The Pills - Sempre meglio che lavorare di Luca Vecchi
con Luca Vecchi, Luigi Di Capua, Matteo Corradini, Giancarlo Esposito
Con una webserie di successo nazionale, una serie tv e due programmi televisivi all’attivo, il trio romano The Pills – Luca Vecchi, Luigi Di Capua, Matteo Corradini – approda al cinema con un’opera prima il cui titolo è già una dichiarazione: Sempre meglio che lavorare. La storia, che prende spunto dalla serie web che li ha resi famosi, racconta della crisi di mezza età, o meglio di maturità, del trio di amici protagonisti. Luigi si sente invecchiare inesorabilmente perché non riesce più a farsi la terza pippa della giornata, Matteo si trova a dover affrontare la svolta “creativa” del padre, che comincia a postare foto dei piatti che mangia su Instagram e si convince di voler diventare fotografo a Berlino, Luca incontra una ragazza ad una festa e si fa trascinare in un circolo vizioso di lavori part-time, trasgredendo al sacro giuramento fatto da bambini – Luca, le conosci le regole, mai lavorare!
«Quando ci siamo laureati, lavorare era impossibile, non ci volevano neanche gratis. Allora la nostra reazione è stata: non lo vogliamo noi. E ci siamo inventanti The Pills», racconta Luca Vecchi parlando della genesi della serie web. Gli fa eco Corradini, che in un’altra intervista, alla domanda «Siete contenti di aver rifiutato il posto fisso?», risponde: «Rifiutato… quanno mai ce l’hanno offerto». A quattro anni dal primo video postato sul loro canale YouTube, è ancora il lavoro il centro del loro percorso. Non è un caso che la sera della festa in cui Luca e Giulia si conoscono per la prima volta, dopo essersi ubriacati, aver rubato e consumato stupefacenti, la vera trasgressione che la ragazza gli propone sia lavorare. Per reazione a una società che non occupa né si preoccupa di loro, stando alla percentuale di disoccupazione giovanile che da anni resta fissa sopra il 40%, i The Pills dipingono un mondo alla rovescia in cui è il lavoro a inseguire i giovani – le donne nel finale alla stazione – e a tentarli come una droga logorante e proibita – il litigio tra Luca e Giulia, schiava della dipendenza dal lavoro part-time, è una chicca di satira contemporanea. E allora, già che si parla di quanto poco si investe sui giovani, riconosciamo per una volta alla Taodue e al produttore Pietro Valsecchi, aspramente criticato per I soliti idioti e per i film di Checco Zalone, il coraggio di destinare parte dei proventi di quei film in questo giovane e scapestrato trio di autori, con uno spirito produttivo da cinema d’altri tempi.
La latitanza narrativa della prima parte del film, in cui si raccontano le origini dell’amicizia tra Luca, Matteo e Luigi – bambini vestiti come i loro omologhi adulti con la barba disegnata col pennarello – e in cui si costruisce a tavolino (letteralmente, intorno a un tavolo) la “poetica del non lavoro”, come la chiama Marco Giusti su Dagospia, è innegabile e acuisce il sospetto di trovarsi di fronte ad una semplice serie di sketch. La sensazione della prima mezz’ora è che i The Pills rischino di soffocarsi con il loro stesso linguaggio, ma di minuto in minuto il film si riscatta nell’intelligenza rara delle gag, nel carattere delle situazioni messe in scena, nella critica sottile con cui i personaggi guardano al mondo circostante e a loro stessi. Luca che vuole svoltare aprendo un bangla e si ritrova inseguito da tutta la comunità dei minimarket e dei rosari capeggiata dal boss Giancarlo Esposito (il Gus Fring di Breaking Bad), a capo della Banglacorp, Matteo che in una versione ribaltata è costretto a salutare il padre che fa le valigie e va in cerca di fortuna a Berlino, Luigi che insulta e minaccia di menare un ragazzo che gli dà del lei e che spiega l’utilizzo corretto di facebook alle guardie e ai carcerati (“non si deve mettere la geolocalizzazione dopo una rapina”), una sequenza infinita di battute da affissione da “Io c’ho la stessa identica voglia di spaccare il mondo de prima. Nessuna” a “È un’età difficile” – “Hai la mia stessa età!”, fino all’epocale “I compagni di merende sono i nostri Avengers”. Tutto, dal primo caffè all’ultima canna, contribuisce a dipingere una generazione che ha pochi e confusi comandamenti: il nichilismo come cifra del contemporaneo, la masturbazione come elemento intellettuale, il cazzeggio come categoria dell’anima.
Sicuramente, in Sempre meglio che lavorare non mancano sequenze fuori contesto e note stonate, ma è ridicolo quanto inutile criticare il film «perché l’opera è incompleta e incompiuta, nella scrittura come nella visione», come scrive su Rolling Stone il fantomatico Jack Bristow – in realtà il nome del personaggio di Victor Gaber in Alias – nella recensione da una stelletta su cinque che tanto ha fatto discutere. Se la pellicola è incompleta e incompiuta (e ci si potrebbe discutere) è perché si tratta, forse ce lo dimentichiamo, di un’opera prima. Quello che non si perdona al trio romano, cresciuto a sketch e brevi cortometraggi sul web, è non aver girato un film perfetto al primo colpo. È la condanna dei giovani autori in un cinema, quello italiano degli anni ’10, che stende tappeti rossi ai piedi dei registi affermati e lascia un margine di errore minimo alle nuove leve, che per quanto promettenti rimangono in sala per pochissimi giorni (quando in sala ci arrivano) nel disinteresse o peggio nel cinismo generale. Il grande schermo è un’arte ma anche un mestiere, e come ogni mestiere ha bisogno di tempo e lavoro perché ne si impari il metodo e si possano affinare le proprie capacità, mentre oggi anche agli autori più interessanti (e i The Pills sono fra questi) viene negata la possibilità di crescere facendo cinema. Come non riconoscere al trio romano il merito di aver finalmente portato al cinema il linguaggio di una generazione? Come non dare atto al film della capacità di raccontare con intelligenza i disagi dei ventenni di oggi, evitando le ridicole rappresentazioni portate sullo schermo da registi distanti anagraficamente decenni dai personaggi – per un esempio vicino basti pensare ai giovani romani, caricature di loro stessi, rappresentati in Scialla! (caricatura fin dal titolo) di Francesco Bruni – e dalle realtà che mettono in scena? E questo perché, finalmente, non solo davanti ma soprattutto dietro alla macchina da presa c’è la stessa generazione che si vuole raccontare, ci sono Luca, Matteo e Luigi con la loro ingenuità e la loro inesperienza, certo, ma anche e soprattutto con la loro onestà.
Tra la mancanza di lavoro e di prospettiva, Luca, Luigi e Matteo si mettono in scena sul grande schermo riprendendo spunti e meccanismi narrativi dal proprio universo on-line: dalle bottiglie di birra come nunchaku della pubblicità girata per la Peroni Forte fino alla rilettura dell’episodio The Game [A Love Story], in cui il trio sperimentava più che in ogni altro lavoro il linguaggio cinematografico, allontanandosi da quello delle pillole. E pur recuperando molti canoni dei lavori precedenti, il film sfugge intelligentemente al citazionismo a volte esasperato delle loro pillole e si ritaglia orgogliosamente una dimensione artistica autonoma. Un’autonomia musicale, che va a pescare a piena mani da un cultura indie raramente ascoltata al cinema – Promiscuità dei Thegiornalisti, Gaetano di Calcutta, Questo nostro grande amore dal nuovo disco de I Cani – e in parte visiva. L’intuizione migliore, che gioca sull’ambiguità colore/bianco e nero che caratterizzava i loro lavori on-line, è che il mondo a colori non sia altro che una versione completa, definitiva e per questo spaventosa, della realtà che i tre vivono intorno al tavolo della propria cucina. Il finale, con la Roma a colori al di fuori dell’appartamento che lentamente diventa in bianco e nero – il bianco e nero del tavolo attorno a cui ruotavano l’innocenza dell’infanzia e il cazzeggio dell’adolescenza permanente –, è il tentativo ultimo di cristallizzare il presente nella propria bolla fuori dal tempo, in una dimensione incompleta e incompiuta ma protetta. L’unico porto sicuro di una generazione senza prospettive, persa nell’inerzia dei vent’anni, che vive alla giornata e rinuncia persino al tentativo di un futuro. Ma dobbiamo rinunciare così, chiede Matteo a Luigi, «senza manco provacce?». «Col rischio de fallì? Ma cor cazzo, io non ce vojo manco provà».
Eppure, proprio da quel tavolo, da quella cucina in bianco e nero, nasce una consapevolezza e una speranza, per bocca del più infantile di tutti, Luigi: «Hai presente quando odiavi la cicorietta ripassata in padella che ti faceva la mamma, ma poi col passare del tempo hai cominciato ad apprezzarla?». Cioè? Per dare un senso al proprio percorso ognuno deve trovare la sua cicorietta, quel qualcosa di semplice ma buono che può rendere sopportabili le responsabilità dell’età matura. L'arma è carica e il colpo è in canna – come nella brillante idea di una pericolosissima pistola immaginaria fatta con le dita, tanto ridicola per gli adulti tanto temibile per dei ragazzi ancora bambini che fanno di quella fantasia realtà –, sta al mercato cinematografico italiano decretare se quest'arma potrà sparare. Se sarà benevolo e lascerà che la scrittura del trio e lo sguardo di Luca Vecchi, che firma la regia di quest’opera prima, abbiano il tempo di raggiungere la loro maturità, un giorno, magari, Rolling Stone e compagni cominceranno ad apprezzare, ripassata in padella e cotta a dovere, la cicorietta dei The Pills.
«Ogni sfida, ogni difficoltà, avevamo promesso che non l’avremmo affrontata.
E non l’avremmo affrontata insieme!»
ITA 2016 – Comm. 90’ ★★½
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