Taboo

Il gioco delle parole dette e poi censurate

La paura è un’emozione condivisa da ogni animale presente sul globo; la paura, l’occhio del torbido ciclone emotivo seppellito nella mente di ognuno di noi, ha forti ripercussioni sulla vita razionale dell’uomo. È la paura, araldo dell’irrazionalità, del dionisiaco e dell’infinito ad ampliare la nostra umanità, a limitare le nostre capacità, a far sì che il controllo morboso della nostra moralità sia sempre ferreo, senza possibilità di errore.
In una civiltà avanzata, dove i mass-media con la loro dis-informazione setacciano attentamente ogni genere di informazione, e la moda, sempre ultima a morire, trascina gli occhi della società verso il passato in un abisso che non vede progresso, anche certe credenze, superstizioni, modi di dire e di fare, ma soprattutto imposizioni di falsa moralità, dovrebbero essere superate; invece permangono, quasi ad insultare i passi avanti che la scienza applicata ha fatto fare all’umanità.
I tabù sono una realtà, sono una piaga, sono qualcosa di irrinunciabile (a quanto pare) e che invece dovremmo esserci lasciati alle spalle. La sfera sessuale, i misticismi, il cinismo, tutti gli aspetti condannati dal buonismo dei nostri interlocutori abituali, sono bollati per cattiveria da chi pensa ancora che nella nostra storia vi sia una morale, che sia essa fiabesca o filosofica.

La parola “tabù” che noi conosciamo, in realtà ha origini molto remote: è nella lontana Polinesia che dobbiamo cercarne le radici, e il significato che i nativi applicano al termine è infinitamente più complesso dell’accezione con cui noi la usiamo. Il tabù non si limita ad essere un mondo perduto, perduto e proibito, un Eden di concetti e pratiche scabrose, ma si pone ed impone come una maschera da indossare a piacimento, decretando in ogni epoca e luogo diverso ora questa, ora un’altra res da condannare; eppure non è altro che un semplice gioco di specchi, un lanciare il sasso e nascondere la mano: dopotutto è proprio ciò che ci è precluso da altri ad essere oggetto dei nostri desideri.
L’universo del politicamente corretto è vasto e in espansione: ingloba presto ogni campo d’azione; il tabù è l’argine, è lo strumento della moralità, è lo spauracchio, il capro espiatorio che ha sempre avuto la sua utilità.
C’è in realtà un diabolico schema di psicologia inversa dietro alla nostra concezione dell’illecito; basti pensare al fatto che, pur mantenendosi intatta la concezione che possediamo di questa terminologia, a livello subliminale il tabù stesso agisce come una radiazione di fondo che sussurra al nostro orecchio e ci ricorda della propria esistenza. Parlare esplicitamente di rapporti sessuali, di ideologie bollate dai più come “errate”, di idee razziali particolarmente estreme diventa arduo; eppure, anche se la parola non viene usata, l’udito e la vista incamerano discorsi ed immagini che concernono questi avvenimenti attraverso la rete di informazioni che ci circonda, e che ci fa presente, ancora una volta, l’amoralità del mondo in cui viviamo. Eppure c’è una bella differenza tra immoralità e amoralità.

Qual è il vero intento allora che sta dietro questa censura parziale, questo vedo-non vedo?
Non è altro che un inganno sociale, freudiano: è veramente il tabù il mezzo usato dalla moralità per arginare tutto lo sporco del nostro essere umani, o è invece la moralità (falsa in questo caso) ad essere immorale e cattiva grazie al recinto dei tabù, che ci rende come pecore in un pascolo troppo piccolo?
Per inversione psicologica è evidente che questa “proibizione” che ci attanaglia nella società è l’unica forma di moralità che conosciamo, ma immorale in quanto soggetta a restrizioni: è la moralità ad essere figlia dei tabù, non viceversa, nonostante l’idea pseudo-morale nasca prima della restrizione atta a crearla; inoltre, usare il termine “immoralità” è decisamente più appropriato in questo frangente proprio a causa della cattiveria insita nell’essere umano. E non la “cattiveria” in senso lato: dal latino captivus, che poi nel corso del tempo si è trasformato in captivus Diaboli attenendosi fortemente alla tradizione religiosa cristiana, non ha il significato insito di crudeltà e oscurità che ai giorni nostri viene immesso nel concetto, ma significa semplicemente “prigioniero”. Prigionieri di noi stessi, della moralità (quella ideale e quella inversa), prigionieri dei limiti a noi posti ed imposti. Prigionieri dei tabù.

Soggetti di un mediatico esperimento sociale di massa, restiamo a guardare inermi il mondo che avanza, e non appena si presenta un’occasione di trasgressione la cogliamo al volo; il problema è che anche violare il tabù fa parte dell’idea stessa di questo strumento: la ricerca e la conquista del privato, del nascosto, del non consentito, fa parte di quella colossale forza propulsiva umana chiamata curiosità che, una volta messa in moto, non ha che l’effetto di una dipendenza da informazioni (vere o false che siano) la quale nel tempo aumenta in modo esponenziale.
Non è che l’ennesima prova della regressione, o se si vuole della bonaccia, a cui la popolazione di questo millennio è soggetta semi-volontariamente; è vero, il bagaglio culturale e d’esperienza che abbiamo ci insegna che il limite serve per affinare e concentrare le capacità umane, ma d’altro canto è vero in egual modo che senza una catarsi da queste prigioni mentali prefabbricate la mentalità dell’uomo non può aprirsi verso nuovi orizzonti se non con l’inversione di rapporto tra tabù e morale.


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