Sul 38° parallelo

Come Kim Il-Sung trascinò russi, americani e cinesi nella guerra che separò per sempre le due Coree

Da molti secoli la Corea suscita gli appetiti dei suoi vicini, per l’abbondanza di risorse naturali e per l’alto valore strategico di una regione stesa tra le isole del Giappone e la Manciuria, area chiave della frontiera sino-mongolica. Sottoposta quindi a continui condizionamenti delle sue istituzioni statali, ora frammentate, ora tese all’unificazione, la penisola coreana viene percorsa dai flussi religiosi, politici e culturali che scandiscono la vita dell’Estremo Oriente; perciò è naturale trovarla inserita, nel tardo Ottocento, nell’espansione del nuovo Impero giapponese. Annessa nel 1910, sotto l’amministrazione nipponica la Corea conosce sviluppi nell’agricoltura, nell’industria pesante, nella produzione di elettricità e nelle attività estrattive, così come vede nascere quei movimenti indipendentisti che opporranno due divergenti concezioni unitarie di Corea nella tarda estate del 1945. Stroncato il Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale, Mosca e Washington dividono il Paese in due aree d’influenza separate all’altezza del 38° parallelo, ma il tentativo di unificazione lanciato alla Conferenza di Mosca nel dicembre ‘45 fallisce per la mancanza dei requisiti necessari nel panorama politico coreano. In loco si procede quindi alla cristallizzazione dello status quo: a sud il governo di Washington avvia un regime fondato sul modello americano, mentre a nord l’Armata rossa cede il potere ai comunisti guidati da Kim Il-Sung, che getta le basi della Repubblica Democratica Popolare di Corea (DPRK) attraverso un vasto programma di riforme politiche ed economiche di netto taglio collettivista. È la forma politica tendenzialmente binaria che, negli stessi anni, attecchisce in Europa ai due lati della Cortina di ferro.

Se però la territorializzazione flessibile della sfera d’influenza americana, imposta dalla nuova strategia del containment, suggerisce per la Corea un ruolo secondario in una Guerra Fredda da giocarsi tutta in Europa e Medio Oriente, le vicende coreane remano in senso contrario. Si dà seguito solo in parte alla risoluzione del ‘47 con cui l’ONU invita le due Coree a indire libere elezioni: all’ostruzionismo del Nord comunista, dove nel maggio ’48 si proclama una Costituzione unitaria, corrisponde a Sud la vittoria elettorale dei nazionalisti conservatori, che in luglio approvano una Costituzione anch’essa «valevole per tutta la Corea» ed eleggono presidente l’autoritario Syngman Rhee, legato a doppio filo con Washington. Ma il solco scavato tra Seul e Pyongyang da culture politiche contrapposte è ancora aggravato in dicembre dalle Nazioni Unite, che riconoscono il governo di Seul come l’unico legittimo per l’intera Corea. Stati Uniti e Unione Sovietica, convinti di avere la libertà politica e strategica di ammorbidire il loro testa a testa in Corea, ritirano le proprie truppe entro la metà del 1949, ma il disimpegno militare delle potenze non basta a raffreddare l’area. Alle ragioni strategiche del taglio del Paese al 38° parallelo si associano fattori socio-economici che favoriscono il Nord industrializzato così come il Sud agricolo nell’adesione ai lineamenti politici ed ideologici che i rispettivi partner presto elevano a sistema. Ma la stessa diversità pregiudica la crescita economica sopra e sotto il parallelo, perché per funzionare in efficienza gli apparati estrattivi e industriali del Nord hanno bisogno dell’apporto alimentare e demografico del Sud, mentre questo non può sostenere il suo fabbisogno di energia e manufatti senza le industrie oltre il parallelo. I giapponesi avevano pensato lo sviluppo coreano in base alla possibilità di sfruttare contemporaneamente risorse complementari concentrate in aree diverse: in campo economico, la riunificazione del Paese sembra alle due Coree l’unica alternativa alla dipendenza dai rispettivi protettori.
 

La riunificazione del Paese sembra alle due Coree l’unica alternativa alla dipendenza dai rispettivi protettori, ma la guerra è impossibile se non la vogliono le superpotenze


Ma la guerra è impossibile se non la vogliono le superpotenze a cui le due Coree sono subordinate dalla nascita, e alla metà del 1949 a nessuna delle due interessa aprire un conflitto nell’area. La politica estera americana mira a consolidare l’influenza di Washington in Europa (sono gli anni del Piano Marshall), mentre sul fronte interno il rinnovato internazionalismo della Dottrina Truman indora la costosa pillola del contenimento, ora propagandato come la sola strategia capace di impedire all’Unione Sovietica, degradata a totalitarismo, di espandersi a danno dell’Occidente democratico come accaduto nei Paesi dell’Europa orientale. Eppure nei fatti Washington non ha la minima intenzione di estendere il suo costosissimo controllo oltre l’Europa, il Medio Oriente e il Giappone; non ce n’è l’urgenza, vista la confortante superiorità militare assicurata dal monopolio nucleare. Ma è proprio qui che, nell’agosto del 1949, il panorama cambia stagione. L’atomica sovietica spezza l’asimmetria militare fino ad allora favorevole agli Stati Uniti, sempre preoccupati dalla superiorità convenzionale dei russi, e aggrava a Washington uno spaesamento che precipita in un’angoscia strategica e ideologica quando, in ottobre, Mao Zedong chiude lo scontro coi nazionalisti e fonda la Repubblica Popolare Cinese. Rimproverata di aver «perso la Cina», l’amministrazione Truman va incontro al clima nuovo e impregnato di manicheismo in cui il Consiglio per la Sicurezza Nazionale produce l’NSC-68, un documento decisivo nell’esacerbare le categorie simboliche e ideologiche della Guerra Fredda e nel determinare lo sviluppo dogmatico dello scontro. Il principio «a defeat anywhere is a defeat everywhere» , qui contenuto, sblocca a Washington la pensabilità di un intervento in Corea contro un’eventuale espansione comunista.

Espansione che, ai sovietici, comincia a sembrare praticabile per i medesimi sviluppi. Spinto da forti impulsi nazionalistici radicalizzati dal portato ideologico del comunismo, Kim Il-Sung passa tutto il 1949 a suggerire a Stalin la necessità di una guerra. Questo non perché l’orizzonte comunista sia tutto dello stesso rosso, come pensano grossolanamente gli americani, e quindi la politica estera di tutti i comunisti sia quella del Cremlino, ma piuttosto perché Pyongyang non può non concertare la sua azione con l’URSS, che è unico partner commerciale, nonché unica fonte di know how, di una Corea del Nord tagliata fuori da ogni relazione prebellica. Stalin non intende però provocare il temuto intervento degli Stati Uniti e si oppone fermamente, finché nel corso del 1949 non si attiva una combinazione di fattori in grado di fargli cambiare parere. Calmati e difesi dall’atomica proletaria, i sovietici vedono nella vittoria di Mao un’aspettativa, se non una garanzia, di maggiore sicurezza nell’area; viceversa, sarebbe un grave errore scontentare un Mao interessato a condurre la Corea verso una riunificazione che gioverebbe, oltre che all’intero campo comunista in termini di immagine, anche e soprattutto alla nuova Cina, che con la Corea del Nord ha importanti vincoli economici specie nell’importante Manciuria. Non disposto a tollerare l’occupazione capitalista di metà della sua patria, Kim Il-Sung si serve dell’ottobre cinese per proseguire nella sua insistenza sfibrante, ma finalmente efficace. Ricevuta la promessa di consistenti forniture di materie prime, Stalin concede il nullaosta definitivo dopo il 12 gennaio 1950, quando il Segretario di Stato americano, Dean Acheson, mette in chiaro che la Corea non rientra nel perimetro di difesa statunitense nel Pacifico. In altri termini, non c’è da temere l’intervento degli Stati Uniti.
 

La distruzione, per mano comunista, di una nazione da loro creata e mantenuta, sarebbe per gli Stati Uniti un colpo intollerabile alla propria credibilità


Ma Stalin e compagni sono giocoforza all’oscuro degli sviluppi del pensiero strategico americano seguiti all’NSC-68; poco prevedibile è la radicalità della risposta a cui possono indurre gli obblighi diplomatici del contenimento. La distruzione, per mano comunista, di una nazione da loro creata e mantenuta, sarebbe per gli Stati Uniti un colpo intollerabile alla propria credibilità in politica estera presso gli indispensabili alleati europei: da qui la scelta di intervenire in Corea, sulla base dell’assenso erogato dalle Nazioni Unite in assenza, forse calcolata, del rappresentante sovietico. 
Passato il confine il 25 giugno 1950 e giunti ad occupare quasi tutta la penisola, i comunisti si trovano a fronteggiare le forze ONU guidate dal generale Douglas MacArthur; definito il Nord «Stato aggressore» e approvato un piano britannico per riunificare il Paese manu militari, le Nazioni Unite autorizzano le forze atlantiche ad abbattere il regime di Pyongyang, ma l’inaspettata entrata della Cina nel conflitto cambia nuovamente le carte in tavola. Gli americani riescono solo a fatica a respingere i comunisti e solo grazie a nuovi rinforzi riportano il fronte al 38° parallelo per la Pasqua 1951. La progressiva apertura degli archivi russi e cinesi suggerisce di guardare all’intervento di Pechino come ad un’operazione prevista da Mao all’interno di un indirizzo attivo di politica estera, e non più ad una mossa del Cremlino per vincere la guerra, né tantomeno ad una semplice reazione al pericolo di un attacco americano in Manciuria – peraltro molto concreto fino alla destituzione di MacArthur, autore di inaccettabili critiche mosse alla Casa Bianca per la debole conduzione di una guerra fatale.
Così come si è aperta, in poco tempo si chiude l’opportunità di una guerra in Corea. Mancando da entrambe le parti la volontà di allargare il conflitto, le operazioni militari ristagnano scoraggiando Kim Il-Sung e Mao, mentre la nuova amministrazione Eisenhower preferisce raffreddare l’area coreana per impegnarsi meglio contro i rischi di eversione dell’ordine statunitense in America Latina. I negoziati aperti dai sovietici nel ‘51 proseguono, pur difficilmente, in questo nuovo contesto segnato dalla morte di Stalin nel marzo 1953. L’armistizio del 27 luglio, senza cambiare nulla della situazione coreana, chiude una fase di cambiamento per il mondo che esce dalla prima delle guerre della Guerra Fredda.


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