Sul filo nero del perturbante

Ordinario e estraneità nei racconti di Neroconfetto, raccolta dark tra ombre, onirismo e scavo dell’inconscio

C’era una canzoncina che cantavo spesso alla scuola materna, e faceva più o meno così: «Dietro il muro di una chiesa / C’è la tomba di un bandito / Che una notte si è svegliato…». Non ricordo assolutamente come continuasse, ma ricordo nitidamente che il testo, accompagnato dalla sua melodia semplice e sinistra, mi suscitava una paura ingenua, primitiva, la stessa che si può provare stando al buio, da soli, quando nel silenzio dell’oscurità si genera una sensazione d’attesa minacciosa. Questa è stata la stessa sensazione, mitigata e rivisitata, che ho provato leggendo i racconti di Giulia Sara Miori in Neroconfetto, raccolta pubblicata da Racconti Edizioni. È stato curioso rivivere il ricordo di quello spaesamento infantile che, andando avanti nella lettura, diventava man a mano più intenso.
 

Pagina dopo pagina, ci si accorge tuttavia di come queste situazioni inizialmente comuni e familiari comincino ad alterarsi, a distorcersi – il più delle volte per mezzo di un oggetto o di un elemento che desta inquietudine, estraneità


Neroconfetto contiene ventuno racconti gotici, dark: ognuno di questi racconti si apre su scene di vita quotidiana del tutto ordinarie all’apparenza, narrate in terza persona o sotto forma di monologhi. Pagina dopo pagina, ci si accorge tuttavia di come queste situazioni inizialmente comuni e familiari comincino, come se ci trovassimo davanti un quadro di Munch, ad alterarsi, a distorcersi – il più delle volte per mezzo di un oggetto o di un elemento che desta inquietudine, estraneità. Così, ad esempio, la protagonista del primo racconto intitolato “La giacca”, Clara, entra in un negozio vintage e decide di acquistare una giacca che pare donarle particolarmente, rendendola più bella e attraente che mai, proprio come aveva sempre desiderato. Se all’inizio Clara si sente estasiata per tutte le attenzioni e gli sguardi che riceve, quegli stessi sguardi – così tanto invidiati in passato all’amica Laura – si fanno via via più subdoli, invadenti, la mettono a disagio e la spaventano, tanto da farla ricredere su ogni sua precedente convinzione e fantasia. Lo stesso vale per Emma, protagonista di “La babysitter” che, contenta di aver trovato un lavoretto dopo essersi trasferita a Milano, si accorge che la bambina di cui dovrà occuparsi, Camilla, non è così candida e innocente come invece se l’era immaginata:
 

Emma si sforzò di rispondere, ma dalla sua bocca non uscì neanche un suono. La bocca era tesa in un sorriso spaventato, e le gambe erano diventate fisse e rigide come pezzi di plastica. Provò a sbattere le ciglia, ma i suoi occhi spalancati come quelli di un uccello videro solo il viso soddisfatto di Camilla e le mani che stringevano le forbici.


La normalità e la quiete che caratterizzano gli incipit dei racconti si dissolvono piano piano, mentre un pauroso sentore di weirdness e straniamento affiora e si fa strada in un crescendo di suspense: il lettore rimane in tensione per tutto il tempo della lettura, in attesa che il filo del rasoio su cui camminano i personaggi delle varie storie si spezzi. Infatti l’evento nefasto è sempre dietro l’angolo, ed è con l’uso di uno stile particolarmente asciutto e lineare che l’autrice prima costruisce e poi accresce il senso di minaccia che incombe sui protagonisti: in quest’ottica, la scrittura di Giulia Sara Miori sa essere molto suggestiva – anche alla luce delle sue influenze letterarie, tra cui Poe, Stevenson, Kafka o ancora Shirley Jackson – proprio perché lascia uno spazio molto ampio alle intuizioni, all’immaginazione di chi legge, senza soffermarsi su delucidazioni logiche o descrizioni dettagliate, esaustive.

Ogni storia sembra così avvolta da una patina onirica, collocata in una dimensione dove l’Unhemliche, il perturbante, sovrasta ogni altro pensiero. Partendo dalle routine quotidiane più ordinarie per sfociare negli incubi più spaventosi, l’immaginario di Giulia Sara Miori è abitato da personaggi prigionieri tanto delle loro insicurezze, quanto dei loro desideri. Sono per lo più donne, le ‘prigioniere’ in Neroconfetto: ragazze, amiche, bambine, madri, amanti, e ognuna di loro dà voce a ricordi, paure e ossessioni angoscianti. Un aspetto molto interessante della raccolta è infatti l’indagine che l’autrice fa della psicologia femminile: ognuna delle sue protagoniste ha a che vedere con dei cliché legati alla femminilità, che si tratti di ideali di bellezza, canoni estetici, maternità. Tra gelosie, invidie e relazioni tossiche, ci sono le amiche protagoniste di “La clinica” e “Per sempre”; le madri di “Lucille” e “La culla” («Greta era sicura di aver detto “mamma”, ma quando lei si era girata e le aveva sorriso, nei suoi occhi riconobbe lo sguardo gelido di suo figlio»), attanagliate dagli assilli e dai sensi di colpa nei confronti di figli che non riconoscono più, se non come creature enigmatiche e mostruose; ancora, le bambine spettrali di “L’inquilina” o “Winnie”.  Giulia Sara Miori delinea la psicologia delle sue protagoniste senza filtri, mostrando in che modo i più impronunciabili desideri e pensieri serpeggiano e si insinuano nelle loro menti, conducendole spesso e volentieri a un punto di non ritorno. Introspezioni febbrili, tic, censure, autocommiserazioni deliranti: è in particolare nei monologhi, spesso infarciti di riprese anaforiche, che l’autrice mette in evidenza questi meccanismi, come possiamo vedere nel racconto “Lucille”.
 

E smettila di fissarmi, mi fai paura, lo sai che non è colpa mia, io ce l’ho messa tutta ma non è servito, perché tu di guarire non volevi saperne, tu sei una piccola serpe, Lucille, e non è colpa mia se stavi sempre peggio, non guardarmi così, Lucille, lo sai bene che è stata una disgrazia. Smettila di sorridere, Lucille, vattene via, non voglio più vederti, io non c’entro niente, io volevo solo curarti, volevo stare con te, volevo che fossi la mia bambina, ed è solo colpa tua, Lucille, perché sei una bambina cattiva


O ancora nelle pagine di “Noemi” – dove, tra le altre cose, l’autrice affronta il tema dello stalking attraverso la voce compromessa e inaffidabile di una giovane che, ossessionata dalla sua compagna, si rivolge direttamente al lettore per renderlo testimone e confidente di quanto le sia accaduto, delle sue colpe e giustificazioni:
 

L’avevo messa dentro una teca di plastica, insieme ai denti da latte. La treccia me l’aveva fatta mia madre, e poi me l’aveva tagliata e conservata per tutti quegli anni. Mi dispiaceva separarmene, ma desideravo che Noemi avesse qualcosa di mio: una parte di me.
E così gliel’ho mandata, le ho mandato la mia treccia, i miei capelli, perché mi sembrava una cosa carina, un gesto romantico, ancora più romantico della rosa.


Anche quando credono di essere felici, appagati, i personaggi della raccolta sono in realtà pedinati da un’ombra, ed è proprio quest’ombra la materia di cui, per ossimoro, sono intrise le fiabe horror di Neroconfetto. Bloccati in circostanze malaugurate, fatali, devono fare i conti con le proprie maledizioni, che possono manifestarsi sotto forma di fantasmi, o addirittura zombie. Ne sono un esempio i racconti “Notturno”, in cui Attilio è perseguitato dallo spettro dell’ex moglie defunta, Marilena, che gli riappare con un viso sfigurato e mostruoso, danzante in mezzo alle fiamme, o “L’incidente”, ultima storia della raccolta, dove Claire, uscita dalla propria tomba e con ancora la terra addosso, accetta il passaggio in macchina di un ragazzo sconosciuto di nome Michele, senza prevedere la fine tragica che l’aspetta (di nuovo). Piccoli spettacoli onirici e raccapriccianti dove la percezione del tempo si sfalda e la sua misurazione diventa impossibile: il passato tiene inchiodato il presente, provocando un vero e proprio smarrimento. È così che nelle pagine di Miori il lettore assiste a degli eterni ritorni, a delle condanne cicliche in cui il tempo sembra essersi fermato per sempre perdendo del tutto di significato, come nel racconto “L’aereo”, dove la protagonista si accorge in volo che l’orologio indica di continuo le 16:34, ritrovandosi con i capelli bianchi e piena di rughe in viso, mentre il personale a bordo la invita a non farsi prendere dal panico.
 

I personaggi della raccolta sono pedinati da un’ombra, ed è proprio quest’ombra la materia di cui sono intrise le fiabe horror di Neroconfetto. Bloccati in circostanze malaugurate, fatali, devono fare i conti con le proprie maledizioni


In bilico tra situazioni ordinarie e visioni sinistre, per certi versi grottesche (penso per esempio al parrucchiere ‘macellaio’ del racconto “Capelli”), l’autrice ci fa capire che in nessun caso c’è una via di scampo per i personaggi di Neroconfetto, tutti vittime delle proprie debolezze, dei propri desideri, traumi, pensieri meschini e morbosi. Ma accanto a questo, nella raccolta si ravvisa soprattutto la curiosità autoriale di indagare la natura umana nelle sue crepe, nei suoi lati più oscuri, dove i confini tra ragione e follia, incubi e percezioni reali, sono labili, così come il confine tra passato e presente, tra vita e morte. Giulia Sara Miori scruta negli abissi dell’inconscio riportando alla luce delle ‘fantasmagorie’ tetre, macabre, legate tutte tra loro da un filo rosso – o meglio nero – quello del perturbante, e ci ricorda di assicurarci, tra una commissione e l’altra, che non ci siano strane ombre o presenze a seguirci, né tantomeno banditi. Non si sa mai.


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