Sul male oscuro
L'uomo che trema di Andrea Pomella e il male della depressione (letteraria e non) tra Berto e Foster Wallace
Tutto comincia col cattivo umore. Il malessere si fa poi più intenso, e si presenta ogni giorno assieme a un forte senso di oppressione e difficoltà a deglutire, fino a diventare insopportabile. Dopodiché, ti rendi conto che qualcosa non va: arriva la crisi, e ti costringe a chiedere aiuto. Pare che undici milioni di italiani soffrano di depressione: ognuno con la sua intensità, col suo bagaglio di «ipersolitudine», spesso scambiato per comune tristezza. Andrea Pomella, invece, la chiama col suo nome: malattia. La racconta in un libro le cui prime pagine comparvero per la prima volta su Doppiozero circa un anno fa: Storia della mia depressione, già di per sé un ottimo racconto breve, ha assunto ora le sembianze di un romanzo, diventando L’uomo che trema – e mai titolo fu più azzeccato.
A. soffre di depressione; per l’esattezza, di depressione maggiore. Quando un giorno i suoi sintomi si manifestano in maniera più prepotente, A. chiama Grazia, la compagna, che gli suggerirà poco dopo di vedere un medico-psichiatra. Arrivano quindi i farmaci: prima coi loro effetti collaterali, tra cui le improvvise e immotivate crisi di pianto («non sto piangendo perché sono triste o perché ho un motivo particolare per piangere, sto piangendo con lo stesso trasporto emotivo che avrei se stessi pisciando»), e dopo coi loro benefici, ossia il graduale appiattimento delle ansie e del cattivo umore.
Purtroppo, per A. la situazione non è in discesa, e infatti la malattia si ripresenta sotto forma di pulsione di morte, in un moto dell’animo che travalica anche l’amore per Grazia e per il figlio Mario: «La mia malattia è tale da convincermi di questo, che la morte possa essere una soluzione più vantaggiosa, un trattamento più efficace; la morte in questo momento è più persuasiva dell’amore che provo per loro». Si ha qui una totale perdita di senso, coincidente con la pienezza di senso della depressione, oltre alla consapevolezza di non essere l’unico a soffrirne, di essere uno tra i tanti.
Far capire a un depresso che la sua malattia non è niente di che, che non è della gravità che egli aveva immaginato, che tutto sommato è nella norma, un quadro clinico tra i più diffusi, significa mettere a repentaglio l’unica cosa a cui si conferisce senso. Perché se è vero che tra gli esiti finali della malattia c’è il privare di senso ogni aspetto della vita, la sola cosa che resiste a questo disfacimento è la malattia stessa. La malattia è così piena di senso, la malattia ingurgita come un mostro obeso tutto il senso che normalmente una persona sana rintraccia nel creato.
Quella di Pomella non è solo la narrazione della malattia presente di A., bensì anche di quella passata: è nell’infanzia che il male trova le sue radici, a partire dall’infantile vergogna per il proprio aspetto fisico, che scatena colpa, ansia sociale, alienazione, e mette in luce un chiaro segnale depressivo: l’egocentrica sensazione che chiunque ti stia osservando e giudicando. Ancor più determinante, l’abbandono del padre, dinanzi al quale A. è sia abbandonato sia abbandonante: suo padre lascerà sua madre per un’altra donna, allontanandosi quindi dalla famiglia; e il figlio, da quel momento, non vorrà più rivedere il genitore. L’incontro tra i due avverrà a distanza di quarant’anni, quando Mario chiederà al babbo di conoscere il nonno, in un momento che non sarà soltanto una riconciliazione: «In questa giornata memorabile, se c’è un grande assente, è proprio il mio male».
Giuseppe Berto parlava di «lotta col padre», e chiamava la depressione «nevrosi da angoscia»: l’ha descritta e narrata il Il male oscuro, il suo capolavoro, una cartina di tornasole per chiunque voglia leggere qualcosa sul tema. Non è un caso che figuri tra le letture di A., e che egli vada alla Balduina, il quartiere dove Berto visse i suoi anni romani, a visitare i luoghi dello scrittore che, oltre che col conflitto con la figura paterna, identificava la sua malattia con la paura di scrivere. Anche David Foster Wallace si è ucciso per la paura di scrivere, risponde A. a Grazia quando gli domanda il motivo del suicidio di Wallace; del resto, non c’è altra spiegazione: la scrittura è intrinsecamente legata alla depressione, e viceversa.
Anche David Foster Wallace si è ucciso per la paura di scrivere. Non c’è altra spiegazione: la scrittura è intrinsecamente legata alla depressione, e viceversa
Lo stesso vale per l’ironia: «è la profonda, a volte feroce, inestinguibile sete di ironia attraverso cui il depresso filtra la propria visione del mondo. Gli scrittori depressi ricorrono all’ironia più spesso degli scrittori non depressi». Berto e Wallace, per quanto distanti nel tempo, nello spazio e negli universi della letteratura, la condividevano; ridevano e facevano ridere: i loro libri ne sono la riprova (Pomella aveva parlato del rapporto tra i due scrittori in Giuseppe Berto, Il male oscuro sempre per Doppiozero).
Per il nostro uomo tremante la scrittura non è necessariamente un diversivo contro la malattia; non viene mai nominata in quanto attività terapeutica, se non nel caso di Berto. Piuttosto, come si è visto, sembra parte integrante dello stato depressivo. Curative sono invece la corsa, che A. pratica con una certa costanza per le vie di Roma, e il giardinaggio, un passatempo che è però un’arma a doppio taglio, in cui egli ritrova il gusto per la sfida con se stesso che si traduce in un circolo vizioso malsano: sono le piante stesse a farlo star male, e quando muoiono soffre per non averle potute curare.
È infatti la musica il miglior medicinale aggiuntivo: suonare la chitarra acustica diventa il modo per riequilibrare l’umore e per rafforzare le proprie difese, straniarsi dal mondo e ritrovare una momentanea quiete. «Elliott Smith diceva polemicamente che, se suoni la chitarra acustica, per la gente sei il solito ragazzo sensibile, depresso. Forse, alcune volte, la gente non ha del tutto torto».
Either/or, splendido disco di Elliott Smith, è un altro dei fari a illuminare o a guidare A. dentro il testo: anche il cantautore americano si uccise; lo fece con una coltellata al petto, uno dei modi più violenti e dolorosi pensabili. E resta impressa nella memoria una sua immagine, anch’essa riportata nelle pagine del romanzo: lui, vestito di bianco, che suona davanti al pubblico della Notte degli Oscar una versione chitarra e voce di Miss Misery, brano candidato per la miglior canzone originale (nell’anno in cui vinse Celine Dion), tratto dal film Will Hunting di Gus Van Sant. Ecco, Elliott Smith su quel palco è una delle immagini che più incarna l’idea d’inadeguatezza: un uomo solo dinanzi a centinaia di persone imbellettate così diverse da lui. A suo modo, il ritratto di una depressione.
E quindi un’altra delle convinzioni a cui sono giunto è che stare bene mi angoscia. Mi angoscia perché in fondo la malattia depressiva svela ben presto ogni inganno, mette a nudo la realtà, che è sempre una realtà ammobiliata dalle nostre convinzioni. Quindi in verità non mi trovo bene nei luoghi in cui penso di stare bene. E in definitiva stare bene nei luoghi in cui penso di stare bene è una condizione fraudolenta, psichicamente falsa. La realtà “ha natura sì malvagia e ria”, è come la lupa dantesca, cattiva e colpevole, non sazia mai il proprio bramoso desiderio, e dopo esserci cibata di me ha più fame di prima.
L’uomo che trema non può dirsi un testo che deve qualcosa alla forma-diario: somiglia più a un romanzo-confessione dove le vicende, i concetti e le descrizioni sono chiare e ordinate; la prosa è piana, intellegibile e curata, e solo a tratti si fa torrenziale. Non è il monologo-sfogo del depresso: più che altro la sua messa a nudo in una versione, se vogliamo, aggiornata del romanzo psicanalitico bertiano, poiché la psicoterapia viene appena sfiorata dal narratore e solo per dire che non la ritiene necessaria per la sua guarigione.
L'uomo che trema non è il monologo-sfogo del depresso: più che altro è la sua messa a nudo. E sarebbe bello se tutti, o almeno quegli undici milioni che soffrono di depressione in Italia, leggessero questo libro
Non c’è quindi neanche lo sberleffo dello psicologo di sveviana memoria, bensì il puntuale racconto di una condizione che nel mondo interessa milioni di individui; e sarebbe bello se tutti, o almeno quegli undici milioni che vivono in Italia, leggessero questo libro. Non per trovarci qualcosa di salvifico, come A. non lo ha trovato nel Male oscuro: «E cosa trovai di salvifico ne Il male oscuro? A dire il vero niente. O niente di strettamente salvifico, ma forse tutto ciò che poteva essermi utile a distribuire il contenuto del mio personale vaso di Pandora in tanti vasetti più piccoli e maneggevoli».
Scrive Pomella, o meglio A., che, come Berto aveva l’assillo della gloria, lui aveva quello del romanzo: «ero depresso per colpa del romanzo, perché non credevo più nella sua funzione». Funzione che, malgrado tutto, il romanzo ancora oggi mantiene, restando una delle forme più efficaci e potenti per veicolare messaggi tanto complessi. E L’uomo che trema è qui a dimostrarlo.
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