The Square di Ruben Östlund
con Claes Bang, Elizabeth Moss, Dominic West, Terry Notary
Palma d’Oro all’ultima edizione del festival di Cannes, The Square è il secondo successo internazionale del regista svedese Ruben Östlund dopo l’acclamato Forza maggiore, che vinse il premio della giuria a Cannes nel 2014 nella sezione Un Certain Regard e fece diventare Östlund allo stesso tempo un regista riconosciuto e una piccola star del web per il video dal titolo Swedish director freaks out when he misses out on Oscar nomination che lo ritraeva nella disperazione più totale nel momento in cui il suo film, proposto come candidato per la Svezia, non venne selezionato per la cinquina finale degli Academy Award. The Square, in bilico tra satira e dramma, ha diviso le opinioni di pubblico e critica tra chi lo elogia e chi lo ritiene semplicemente una messinscena bizzarra e pretenziosa, così come il mondo dell’arte contemporanea che rappresenta.
Il distinto e distaccato Christian (C. Bang) è il direttore di un museo d’arte moderna e contemporanea, che ha preso sede nel Palazzo Reale di Stoccolma dopo l’abolizione della monarchia svedese. Proprio nei giorni in cui il museo sta per inaugurare una mostra di cui è curatore dal titolo The Square – ispirata ai temi della solidarietà e della fratellanza umana – lui viene raggirato e derubato in una piazza del centro. Diviso tra le complicazioni della campagna pubblicitaria per il lancio della mostra e il rapporto particolare che si sviluppa con la giornalista Anne (E. Moss), Christian decide di trovare i responsabili del furto e recuperare i propri averi.
La sequenza d’apertura di The Square ci mostra una linea netta, illuminata a neon, che viene tracciata nella pietra di fronte al museo, eppure il confine mai chiaro del film comincia fin dal titolo, duplice riferimento al quadrato della traduzione italiana e alla piazza dell’originale inglese, dove square mantiene entrambi i significati. E proprio immobile nel quadrato di una piazza inizia il movimento del film e di Christian, che lì viene derubato con un trucco. Lì comincia il suo viaggio in una realtà estranea, a contatto con le mille sfaccettature di un mondo che non conosce – basti osservare l’innocenza che dimostra durante il furto – e con cui cerca il confronto, rintracciando i responsabili e recandosi nel palazzo popolare in cui si trovano per recuperare il telefono e il portafogli che gli sono stati rubati.
Il confronto però non è mai esplicito, sempre trattenuto. Christian non vuole andare personalmente a mettere le lettere di minaccia per riavere ciò che gli appartiene, lo fa in fretta, soltanto quando costretto, e scappa da una dimensione che gli è oscura e che lo spaventa. Non è un caso che il contatto con questa dimensione si tramuti, nella regia di Östlund, in sequenze da horror psicologico come le lettere imbucate di furia, con le luci dei corridoi che continuano a saltare, o la voce infantile che chiama Aiuto! Aiuto! nell’atrio del palazzo residenziale affievolendosi pian piano. Sembra sempre che qualcosa di brutto stia per accadere, a Christian, ma non accade mai perché è al sicuro protetto dalle sue barriere sociali, che lo salvano anche nel finale, quando il fatto che si ritrovi senza lavoro non sembra affatto scalfire il suo status sociale.
Le cose che Christian impara lo spingono a camminare non orizzontalmente, lungo la linea del proprio strato sociale, ma verticalmente, verso il basso
L’ipocrisia esplicita del protagonista, che spende grandi elogi per la sua mostra sulla solidarietà umana e contemporaneamente tratta i mendicanti senza un briciolo di umanità, si manifesta nella maestosità delle scenografie di Josefin Åsberg e nell’eleganza della fotografia di Fredrik Wenzel. Il regista svedese guarda alla realtà con l’occhio pulito di Christian e lascia che il contrasto di questo sguardo con ciò che racconta emerga naturalmente, affidando al procedere della storia il compito di redimere parzialmente il proprio protagonista. Le cose che via via impara lo spingono a camminare non orizzontalmente, lungo la linea del proprio strato sociale, ma verticalmente, verso il basso: così quando smarrisce le figlie dentro un centro commerciale e tutti i suoi pari gli camminano a fianco indifferenti lui scende al piano terra e affida i suoi averi ad un mendicante per poterle andare a cercare, così scende letteralmente nella spazzatura per rovistare tra i sacchetti sporci in cerca del numero di telefono del bambino, mentre la pioggia gli scroscia addosso impietosa, dall’alto verso il basso. Come nel precedente Forza maggiore, un ruolo portante Östlund lo affida alla colonna sonora in cui Improvisaciò 1 di Bobby McFerrin, noto ai più per il successo commerciale di Don’t Worry Be Happy, fa da contrappunto musicale all’accompagnamento elettronico della vita di Christian. I vocalizzi impalpabili di McFerrin contribuiscono a creare un’atmosfera eterea e a spezzare il corpo pesante dell’elettronica, tra una festa all’interno del museo e la carica in auto sulle note di Genesis dei Justice, trasportandoci in una dimensione reale ma distante dalla nostra, quasi incorporea, come la voce del bambino che risuona nella tromba delle scale.
Guardando il film si ha davvero la sensazione, in parte per la questione sonora in parte per la dimensione elitaria degli ambienti, di venire trasportati in un luogo altro, dai significati sfumati. In poche parole, come scrive Roy Menarini, sembra di assistere a «un film sull’arte contemporanea che è esso stesso arte contemporanea». Nella già celebre sequenza della performance scimmiesca – di cui è protagonista lo straordinario Terry Notary, performer di motion capture per la serie del Pianeta delle scimmie e King Kong nell’ultimo King Kong: Skull Island – l’esibizione sfugge davvero di mano ai curatori del museo? Rompendo un bicchiere, scacciando un uomo a forza di urla, trascinando per i capelli una donna nel tentativo (forse) di violentarla non si compie davvero la grandezza della performance stessa, con un’arte contemporanea che irrompe nel reale e diventa vera e propria contemporaneità nel qui e ora dell’interpretazione dell’artista? Come nella frase che avete appena letto, in The Square non si riesce a distinguere l’analisi dalla supercazzola, la riflessione dalla satira. Eppure è questa la sua forza, cercare il punto di rottura dei confini prestabiliti e indagare i luoghi grigi e indefiniti a cui accediamo oltrepassandoli: l’artista che eccede durante la performance, Christian che rompe le proprie barriere sociali andando nei quartieri popolari di Stoccolma, i giovani pubblicitari che esagerano nella campagna promozionale girando un video in cui una bambina mendicante esplode dentro il quadrato. Ed è curioso notare come tutti i personaggi che attraversano questi confini ottengano ciò che cercavano – l’artista una reazione animale, Christian portafogli e cellulare, i pubblicitari una campagna virale.
The Square ci interroga sui fondamenti dell’arte contemporanea e sul suo significato, sulle sue sfaccettature grottesche e sul suo statuto elitario, sul contrasto tra la realtà dorata del mondo benestante e quella sporca e compromessa della povertà
The Square ci interroga su tante tematiche differenti. I fondamenti dell’arte contemporanea e il suo significato, le sue sfaccettature grottesche – il ragazzo delle pulizie che “spazza” una parte di un’opera d’arte – e il suo statuto elitario – la società bene che viene alla presentazione e si lancia sul buffet, la festa alto borghese nelle stanze vuote del Palazzo Reale. Il confine labile tra uomo e animale – la performance di Oleg, il sesso senza sentimento tra Anne e Christian, la scimmia che si trucca nell’appartamento – e soprattutto il contrasto tra la realtà dorata del mondo benestante e quella sporca e compromessa della povertà, con i mendicanti presi a simbolo di un innegabile rifiuto sociale. Per quanto la società promuova certi valori, gli stessi valori che irrisi nel video della campagna promozionale provocano le dimissioni del protagonista, nei fatti questi vengono quotidianamente negati, respinti come il bambino che cerca soltanto giustizia e trova invece un muro, una barriera mentale e fisica da parte di Christian, che finisce per buttarlo (pur non volontariamente) di sotto dalle scale. Quei bambini, che nella loro innocenza sanno tracciare confini chiari, sono il futuro frustrato di questa parte della società che spinge per essere riconosciuta, inutilmente e senza reale possibilità di riscatto. L’unica vera punizione sono le loro parole e il loro sguardo giudicante, gli occhi delle proprie figlie che Christian sente puntati addosso nel finale, mentre si allontana in auto dal palazzo dove abitava la famiglia di quel bambino ingiustamente respinto che se n’è andato lasciando dietro di sé nient’altro che una scia d’acqua, e forse di sangue.
«Il quadrato è un santuario di fiducia e amore al cui interno tutti abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri»
SVE-GER-FRA-DAN 2017 – Sat. Dramm. 142' ★★★½
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