Tramonto di László Nemes
con Juli Jakab, Vlad Ivanov, Evelin Dobos, Marcin Czarnik
Un abito ceruleo che richiama il colore degli occhi, lievemente schermati dalla veletta di un cappello nero; e poi un colletto bianco, alto, ricamato, che scopre il collo sottile della giovane e bella Irisz. La ragazza siede nell’elegante atelier Leiter, leggendario negozio di cappelli del centro cittadino, le cui finestre guardano a una splendente Budapest d’inizio Novecento. Le impiegate sono gentili, la consigliano con garbo sul cappello da acquistare, ma quel volto pulito rimane gelido, sospeso tra ingenuo candore e sfrontata insolenza. Dietro di esso non si nasconde semplicemente un’imperscrutabile cliente, bensì risuona il nome altisonante dei capi fondatori di cui è la figlia, scomparsi anni addietro dopo un terribile incendio che aveva colpito il negozio.
È il 1913 e Irisz Leiter (J. Jakab) è tornata nella capitale ungherese non per acquistare un cappello, ma per farsi assumere come modista nell’atelier che apparteneva ai genitori, unico vero legame che le resta col passato di cui ricorda ben poco. Estremamente talentuosa, ma rifiutata in prima battuta dal nuovo proprietario Oszkár Brill (V. Ivanov), la ragazza riuscirà comunque a farsi largo grazie alla sua forte ostinazione. Con quella stessa ostinazione Irisz riverserà nella ricerca del fratello Kálmán (M. Czarnik) – di cui scopre inaspettatamente l’esistenza durante i preparativi per l’accoglienza ai reali austroungarici nell’atelier – ogni pretesa ossessiva di conoscere la verità circa il suo passato, legata a un impero agli albori della sua autodistruzione, al tramonto della civiltà europea.
A tre anni di distanza dal pluripremiato Il figlio di Saul, vincitore dell’Oscar al miglior film straniero e tra i migliori film del 2016, il talentuoso regista ungherese László Nemes – di scuola Béla Tarr – firma il suo atteso secondo film Tramonto, aggiudicandosi il Premio della Critica Internazionale alla 75ª edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Sulla scia formale della sua opera prima, Nemes prova a interrogarsi su quello che definisce «il quasi suicidio del continente europeo», avvenuto nel corso di pochissimi anni e che ha condotto al XX secolo così come lo abbiamo vissuto, lungo il paradossale passaggio da un mondo ricco e sofisticato a un’autentica autodistruzione. All’interno dell’elegante capitale ungherese, in bilico tra slancio proteso alla modernità e un animo forse ancora conservatore, vivono delle forze distruttrici, delle micro-società di natura politica, ideologica, artistica, che cercano qualcosa di misterioso e sconosciuto. «Nelle strade di Budapest era facile percepire queste forze oscure di cui non si capiva l’evoluzione, ma che erano estremamente reali», afferma Nemes.
Nelle strade di Budapest era facile percepire queste forze oscure di cui non si capiva l’evoluzione, ma che erano estremamente reali
Al centro del racconto, dissipato in un’opera concreta, misteriosa e ambigua che in parte riesce anche a spingersi su toni fiabeschi, c’è Irisz, che la macchina da presa di Nemes bracca con la stessa ostinata ossessione che del resto caratterizza la protagonista. Come pietrificata e impotente rispetto a ciò che le accade intorno – uno stato d’animo sospeso, splendidamente restituito dall’interpretazione di Juli Jakab – Irisz incarna appieno il mistero dell’animo umano, profondamente legato alla civiltà in cui vive. Sinuosa ed elegante, energica ma al contempo trattenuta, la giovane donna si muove nel cuore della città sulle tracce del fratello, sospinta da quelle stesse forze oscure che le saranno avverse e che non potrà governare.
«Perché siete triste? Non è l’unica cappelleria in città», le chiedono dopo il rifiuto di Brill; lei risponde risoluta: «Ma è l’unica che porta il mio nome». Quasi a dichiarare fin da subito l’intima necessità di riacquistare un’identità logorata dal suo incerto passato, la ragazza è subito catapultata dentro una città che si fa embrione del collasso europeo, del tracollo d’identità a cui un intero continente si destinerà da sé. E dentro questa nebulosa imperscrutabile, ancora resiste il sofisticato atelier dei Leiter, riemerso dalle fiamme ma anch’esso destinato, nel tumulto degli oscuri attriti da cui non può che essere avvolto, a riviverle brutalmente.
Le suggestioni letterarie, per stessa ammissione del regista, non sono poche: da Arthur Schnitzler, noto scrittore viennese amato da Freud, a Kafka in particolare, da cui Nemes attinge per la capacità di raccontare i suoi personaggi posti al bivio di una scelta, di fronte a qualcosa che non riescono ad affrontare, tra disperazione e grandi interrogativi sia fisici che metafisici. Un mix di influssi provenienti dalla letteratura dell’Europa centrale, ma che di certo si spingono ben oltre, spaziando nel campo della fotografia, del cinema e della pittura e confluendo spontaneamente in questo film e nel cinema del giovane regista ungherese, un cinema imperniato sull’idea forte che l’interrogativo sia molto più importante della risposta.
In questa direzione, Irisz assomiglia a Saul. Entrambi raggelati di fronte al mondo circostante, mostrano un’incrollabile determinazione a proseguire verso i loro obiettivi. Tramonto si mostra allo spettatore con la stessa cifra stilistica de Il figlio di Saul, nella precisa volontà di condurlo a un’esperienza immersiva totale, grazie a un lavoro scrupoloso e meditato sull’immagine e sul suono. «Volevo portare lo spettatore a rompere un po’ i canoni e i codici del cinema convenzionale, dandogli l’opportunità di fare un viaggio, di camminare in questo mondo, fornirgli una prospettiva il più possibile soggettiva e personale. La somiglianza formale con Il figlio di Saul ha a che vedere con il mio stile personale. Tramonto è un viaggio che non ha un percorso rigido e preimpostato, realizzarlo è stato un viaggio anche per noi».
Lo spessore registico ed estetico-formale è di certo innegabile, ma non mette in salvo la pellicola da alcune ambiguità sostanziali che tolgono molto a un’immersione che potrebbe essere empatica con i personaggi e con ciò che vivono, e invece è solo visiva
Lo spessore registico ed estetico-formale è di certo innegabile, ma non mette in salvo la pellicola da alcune ambiguità sostanziali che ne appesantiscono la fruizione, togliendo molto a un’immersione che potrebbe essere empatica con i personaggi e con ciò che vivono, e invece è solo visiva; un neo che spesso soffoca il racconto, privando lo spettatore – a differenza della travolgente opera prima – di un vero coinvolgimento emotivo. Resta intatto però il marchio che, a dispetto di una breve filmografia, già contraddistingue Nemes; l’estrema abilità con cui riesce a mostrarci il viaggio d’Irisz, il cui volto viene quasi modellato dalla luce del sole che, come una sorta di dio pagano, talvolta l’accarezza dolcemente, talvolta l’esclude nell’ombra dei suoi interrogativi. Una messinscena raffinata che rende ogni sequenza incantevole portando davvero lo spettatore all’interno dei sapori e dei suoni di un’epoca intera.
«Questa casa esiste ancora. È tutto ciò che mi rimane di loro»
UNG-FRA 2019 – Dramm. 142’ ★★★
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