Star Trek - Into Darkness di J.J. Abrams
con Chris Pine, Benedict Cumberbatch, Zachary Quinto, Peter Weller
Capitolo Secondo del reboot della saga di Star Trek firmato J.J. Abrams, Star Trek – Into Darkness riconferma cast e troupe al completo, riportando all’opera la squadra che ha rivoluzionato l’universo visivo del mito trekkiano.
Dopo un attentato alle alte sfere della Flotta Stellare in cui perde la vita l’ammiraglio Pike (B. Greenwood), suo mentore e secondo padre, il Capitano Kirk (C. Pine) parte al fianco del poco fedele Spock (Z. Quinto) alla caccia del criminale John Harrison (B. Cumberbatch), ex-componente della flotta responsabile dell’attacco terroristico.
Rispolverando due dei nemici leggendari della Federazione, Abrams – su sceneggiatura di Roberto Orci e Alex Kurtzman, autori del precedente Star Trek – Il futuro ha inizio, con l’aggiunta del produttore Damon Lindelof – mette in scena un epico scontro su più fronti che, se si toglie l’apertura sul pianeta alieno, occupa ogni singolo minuto della pellicola. Girato in IMAX e riconvertito nell’inutile e disturbante 3D per la distribuzione, Into Darkness riporta in scena l’impero Klingon, probabile protagonista del terzo episodio, e il leggendario Khan. Il terrorista John Harrison si rivela infatti ben presto, con un sussulto per ogni trekkiano degno di questo nome, come Khan Noonien Singh, il più subdolo e pericoloso dei potenziati – umani geneticamente modificati con complessi di superiorità e smania di dominio – e acerrimo nemico del Capitano Kirk nell’episodio Spazio profondo (Space seed), dove compare per la prima volta, e nel film Star Trek II: L’ira di Kahn di cui è l’antagonista principale. Interpretato in entrambe le occasioni dal messicano Ricardo Montalbán, in Into Darkness trova il fisico e il volto di un potente Benedict Cumberbatch, forse non sfruttato a pieno, che ne dipinge un ritratto di inquietante grandezza.
Nonostante l’azione la faccia da padrone, è il sentimento il punto cardine del film: per Spock, la più grande paura è il dolore della perdita, del e nel distacco; per Kirk, in linea con l’intima battaglia che il capitano più volte è costretto ad affrontare nel corso della serie classica, il più grande rischio è la corruzione della rabbia nel desiderio di vendetta. Rabbia che, in un tema caro anche ad un'altra grande saga fantascientifica, lo attira verso il lato oscuro e ne acceca l’agire razionale. Rese inutili le braccia di Kirk, nel culmine del conflitto lo scontro si gioca tra cervelli, e la partita si eleva di grado passando tra Khan e Spock. Soltanto facendo spazio alla sua metà umana il vulcaniano potrà dare sfogo a quella rabbia controllata che il sentimento d’amicizia per il capitano è capace di scatenare in lui, e che lo renderà capace di prevalere.
La profonda amicizia che lega i due timonieri dell’Enterprise è uno dei motori principali degli avvenimenti – la punizione, l’aspirata vendetta, la purificazione, la redenzione – , con un cambio d’asse che porta Spock a compiere lo stesso gesto impulsivo e illogico per il compagno Kirk che gli aveva salvato la vita. L’orchestrato cameratismo della coppia coincide con quello del gruppo che, congiuntosi nell’avventura precedente, si consolida nella leggendaria squadra, rigenerata dalla lettura moderna e dalla realtà parallela con cui continua a dialogare, impressa nella mente di ogni appassionato. Il saldo trio Pine-Quinto-Saldaña, il vulnerabile Chekov del giovane Yelchin, il Sulu pieno di risorse di John Cho, conditi dalla demenziale comicità dello Scotty di Simon Pegg e dal nero sarcasmo del Bones di Karl Urban meritano un augurio all’insegna del live long and prosper.
A differenza del suo predecessore però, Into Darkness non riesce ad evitare la sensazione, che pervade quasi tutte le pellicole ambientate nell’universo trekkiano, che più che di un film si tratti di un episodio lungo della serie televisiva. Seppure la prima mezz'ora faccia ben sperare, la mancanza di reali tempi di riflessione e il ricorso continuo all’azione trascinano lo spettatore in un vortice avvincente ma al contempo precipitoso: Harrison, i Klingon, Khan, l’ammiraglio Marcus di un fosco Peter Weller sfilano uno dopo e contro l’altro a così alta velocità che non sempre si ha la possibilità di soffermarsi a scrutarli, capirne le ragioni, valutarne le ambizioni, le prospettive; non sempre si ha la possibilità di dargli il peso di cui avrebbero bisogno. Rammarica la scelta di mettere così tante carte in tavola da non riuscire a combinarle, mentre il solo Khan di Cumberbatch sarebbe potuto essere l’asso nella manica.
Eppure, nella grazia visiva della scenografia di Scott Chambliss e della fotografia di Daniel Mindel, in quella sonora delle musiche di Michael Giacchino, nella regia inventiva e mai ovvia, muscolare e dinamica di Abrams, rimane il gusto per l’ironia e per il sentimento, l’affetto per un universo rimodellato e per la sorte di personaggi profondamente umani del cui sentire da tempo immemore nessuno si prendeva cura, nascosti com’erano dietro le loro maschere di idoli. E nell’Enterprise che scompare e riemerge dalle nuvole, nell’entrata in curvatura, nello sguardo di Kirk e nelle lacrime di Spock, nei fiati e nelle prime note della colonna sonora c’è il respiro di un grande cinema d’emozione che porta là, dove nessuno è mai giunto prima.
«I nemici dei miei nemici sono miei amici»
«Un proverbio arabo attribuito ad un principe tradito e decapitato dai suoi stessi sudditi»
USA 2013 – Fantasc. 132’ **½
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