuggire attraverso il denaro, sottraendosi alle proprie responsabilità civiche e rifugiandosi in un egoistico esilio. In La maschera della Morte Rossa una pestilenza che uccide le sue vittime nel giro di mezz’ora provocando atroci sofferenze deve il suo nome – Morte Rossa, appunto – alle macchie scarlatte di cui i cadaveri sono cosparsi. Per evitare il contagio il principe Prospero organizza un isolamento dorato in uno dei suoi palazzi, circondandosi di «buffoni, improvvisatori, musici e ballerini. E poi la bellezza, il vino…». Insomma tutto l’occorrente per spassarsela allegramente insieme ai suoi cortigiani, mentre fuori la Morte Rossa continua a imperversare. Alla fine, un intruso si fa spazio in mezzo all’orgiastica comitiva mascherata avanzando verso il principe Prospero. Tutti pensano a uno scherzo di cattivo gusto. L’intruso infatti ha la maschera della Morte Rossa, e per quanto il principe e i suoi cortigiani siano inclini allo scherzo, nessuno trova la cosa divertente. L’intruso, ovviamente, è la stessa Morte, venuta a sterminare coloro che si erano illusi di poterle sfuggire rifugiandosi tra le lusinghe ingannevoli di un edonismo sterile e mortifero come la malattia di cui pretendeva di farsi beffa.
Di fronte ad una situazione di angosciosa incertezza, abbiamo preferito scaricare la responsabilità sugli altri piuttosto che considerarci noi stessi dei potenziali portatori del virus
Il destino ti raggiunge ovunque cerchi di sfuggirgli. Non serve a niente erigere una fortezza tra te e il mondo, illudendoti di poterti così salvare da solo da un problema che affligge la comunità; per quanto cerchi egoisticamente di sottrartici, alla fine dovrai farci i conti. Questo sembra essere l’insegnamento della Morte Rossa. Così si può interpretare L’Edipo re, anche se in questo caso l’esito finale è un esempio molto più virtuoso di cosa voglia dire assumersi le proprie responsabilità nei confronti di una problematica comune. L’opera si apre con l’immagine della città di Tebe devastata da una pestilenza. Edipo, divenuto re dopo aver risolto l’enigma della Sfinge e aver liberato la città dall’insidia del mostro, è chiamato a trovare una soluzione, compito al quale si dice pronto a dedicarsi con tutte le sue forze: del tutto simile, in questo, a qualsiasi zelante sindaco abbiamo visto in questi giorni sgolarsi, talvolta anche in maniera piuttosto colorita, in tv e su youtube. Nel frattempo l’oracolo di Apollo fa sapere per bocca di Creonte che la pestilenza avrà fine solo nel momento in cui l’assassino di Laio, il precedente re di Tebe, verrà cacciato dalla città. Comincia a quel punto l’indagine che porterà al disvelamento della tragica verità, indagine che il re persegue con tenacia, proclamando, da bravo politico, addirittura un editto in virtù del quale chiunque dia asilo all’assassino verrà punito con l’esilio. Viene mandato a chiamare Tiresia, l’indovino cieco, il quale, superate le sue comprensibili reticenze, di fronte alla collera del re, gli rivela alla fine la verità: «Sei tu l’assassino che cerchi».
La reazione di Edipo è quella che ognuno di noi avrebbe di fronte ad un’accusa simile: non può essere lui la causa del male, lui, il grande Edipo risolutore di enigmi. Ci dev’essere un imbroglio. Così accusa Creonte e Tiresia di cospirare ai suoi danni, secondo quello che la psicoanalisi definirebbe una proiezione, ovvero uno dei più arcaici meccanismi di difesa: si vede negli altri ciò che non si vuole vedere in se stessi. Anche questa reazione non ci è estranea, soprattutto nei primi tempi della diffusione del contagio: di fronte ad una situazione di angosciosa incertezza, abbiamo preferito scaricare la responsabilità sugli altri piuttosto che considerarci noi stessi dei potenziali portatori del virus. Il fatto che Edipo non sia un uomo qualunque, ma un eroe, risulta evidente dal seguito della storia, che culmina nel tragico scioglimento finale. È proprio nella tenacia della sua indagine che si rivela la tempra eroica di Edipo, nella sua volontà di andare fino in fondo nella ricerca di una verità che pure finirà per schiacciarlo. Il finale lo conosciamo: Edipo, travolto dal dolore e dal rimorso, si acceca. Il suo percorso di autoconoscenza è così tragicamente compiuto, e in uno degli ultimi strazianti monologhi prima di avviarsi al suo esilio rivolge un pensiero ai suoi genitori adottivi, rei di avergli nascosto la verità e di aver nutrito così «una bella forma putrida di morbi occulti».
L’esempio edipico è alla fine molto più virtuoso di quello spregevole offertoci dall’insulso e pavido despota del racconto di Poe. A differenza di quest’ultimo, Edipo salva la sua comunità dalla pestilenza. Ma la maledizione su Tebe rimarrà, ed Edipo si pentirà di essersi accecato. È quello che dobbiamo evitare anche noi: lasciarci accecare dall’illusione che il Covid-19 sia un problema del tutto risolto, che la vita possa tornare subito ad essere quella di prima, come se tutto questo fosse stato solo un incubo dal quale possiamo risvegliarci sereni per tornare a confidare nella nostra invulnerabilità. La realtà è un’altra. La realtà è che ci siamo presi un bello spavento e che abbiamo provato, e ancora stiamo provando, quei sentimenti di pietà e terrore che Aristotele associava alla tragedia greca. Con la differenza che la nostra è una tragedia reale, in cui siamo tutti coinvolti. Se è lecito aspettarsi qualcosa di buono dall’assurdo, la speranza forse utopica è che possa portare a un rinnovato sentimento di fratellanza che ci rinvigorisca come individui e come comunità, ma anche se non raggiungerà questo risultato, avrà almeno scavato un solco indelebile nelle nostre coscienze. Da qui, si spera, scaturirà una riflessione importante sull’esistenza: su come cioè sia stato necessario vivere una dimensione di fragilità e di pericolo per restituire valore a una vita che davamo per scontata, il cui miracolo si ripeteva ogni giorno sotto i nostri occhi troppo ciechi per accorgersene.
In copertina: Piazza Mercatello durante la peste del 1656, Micco Spadaro, 1656
Commenta