Sui figli del fiume giallo
Le trasformazioni della Cina attraverso una storia di amore e malavita, nel film di Jia Zhangke
La Cina, nonostante le notizie più o meno cicliche che ci giungono, è un paese ancora misterioso per gran parte della popolazione occidentale: per le distanze geografiche e culturali che ci separano, per la sua vastità, per le diversità insite nel suo stesso territorio o per la rapidità con la quale è mutata sotto i nostri occhi, fino a diventare la più grande potenza industriale del pianeta, con tutte le contraddizioni e le storture democratiche del caso. Ecco, se qualcuno volesse farsi una mezza idea sulla Cina, un buon inizio sarebbe buttare un occhio alla filmografia di Jia Zhangke, uno dei più acclamati registi cinesi (e non solo) contemporanei, il cui ultimo lavoro, I figli del fiume giallo (Jiānghú érnǚ), si inserisce in modo coerente in una poetica sempre più ricca e stimolante.
Il film racconta la storia di Qiao (Zhao Thao), legata sentimentalmente a Bin (Liao Fan), un piccolo boss di un paesino del Nord della Cina. Per salvare la vita all’uomo, caduto in una sorta di agguato, Qiao dovrà estrarre la pistola: un gesto che le costerà cinque anni di carcere. Scontata la detenzione, la donna torna alla ricerca di Bin, nel frattempo trasferitosi più a sud, con un’altra persona e un altro mestiere: le cose però non gli andranno bene, e le vite dei due, nel volgere degli anni, si ricongiungeranno, fino al ritorno nel paesino dove la storia era cominciata.
La vicenda copre un arco di tempo che va dal 2001 ai giorni nostri e, attraverso un racconto interamente incentrato sui due personaggi, ricostruisce gli sconvolgimenti e le mutazioni della Cina, un elemento sempre centrale nel cinema di Jia. Pure qui, come nel precedente Al di là delle montagne, la narrazione si può suddividere in tre grandi blocchi spazio-temporali, coincidenti con una efficace commistione di generi: se al principio siamo dinanzi a un gangster-movie dalle tinte noir, pian piano assistiamo ad un cambio di tono, giacché il film assumerà il volto di un melodramma nelle sue migliori declinazioni per poi virare, verso la conclusione, al dramma più classico e crudo.
Uno dei punti di forza di I figli del fiume giallo sta proprio nella perfetta convivenza di questi stili, data soprattutto dall’eclettismo della messa in scena. Jia alterna momenti di enorme pathos drammatico ad altri che sanno di commedia, sfruttando inoltre materiale di repertorio da lui stesso girato nel 2001 con una videocamera digitale; ricorre raramente a virtuosismi registici, come si evince ad esempio dalla sequenza d’azione (quella in cui Bin viene picchiato e Qiao si sente costretta a intervenire), dove le poche inquadrature e il montaggio scarno restituiscono tutta la violenza subita dal personaggio: una vera lezione di cinema per troppi registi americani che hanno perso la mano e si affidano a un decoupage spesso incomprensibilmente veloce e frammentato, poco appagante sia sotto il profilo estetico che narrativo.
Jia alterna momenti di enorme pathos drammatico ad altri di commedia, ricorrendo raramente a virtuosismi registici, come in una sequenze d’azione dove poche inquadrature e un montaggio scarno restituiscono tutta la violenza della scena
Al contrario, nei Figli del fiume giallo i tempi sono dilatati: lo spettatore ha modo di entrare nel vivo della vicenda, di soffermarsi sull’ambientazione, sul paesaggio naturale e urbano, imprescindibili nell’economia della pellicola. I campi lunghi si soffermano sulla metamorfosi del panorama cittadino e al tempo stesso sull’incolta vegetazione circostante. La scenografia e la fotografia lavorano a stretto contatto: la prima tramite la cura del dettaglio negli esterni e negli interni, la seconda dando da un lato risalto ai grigi e ai marroni degli angoli poveri del Paese, dall’altro a cromatismi più accesi per evidenziarne il repentino progresso industriale e commerciale.
Un altro piccolo miracolo fatto da Jia è infatti quello di mostrarci il cambiamento del suo paese passando da una storia d’amore, da situazioni perlopiù intime ma sempre inserite in un preciso contesto: quello di una Cina che, nel bene e nel male, si rinnova sotto gli occhi di Qiao e Bin, i quali assistono impotenti e alle volte inconsapevoli alla nuova rivoluzione capitalista – anche se Qiao si dimostra un personaggio dominante e più forte rispetto a Bin, partito da una posizione di comando e poi relegato ai margini. In una scena, preceduta da una veduta dall’alto della città completamente trasfigurata – la medesima inquadratura viene usata anche nell’incipit in chiave decadente –, vediamo Qiao alla guida che riporta Bin a casa. Emblematico è lo sguardo di lui: l’ex-boss osserva sconfitto il suo paese scorrergli davanti e sembra a stento riconoscerlo, mentre lei viaggia a testa alta, con determinazione, proiettata verso una condizione (almeno rispetto all’uomo amato anni addietro) vincente.
I silenzi dei protagonisti sono importanti al pari delle parole, e perciò i dialoghi sono dosati in modo essenziale e inseriti nell’azione al momento opportuno, in un’emotività fatta di cadute e risalite
Molte sequenze del film si concentrano sugli sguardi dei due protagonisti; i loro silenzi sono importanti al pari delle parole, e perciò i dialoghi sono dosati in modo essenziale all’interno della sceneggiatura, inseriti nell’azione al momento opportuno. L’emotività fatta di cadute e risalite e la profondità dei caratteri emergono per merito di una eccellente direzione degli attori e grazie alla bravura di Zhao Thao – moglie e musa del regista oltre che vincitrice del David di Donatello per Io sono Li (2011) di Andrea Segre – e Liao Fan, trai volti più celebri del cinema cinese, da ricordare quantomeno per lo splendido Fuochi d’artificio in pieno giorno (2014) di Diao Yinan, ruolo che gli è valso l’Orso d’Argento a Berlino.
Presentato a Cannes nel maggio 2018, poi in competizione per la Palma d’oro, I figli del fiume giallo, specie grazie al prestigio internazionale di Jia Zhangke, è arrivato anche in Italia: è un film che porta alta la bandiera del cinema cinese ma anche di quello orientale tout court, oggi ancora assai penalizzato dalla nostra distribuzione. Nonostante l’oriente cinematografico sia una delle realtà più vive della settima arte – pensiamo solo a Corea e Giappone, ma anche a Filippine, Taiwan, Hong Kong –, una fucina di autori che il cinefilo odierno, costretto a ricorrere all’home video o al download, dovrebbe assolutamente conoscere e amare nell’ambiente a loro più congeniale: la sala.
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