The Sessions di Ben Lewin
con John Hawkes, Helen Hunt, William H. Macy
Tra le stanze di un motel si consuma la serie d’incontri tra Mark O’Brian (John Hawkes) e Cheryl Cohen Greene (Helen Hunt). Il trentottenne, poeta e giornalista affetto da poliomielite sin dall’età di sei anni, è costretto a vivere dentro a un polmone d’acciaio e può concedersi soltanto sporadiche uscite, limitate a un massimo di quattro ore previo utilizzo di un respiratore artificiale. Fervente credente, istaura un rapporto amichevole e confidenziale con il nuovo sacerdote, Padre Brendan (William H. Macy), e le sue frequentazioni ruotano per lo più attorno alle assistenti che si occupano di lui e di cui a volte s’innamora.
Quando gli si manifesta più presentemente il pensiero di morire vergine, impaurito e ormai stanco, in parte suggestionato dagli articoli commissionatigli con tema ‘Sesso e Disabili’, e sol dopo aver ottenuto il permesso spirituale dall’amico sacerdote – che sceglie la via del buon senso per consigliarlo – decide di rivolgersi a una terapeuta specializzata in riabilitazione sessuale (tecnicamente, un “surrogato sessuale”), che a poco a poco lo inizierà, liberandolo dal peso della mortificante incapacità di gestire le risposte di un corpo di cui non ha il controllo.
Il regista Ben Lewin – anch’egli affetto da poliomielite – si lascia sedurre e affascinare dall’articolo On Seeing a Sex Surrogate del vero Mark O’Brian e, a più di quindici anni dal documentario premio Oscar Breathing Lessons: The Life and Work of Mark O’Brian di Jessica Yu, trae The sessions (The surrogate il titolo originale), raccontandoci con cura e candore di un uomo e del problema della sessualità, così come realmente esso si pone rispetto all’ostacolo della disabilità.
La storia, intrinsecamente poetica ed enormemente esposta a rischi retorici – di cui il film a fasi alterne risente con venature fortunatamente misurate da buon senso, ma avvertibili, soprattutto nella parte finale (sbrigativa e consueta) – è trattata con mediazione, grazie a una struttura semplice seppur schematica.
Interessante è lo sviluppo del tema della fede di Mark, vissuto in maniera problematica da un uomo che è abituato, per necessità e soprattutto per peculiare sensibilità, a volgere lo sguardo al cielo e alle cose altre: in bilico tra devota dipendenza e ironico risentimento. Ineccepibile, in tal senso, il contributo di William H. Macy che fa da spalla più che funzionale regalando i momenti di maggior divertimento. “Credo in un Dio con un senso dell’umorismo, un malvagio senso dell’umorismo, per aver creato me a sua immagine e somiglianza […] troverei intollerabile non trovare qualcuno responsabile di tutto questo”, pensa Mark.
Con sguardo sincero e delicato, poco – forse nulla – è lasciato alla dimensione del non detto, meno ancora a quella del non visto, a beneficio di una messa in scena mai volgare, condotta da due attori meravigliosi e in grande spolvero, la cui simbiosi perfetta permette loro di trasmettere percettivamente ogni piccolo imbarazzo del primo reciproco toccarsi. Se l’eleganza della Hunt consegna con grazia e leggerezza la pulizia della bellezza di un corpo garbato e maturo, perfettamente affine al respiro del film, Hawkes stupisce ancora con un’interpretazione dolorosa e ironica, fedele allo spirito di O’Brian e perciò schiva all’autocommiserazione. La voce – perfettamente restituita al pubblico italiano dal bravo doppiatore Alessandro Quarta – si fa flebile e tremante e il corpo assente parla, pur nella sfida attoriale di corporalità massima: “Lascia che ti tocchi con le mie parole perché le mie mani giacciono flosce come guanti vuoti”.
“Laurea, oggi sento gli applausi della folla […] Oggi mi chiedo se abbia trovato un posto tra gli altri […]
Oggi, spero che vediate un uomo”.
USA 2012 – Comm. Dramm. 95’ ***
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