Suspiria di Luca Guadagnino
con Dakota Johnson, Tilda Swinton, Mia Goth, Lutz Ebersdorf, Jessica Harper
In una lunga intervista informale che ripercorre il suo cinema dagli esordi fino all’ultimo Suspiria, Luca Guadagnino si concede una breve parentesi in difesa degli Spiderman di Sam Raimi, sollecitato dal suo divertito intervistatore. Il regista palermitano di quei film difende fortemente l’idea di punto di vista cinematografico e l’estrema abilità con cui riescono a forgiare un immaginario a partire dall’immaginario da cui derivano, quello del fumetto. Immergendo totalmente lo spettatore nella prospettiva del supereroe, secondo Guadagnino Raimi riesce con maestria a far vivere la fisicità di Spiderman, condizione necessaria e indispensabile perché vi sia immedesimazione rispetto a qualcosa di straordinario che non si possiede.
Le considerazioni di Guadagnino, apparentemente fuori contesto, creano in realtà le premesse per qualsiasi analisi di buon senso di Suspiria, facendo emergere ciò che in parte lo avvicina ma che al contempo lo allontana inequivocabilmente dall’originale di Dario Argento, di cui non è di certo un semplice remake. Suspiria è infatti un film concepito sulla corporalità dei personaggi, che parte dall’immaginario di genere di un film che Guadagnino ama e da cui fu folgorato da ragazzo, a tal punto da volerlo omaggiare sì, ma modellandolo a propria immagine.
Siamo nella Berlino del 1977 – non a caso, proprio l’anno dell’uscita del Suspiria di Argento –, asfissiante metropoli degli anni di piombo, sospesa nell’inverno spento del Muro in cui ancora riecheggiano le memorie nefaste dell’Olocausto. Susie Bannion (D. Johnson), una giovane danzatrice americana, si reca nella capitale tedesca inseguendo il sogno di entrare nella prestigiosa compagnia di danza Helena Markos. La sua audizione è sbalorditiva e la ragazza ottiene ben presto il ruolo di protagonista nella suggestiva performance Volk, entrando nelle grazie della celebre coreografa Madame Blanc (T. Swinton), con cui instaura un legame artistico simbiotico che disvelerà a poco a poco la sua matrice sovrannaturale. Intanto, l’anziano psicoterapeuta Jozef Klemperer (L. Ebersdorf alias T. Swinton), sospinto dalle sedute deliranti di un’ex ballerina che insinua che la compagnia sia il covo di streghe malvagie, inizia a indagare avvicinandosi pericolosamente alla tetra struttura della scuola.
Presentato alla 75ª edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Suspiria spiazza, disturba, divide, muovendosi nella destrutturazione consapevole dei codici del genere horror, calati in una dimensione autoriale densissima e audace, come del resto è il cinema libero dell’ambizioso Guadagnino. La realtà, tanto quella raccontata quanto quella del film a cui s’ispira, è perciò trasfigurata, fotograficamente decolorata e sottratta al rosso esasperato che caratterizzava visivamente l’opera di Argento. Ma se quest’ultimo considera il suo film più feroce rispetto al più recente e delicato Suspiria, il regista palermitano ritiene l’esatto contrario. Un simpatico scontro quello tra i due registi senza apparente via d’uscita, se non forse nel fatto che la ferocia e la delicatezza convivono in entrambi film e ne costituiscono lo spirito.
Con grande accuratezza di dettagli urbanistici, storici e culturali, Berlino emerge come la città del Muro, della divisione, della vergogna, della colpa e del perdono insiti nella storia europea del Novecento
Quello stesso spirito soffia anche sulla Berlino della pellicola – non più la Friburgo di Argento – che è attraversata dalle atmosfere ambigue e metafisiche di Balthus, tra i dichiarati riferimenti pittorici usati da Guadagnino. La città, con grande accuratezza di dettagli urbanistici, storici e culturali, si racconta per lo più attraverso le passeggiate del dottor Klemperer ed emerge come la Berlino del Muro, la Berlino della divisione, della vergogna, della colpa e del perdono insiti nella storia europea del Novecento. Quasi facendosene portavoce, lo psicoterapeuta si reca spesso presso la casa dove in passato aveva abitato insieme alla moglie Anke, scomparsa più di trent’anni prima e interpretata da Jessica Harper – un ennesimo omaggio al Suspiria originale in cui l’attrice vestì i panni della protagonista Susie. L’indomabile ricerca di Klemperer è solo il preludio al fatidico incontro con l’amata che, purtroppo, si rivelerà ben presto un’evanescente illusione creata dalle streghe.
Su queste intricate premesse, Guadagnino sviscera il concetto delle “tre madri” (Mater Tenebrarum, Mater Lacrimarum, Mater Suspiriorum), un tema a suo dire soltanto sotteso nel film di Argento, e lo riporta a una dimensione simbolica ampissima, in una realtà impalpabile e ancestrale che, sulla scia dell’antichissimo culto delle dee generatrici o distruttrici, è prima ancora «del demonio, prima di Dio» – come sussurra lo stesso Klemperer. Il concetto di maternità è ribaltato, ci mostra l’altro rovescio della medaglia, in cui la solenne figura della madre-terribile si oppone alla classica concezione della madre buona e rassicurante. Suspiria s’impone quindi come un film atipico sulla maternità, che riflette sulle radici del male e della creazione artistica, sul mistero del femmineo e sulla sua carica delirante e dolorosa, sul potere esercitato attraverso il meccanismo del rito. Trascinate nell’illusione – uno dei temi portanti del film – del loro stesso gioco di cui si scopriranno vittime, le streghe di Suspiria non rifuggono la loro natura ma la rivendicano, perché nella storia convivono sia le forze del bene sia quelle del male. E la Berlino divisa dal Muro, paradossalmente sospesa tra ferocia e delicatezza, incarna appieno tutto questo.
Si tratta di un’esplorazione psicologica di persone che cercano di esperire un rituale, cercando di imbrogliare la morte
«Si tratta di un’esplorazione psicologica di persone che cercano di esperire un rituale, cercando di imbrogliare la morte», dice Thom Yorke, leader dei Radiohead che in Suspiria si è cimentato per la prima volta nella composizione per il cinema. Coerentemente all’approccio di Guadagnino e allontanandosi dai Goblin che curarono la colonna sonora per Argento, Yorke procede nella sua direzione, mantenendo però il concetto strutturale e quanto mai spaventoso di “ripetizione”. This is a waltz thinking about our bodies. What they mean for our salvation – «Questo è un valzer che riflette sui nostri corpi. Quello che significano per la nostra salvezza», apre l’incantevole Suspirium, brano portante del film e in corsa per l’Oscar alla miglior canzone.
Il risultato è una miscela dissonante di immagini e melodie di terrificante armonia, dentro la straordinaria potenza di una messa in scena fisica, strutturata sulla danza e sui corpi dei sui interpreti. È la natura stessa dell’atto artistico, uno spaventoso atto d’amore, quello stesso amore sublimato nel gesto della danza che unisce Madame Blanc e Susie; quello stesso amore in grado di sopravvivere ai demoni del Tempo e della Storia, che lega il dottor Klemperer alla sua Anke, andata via per sempre nella neve nera dei campi di sterminio nazisti. Uno spiraglio di luce nel buio dunque, sintetizzato nel dolce Know tomorrow at peace – «So che il domani è in pace», verso con cui si chiude il brano di Yorke. E nel domani del film, nel futuro, inciso sul muro della casa in cui hanno convissuto, c’è ancora il cuore con le iniziali di Jozef e Anke, quasi a declamare che anche là dove c’è un cuore che sanguina può esservi speranza.
«Quando danzi la coreografia di un’altra
rinasci a immagine di chi l’ha creata».
USA-ITA 2019 – Dramm. 152’ ★★★½
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