Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman
con Jesse Plemons, Jessie Buckley, Toni Collette, David Thewlis, Guy Boyd
Lucy (J. Buckley) e Jake (J. Plemons) attraversano in auto una tormenta di neve per andare a trovare i genitori di lui, due strambi personaggi che invecchiano e ringiovaniscono tra uno stacco di montaggio e l’altro, mentre la vita solitaria di un vecchio bidello senza nome (G. Boyd) scorre in parallelo tra la monotonia della sua routine quotidiana e le pulizie dell’istituto scolastico dove lavora.
Sto pensando di finirla qui, il terzo lungometraggio da regista dello sceneggiatore Charlie Kaufman, è un viaggio nell’intima percezione dell’esistenza lungo un’intera vita tra personaggi che si affastellano e si sovrappongono l’un l’altro, indagando l’insondabile mistero della mente umana. L’ultimo lavoro di Kaufman riprende il tema portante della sua cinematografia – tra cui figurano la sceneggiatura di Se mi lasci ti cancello (2004) e le regie di Synecdoche, New York (2008) e di Anomalisa (2015) – giocando tutto sul filo dell’ambiguità e della confusione mentale di Lucy, incatenata a un rapporto d’amore insofferente verso Jake e costretta come tutti noi a convivere e a sopportare se stessa.
Basandosi sull’omonimo romanzo I’m Thinking of Ending Things del canadese Ian Reid, Kaufman mette in scena una lunga riflessione sul senso della vita e della morte durante un tragitto in macchina nel pieno di una tormenta di neve, quando il turbinio dei fiocchi confonde il paesaggio e la foschia richiama la memoria confusa di un anziano protagonista costretto a rivivere il proprio passato, conscio del solitario e angosciante “orrore di esistere” di sartriana memoria. In una narrazione altrettanto confusa, serve una foto ricordo a casa dei genitori di Jake per diradare questa foschia dagli occhi dello spettatore, uno scatto in cui Jake da piccolo assomiglia incredibilmente a Lucy, con tanto di capelli ricci rossi come i suoi, che mette in dubbio i piani della realtà e ci fa capire il luogo reale della messa in scena.
Basandosi sull’omonimo romanzo I’m Thinking of Ending Things del canadese Ian Reid, Kaufman mette in scena una lunga riflessione sul senso della vita e della morte
Il fulcro del film è infatti il pensiero incessante dell’uomo, soggiogato per sua stessa natura a riflettere sulla propria, inevitabile, condizione esistenziale. Quello che c’è di nuovo, in questo film del celebre sceneggiatore di Essere John Malkovich e Il ladro di orchidee, è la totale assenza di struttura narrativa, abbandonata per concedersi a un flusso di coscienza corale tra vari personaggi che danno voce a quella che, per Kaufman, è l’unica grande attrice sul palcoscenico della vita: la mente dell’uomo e il suo pensiero ricorsivo.
Il problema del film è che all’avvitamento concettuale corrisponde un avvitamento stilistico futile e fine a se stesso che finisce per soffocarlo. Un avvitamento esemplificato dalla sequenza in cui il vecchio bidello è seduto ad un tavolo, in pausa, a guardare una banale romantic comedy su una televisione fissata al muro in alto nella stanza. Ad un certo punto le cornici cinematografiche si sovrappongo e il film in televisione diventa il film che noi stessi stiamo guardando, costringendoci così a seguire gli sviluppi di una storia d’amore che non conosciamo includendo persino degli spiazzanti titoli di coda a nero – con tanto di nomi degli interpreti e regia firmata da Robert Zemeckis, regista di Ritorno al futuro e Forrest Gump che peraltro non ha mai diretto commedie romantiche. Lo stesso bidello che a un certo punto, nudo in un corridoio della scuola, incontra un maiale che gli dice che anche lui è un maiale e lo accompagna nel suo pick-up, sul cui parabrezza sta venendo proiettato un cartone animato. Sto pensando di finirla qui mantiene questo approccio non soltanto nella sua componente visiva, ma anche nei dialoghi tra i personaggi che pur nella loro ricchezza di contenuti restano quasi sempre sterili e senza meta.
Per comunicare qualcosa a chi guarda, il cinema più di ogni altro medium ha bisogno di rappresentare un’esistenza
Non è l’estetica ad essere fuori luogo: il formato quadrato incastona i personaggi in una cornice che è metafora dell’impossibilità di sfuggire al proprio io e la messinscena – fotografia, trucco, costumi – restituisce il cupo e melanconico squallore di essere sempre presenti a se stessi. A deludere è piuttosto l’approccio all’argomento trattato: «quel simbolismo idiota ti fa venire voglia di urlare ma questo film di due ore e trentacinque minuti ti fa emettere solo un gemito», così Lucy parla di Una moglie di John Cassavetes e così pensa lo spettatore mentre assiste più a un saggio filmato che a un’opera d’arte cinematografica – fortuna che il film di Kaufman duri solo due ore e venticinque! A risultare davvero pesante, poi, è la ripetizione dello stesso, vago, concetto esistenzialista per tutta la durata del film – “Chi siamo?”, “Perché siamo?”, “Che senso ha la nostra esistenza?” – messo in scena con artifici retorici divenuti ormai dei cliché visivi: la coralità dei personaggi che mima la pluralità del sé, la bufera di neve come metafora della confusione mentale, il ballo finale che riflette il balletto della vita tra alti e bassi, fino alla morte.
Sto pensando di finirla qui è un film che ha la pretesa di parlare della vita essendone del tutto privo. Il faticoso tentativo di rappresentare una rappresentazione mentale si incaglia in un’idea superficiale che va poco oltre l’immaginario comune. Non è la logica intrinseca alla narrazione a essere assente ma una profonda caratterizzazione dei personaggi che avrebbe contribuito a intrecciare l’impianto teorico messo in piedi da Kaufman con la vita stessa. Il filosofo può scrivere “essere è angoscia dell’esistere”, ma l’autore cinematografico deve metterlo in immagini. Per comunicare qualcosa a chi guarda, il cinema più di ogni altro medium ha bisogno di rappresentare la particolare angoscia di quella esistenza: le scelte sbagliate, i difetti del carattere, le condizioni di partenza, l’educazione ricevuta, i successi e i fallimenti, tutto quello che rende unico ogni singolo essere umano.
«Niente di quello che fa è memorabile, perché fa troppo»
USA 2020 – Sperim. 134’ ★½
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