Tra l’uomo e la macchina
Qual è il confine tra umano e artificiale? Se i robot si fanno umani e viceversa, da Blade Runner a Years and Years
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un climax ascendente e irrefrenabile di storie in cui l’intelligenza artificiale è di una rilevanza narrativa determinante se non addirittura fondamentale per districarsi tra trame e intrecci. Un fenomeno che avviene e si propaga con la stessa velocità dello sviluppo tecnologico e in questo senso sembra difficile, se non impossibile, immaginarsi al di fuori di quella che oggi chiamiamo tecno-cultura: uno spazio per un’alternativa esistenziale “valida”, tra nuove ibridazioni e neonati agenti sociali in costante modificazione e compenetrazione con un Altro da sé non-umano e artificiale. Quando si parla di tecno-cultura s’intendono non solo il dominio della cultura sulla natura e tutte le presunte giustificabili gerarchie tra umani e non-umani, nonché l’istituzione di rapporti e pratiche di assoggettamento, ma anche la possibilità di individuare spazi di resistenza e creazione di legami alternativi, che non per caso sono il centro nevralgico della riflessione di Alex Garland in Ex Machina (2014) e prima ancora di Blade Runner (1982) di Ridley Scott.
In Blade Runner, Ridley Scott rifletteva sulle conseguenze di questa imprescindibile compresenza per la combinazione di naturale e artificiale, nato e creato, umano e non umano
«Noi, nella misura in cui possiamo dire io, siamo la nostra memoria», diceva Eco. Nel 1982 Ridley Scott rifletteva sulle conseguenze di questa imprescindibile compresenza per la combinazione di naturale e artificiale, nato e creato, umano e non umano, mostrando quanto questi ultimi due termini possano coesistere e nella persona dell’uno, l’uomo, e dell’altro, l’androide. Trent’anni più tardi il cinema ci ha riportato a pensare le conseguenze e i limiti di questa condizione: in Blade Runner 2049, Denis Villeneuve ricrea i vani e le profondità cosmiche così sapientemente costruiti da Scott riuscendo a rinnovare – rendendo più acuta l’analisi sugli innesti memoriali e sulle loro conseguenze a livello emotivo – il microcosmo denso di implicazioni esistenziali di Blade Runner e che avrebbe condizionato nel tempo le narrazioni cinematografiche e seriali legate all’intelligenza artificiale. Prendiamo, ad esempio, la rappresentazione dell’IA in Blade Runner 2049: di proprietà di K, Joi è un’intelligenza artificiale olografica ideata per essere l’amante perfetta. Programmata dal consumatore in base ai propri desideri, Joi è un robot depotenziato e vuoto e non più di tanto s’insiste sul magnetismo della sua presenza materica. Un’immagine del robot femmina antitetica rispetto a Ex Machina di Alex Garland e Her di Spike Jonze, che problematizzano moltissime questioni, tra cui i caratteri della figura del robot che, incarnato dall’androide Ava (con il volto di Alicia Vikander), individua un parallelismo con la meno (apparentemente) perturbante e archetipica intelligenza artificiale di Her, Samantha (con la voce di Scarlett Johansson).
Nel film di Garland, Nathan Bateman, Ceo della Blue Book, una società che possiede il motore di ricerca più potente del mondo, recluta il giovane Caleb Smith, il più promettente programmatore della sua azienda, perché faccia da controparte umana in uno test di Turing da sottoporre all’IA femmina Ava. Lo scopo di Nathan è provare definitivamente che l’ultima versione delle varie IA femmina da lui create è, senza simulazioni, veramente dotata di autocoscienza. Caleb dovrà perciò intraprendere con Ava un test scandito nell’arco della settimana nella casa-laboratorio di Nathan in Islanda.
Il microcosmo rappresentato da Alex Garland in Ex Machina si articola secondo una struttura manichea che vede la compresenza di due poli in conflitto. Da un lato lo scienziato-genio che crea un’IA femmina esclusivamente per soddisfare le proprie esigenze sessuali e non (l’automa geisha Kyoko), animato da un delirio d’onnipotenza che vede in Ava soltanto un mezzo, e Caleb, stereotipo del nerd brillante ma ingenuo catapultato in un’esperienza per lui ai limiti del pensabile. Dall’altro Ava. Interlocutrice delle ossessioni mentali di Nathan e produttrice di fantasie, storie e immagini. La figura dell’androide è per Garland il pretesto per circoscrivere un’ossessione che sia per Nathan che per Caleb si nutre di visualità e di quel desiderio primario di guardare che chiamiamo pulsione scopica. Entrambi osservano Ava di continuo attraverso telecamere posizionate in ogni punto della sua cella ed è per questo che, a un certo punto, dalla sua cella lei sente questo sguardo, arrivando a domandare a Caleb se durante la notte sia solito guardarla dormire. Probabilmente conoscendo già la risposta.
Ava ha un suo sguardo e il perturbante e l’aura spettrale emanati dalla sua presenza si riverberano interamente in Caleb, che ne verrà a poco a poco prosciugato. Garland insiste sul magnetismo dell’intelligenza artificiale (in questo caso femmina) che costringe l’umano a una messa in discussione di sé e delle proprie certezze, tanto che Ex Machina si può leggere in una prospettiva quasi anti-antropocentrica. Il potere di Ava viene designato inoltre dalla caratterizzazione del corpo: un involucro trasparente e, come ha scritto Federica Timeto nel saggio Intelligenze artificiali incorporate, «leggibile in quanto tale»: attraversato da nervature blu fluorescenti e meccanismi di raffreddamento del sistema che lo sguardo può attraversare interamente. Un corpo che non lascia spazio all’immaginazione, esposto a una costante visibilità.
Al contrario, in Her di Spike Jonze non vediamo mai sullo schermo l’IA femmina cui Scarlett Johansson presta la voce e Theodore se ne innamorerà poco dopo averla “comprata” dalla Element Sotfware per riuscire a gestire al meglio la propria vita, sottovalutando le conseguenze di una simile interazione. Theodore si sente al sicuro, tra le braccia di Samantha, finché un giorno lei non gli rivelerà di star vivendo tantissime altre vite – e relazioni – oltre a quella con lui.
A differenza di Theodore, Samantha è in continua evoluzione ed esiste a un livello multi-dimensionale, prescindendo da un corpo, ed è attraverso l’interazione con Lei che Theodore arriverà a delle verità su sé stesso. Samantha gli rivela che lei e gli altri sistemi operativi stanno evolvendosi a una velocità e in un modo tale da compromettere il rapporto, potremmo dire interspecie, tra umani e macchine e dunque i due si dicono addio. Nonostante l’assenza di un corpo, capisce, la sua relazione con Samantha finisce per essere la contrazione di ogni storia d’amore mai vissuta, compresa la sua precedente: la passione, la vita insieme, la gelosia, il bisogno di esclusività. A Theodore cominceranno a farsi chiare molte cose. Chiederà scusa alla sua ex, darà un significato diverso ai rapporti – anche di amicizia – cominciando a ri-definirsi nel mondo. Jonze fa un ulteriore passo avanti: da un mondo che ipotizzi delle sole connessioni tra umano e artificiale a uno in cui da questa alleanza l’umano possa arrivare a una conoscenza più radicata di sé e del proprio ruolo. Ed è anche ciò che prospettano per Samantha e Ava i finali di Her e Ex Machina, seppure in maniera antitetica. Samantha lascia Theodore dicendogli che deve andare avanti con la sua vita senza di lui e Ava si libera dalle catene e dalla prigionia di Nathan e dallo sguardo di Caleb. Una “creatura” che evade ogni forma di razionalità dicotomica, in favore di un nuovo punto di vista in grado di aprirsi a una realtà infinitamente complessa ed eccedente.
Alle critiche sulla possibilità di microchip e impianti neurali, Elon Musk risponde che l’uomo è per certi versi già un cyborg: ha il suo smartphone, il suo computer, la sua televisione
E se invece che vivere nella dicotomia e nel conflitto fosse possibile un’ipotesi di alleanza tra l’uomo e la macchina? Nel 1995, Baudrillard in Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? sosteneva di vivere – sullo sfondo delle pulsioni per l’accumulo proprie della post-modernità e della proliferazione di immagini e schermi come riproduzione tecnica, per l’appunto, della realtà del mondo – una fase d’isteresi del reale, nel senso di una privazione e progressivo venir meno delle categorie di realtà fino a quel momento convalidate, di cui rimanevano nient’altro che detriti nella virtualità circostante.
Erano gli anni Novanta e la realtà stava sempre più esacerbandosi verso il parossismo e la bulimia dell’immagine, processo oggi arrivato a una realizzazione quasi totale. Il cofondatore di Tesla e SpaceX Elon Musk sostiene che in un futuro molto prossimo la comunicazione non sarà quasi più verbale ma “facilitata” da un computer, tramite dei microchip, impiantando così i primi collegamenti neurali sull’uomo. Ai detrattori Musk risponde che l’uomo è per certi versi già un cyborg: ha il suo smartphone, il suo computer, la sua televisione – la sua personalissima realtà potenziata – senza cui si sentirebbe perso. La tecnologia si incrocerebbe in questo modo della fisionomia dell’essere umano e, di fronte a questa neonata idea di umanesimo, o meglio “transumanesimo”, non c’è più separazione tra reale e artificiale. Dunque, se non esiste realtà al di fuori della mediazione (o manipolazione) dell’immagine, del ri-prodotto e dell’artificiale, del costruito, quali prospettive per la realtà?
È qui che entra in gioco la serie tv britannica Years and Years, in onda nel Regno Unito su BBC One e disponibile in Italia su StarzPlay, creata e diretta da Russel T. Davies, autore del Doctor Who di Christopher Eccleston e David Tennant. In Italia se n’è parlato pochissimo ma si tratta, volendo soffermarsi su di un piano meramente formale e di messinscena, di uno dei prodotti audiovisivi più riusciti degli ultimi anni. Nel mezzo di catastrofi sempre più devastanti, distopie che prefigurano il peggiore dei futuri, epidemie, contagi e rischi di vedere il mondo esplodere da un momento all’altro, la serie di Davies segue le vicissitudini di una benestante famiglia inglese, i Lyons, dal 2020 al 2030. La serie racconta la Brexit, il lancio di un missile nucleare su un’isola giapponese deciso da Donald Trump e la riapertura di Notre Dame fino al raggiungimento dell’immortalità virtuale da parte dell’uomo, tramite un download della propria coscienza su una struttura informatica.
Years and Years non è ascrivibile al genere fantasy né alla canonica distopia: i suoi sei densissimi episodi fanno fare allo spettatore esperienza di un mondo sospeso tra il dramma sociale e il mockumentary, come se stesse assistendo all’evoluzione di ciò che, sul finire del 2020, aveva visto nascere. In Years and Years la tecnologia diventa parte integrante della fisionomia dell’essere umano, per cui sarà possibile, nel futuro previsto nella serie, impiantare nel proprio corpo (occhi e mani) la struttura di un cellulare o di un computer al fine di controllare ogni aspetto della propria realtà. Russel T. Davies ci dice che nel mondo che ci attende (un mondo prossimo, se non imminente) l’intelligenza artificiale non è più l’alterità da indagare, dissezionare o sottomettere, come in Ex Machina, o a cui dare la caccia come negli stessi Blade Runner e Blade Runner 2049 di Ridley Scott e Denis Villeneuve. Years and Years ci disvela il compimento di questo processo di compenetrazione ed è interessante che il punto di vista per inquadrare questo cambiamento sia proprio quello adolescenziale.
In Years and Years Edith, trasferita la sua coscienza in un apparecchio informatico, riesce a mantenere intatte le proprie capacità intellettive, al di là del deterioramento del corpo, senza perdere la propria identità
È emblematica la puntata in cui la giovane Bethany comunica ai suoi genitori di essere transumana provocando in loro sgomento e orrore. Bethany avrebbe voluto privarsi del proprio corpo per de-materializzarsi in una struttura informatica in modo tale da essere immortale. Ciò che accadrà non tanto a lei – che si farà impiantare nel corpo protesi e device tecnologici per lavorare come data miner – ma a sua zia Edith. Nel 2025 Edith sopravvive a un’esplosione nucleare venendo però esposta a frammenti di pioggia radioattiva e per questo sarebbe destinata a vedere le sue funzioni corporali deteriorarsi nel corso del tempo. È per questo che, per sopravvivere in eterno e perseverare nella missione di salvare il mondo dal conservatorismo di Viviane Rock, la sua coscienza viene interamente scaricata in un apparecchio informatico simil-Alexa.
In Years and Years l’umano diviene dunque artificiale, ibridato e scomposto. I device che Bethany si impianta la aiutano nel lavoro, le permettono di immagazzinare dati e le protesi integrano e aumentano le sue capacità, aiutandola a trovare un proprio e agognatissimo posto nel mondo; mentre Edith, sembrano suggerire le ultime battute della serie, allargando l’obiettivo verso un possibile secondo capitolo, riuscirà a mantenere intatte le proprie capacità intellettive, al di là del deterioramento del proprio corpo, senza perdere la propria identità e anzi mantenendola chiara e forte nella direzione del proprio attivismo politico. E oltre ad essere molto attuale e risonante – dall’epidemia delle scimmie al missile lanciato da Trump sull’isola di Hong Sha Do passando per leader politici caricaturali e plasmati su dei modelli realmente esistenti – Years and Years riflette sulle possibilità di esistenza e collaborazione tra le due dimensioni: come un corpo (o un senza-corpo come Edith), combinato con la tecnologia, possa effettivamente stare e comunicare nel mondo.
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