Sperimentare con le inquadrature
Come giocare con lo split-screen e i formati ha influenzato il cinema mainstream
Michael Bay una volta ha paragonato il suo roboante stile cinematografico all’atto di «fottere l’inquadratura», ma se c’è un regista che ama fornicare con le inquadrature, quello è sicuramente Gaspar Noé, che ci bombarda con neon lampeggianti, movimenti di macchina a 360 gradi e primi piani di rapporti sessuali. Lascia quindi di stucco l’inizio del suo ultimo film, Vortex, che si apre con una coppia di anziani coniugi (interpretati da Françoise Lebrun e dal maestro dell’horror italiano Dario Argento) serenamente seduti sul loro balcone parigino. Quando poi parte una mielosa canzone di Françoise Hardy, viene da chiedersi se Noé non si sia davvero addolcito. Ma aspettate! Se in questa scena il regista non fotte del tutto l’inquadratura, ci si trastulla in due modi. Innanzitutto, il formato quadrato (1.37:1) con cui si apre il pacato prologo si espande in un formato orizzontale. In un secondo momento, il widescreen si divide in due immagini, girate simultaneamente con due macchine da presa, permettendoci di osservare il personaggio di Lebrun, colpito da demenza, che si aggira nel loro appartamento disordinato; mentre quello di Argento, alle prese con i suoi problemi di salute, rifiuta la proposta del figlio di trasferirsi in una casa di cura. Ma se Vortex è forse il film più duro di Noé lo dobbiamo alla sua brutale onestà e non allo split-screen, che ha un fortissimo impatto emotivo.
La maggior parte dei registi d’avanguardia contemporanei ha usato, almeno una volta, sequenze in split-screen nei propri film. L’effetto sembra ancora abbastanza audace, anche se questa tecnica esiste fin dalla nascita del cinema. Suspense (1913) di Lois Weber utilizza un’innovativa suddivisione triangolare dell’inquadratura che stupisce ancora oggi. Nell’ultima bobina dell’epico Napoléon (1927) di Abel Gance, l’1.37 lascia spazio a un formato panoramico composto dalla proiezione contemporanea di tre schermi uno accanto all’altro, in modo da formare una sorta di trittico. Lo split-screen veniva spesso utilizzato, mascherando la divisione tra le due immagini, per mostrare un attore che interpretava due gemelli identici nella stessa inquadratura, o come un arguto stratagemma per eludere la censura, facendo sembrare che coppie non sposate, come Ingrid Bergman e Cary Grant in Indiscreto, o Doris Day e Rock Hudson in Il letto racconta, stiano condividendo il letto invece di parlarsi al telefono.
Suspense di Lois Weber utilizza un’innovativa suddivisione triangolare dell’inquadratura che stupisce ancora oggi
Lo split-screen è perfetto per rappresentare le telefonate, come in Mean Girls. Ma, come ci ha ricordato il film retrò Operazione U.N.C.L.E. di Guy Ritchie, è un’estetica che associamo agli anni ‘60. Il geniale designer di titoli di testa Saul Bass utilizzò il montaggio in split-screen per l’apertura di Grand Prix (1966); qualche anno dopo, quando Film Dope gli chiese di parlare di questa tecnica, rispose: «Penso che sia formidabile per esprimere l’eccesso, ma credo che non sia in grado di veicolare sentimenti profondi». Lo split-screen di Bass si basa sulla moltiplicazione di una singola immagine, ma un anno dopo Grand Prix Christopher Chapman dimostrò la sua innovativa «tecnica dell’immagine multidinamica» in A Place to Stand, storico cortometraggio realizzato per il padiglione dell’Ontario all’Expo 67 di Montreal (allarme tormentone: Ho visto questo film cinquanta anni fa e da allora la sua irritante colonna sonora mi è rimasta in testa). Chapman presenta riquadri multipli di varie dimensioni e forme su un unico schermo; a volte le immagini nei riquadri sono indipendenti l’una dall’altra, a volte sono parte di un’immagine più grande.
Steve McQueen vide A Place to Stand in un’anteprima a Hollywood e ne rimase colpito. Un anno dopo, Norman Jewison inserì delle sequenze in split-screen in Il caso Thomas Crown, tra cui i titoli di testa e McQueen che giocava a polo. Nello stesso anno, in Lo strangolatore di Boston, Richard Fleischer utilizzò lo split-screen per mostrare contemporaneamente un personaggio inquietante che effettua una chiamata, la destinataria che la riceve e la chiamata che viene rintracciata. Lo spilt-screen permise a Michael Wadleigh, regista e direttore della fotografia di Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica, di mostrare nella stessa inquadratura le reazioni della folla e i vari artisti che si esibivano, mentre nel suo film del 1973 2022: i sopravvissuti lo utilizzò nei titoli di testa per incapsulare l’“eccesso” dell’industrializzazione e dell’inquinamento imperanti.
Molti spettatori hanno visto lo split-screen per la prima volta in Carrie, quando la protagonista sconvolta e traumatizzata compie una carneficina
Il regista più associato allo split-screen è Brian De Palma, che lo ha trasformato in una forma d’arte. In Le due sorelle ci mostra un omicidio attraverso lo sguardo della vittima in punto di morte affiancato a quello di un testimone che la guarda di spalle, e in Il fantasma del palcoscenico fa crescere la tensione accostando l’innesco di una bomba e la sua esplosione. Molti spettatori hanno visto lo split-screen per la prima volta in Carrie, quando la protagonista sconvolta e traumatizzata compie una carneficina telecinetica durante il ballo di fine anno. De Palma ha dichiarato alla rivista Cinefantastique: «Sentivo che la strage doveva essere mostrata in split-screen, perché quante volte avrei potuto spostare l’inquadratura da Carrie alle cose che accadevano intorno? C’era il rischio di esagerare».
Ma uno split-screen che dura per tutto il film? Nel 1966, Andy Warhol e Paul Morrissey concepirono Chelsea Girls come un film sperimentale di sei ore e mezza, prima di dividere il girato e proiettare due immagini affiancate in un film di tre ore e un quarto. Il thriller psicologico Wicked, Wicked del 1973, diretto da Richard L. Bare, è stato girato quasi interamente in “Duo-vision”: lo schermo panoramico diviso in due che mostra non solo gli omicidi dal punto di vista dell’assassino e della vittima, ma anche flashback dell’infanzia del killer psicopatico, inquietanti cadaveri alla Mario Bava e un organista a caso che suona la musica de Il fantasma dell’opera. I risultati vanno dal debole all’assurdo, quindi è ovvio che si tratta di un film di culto che aspetta solo di essere rivalutato. Il progetto più ambizioso di split-screen che abbia avuto una distribuzione più o meno mainstream, e certamente uno degli esperimenti d’avanguardia più godibili della storia del cinema, è Timecode (2000). Lo sceneggiatore, regista e montatore Mike Figgis ironizza sulle proprie esperienze a Hollywood con quattro serie di filmati, girati simultaneamente da quattro macchine da presa e mostrati su uno schermo diviso in quadranti che mostrano una ventina di attori che improvvisano, la cornice narrativa su cui si basano sono i casting per un nuovo film, The Bitch from Louisiana.
Nel 1966, Andy Warhol e Paul Morrissey concepirono Chelsea Girls come un film sperimentale di sei ore e mezza, prima di dividere il girato e proiettare due immagini affiancate in un film di tre ore e un quarto
L’altro espediente legato al formato che Noé utilizza in Vortex, ovvero il passaggio da un formato quadrato a uno orizzontale, è già una sorta di cliché. La maggior parte dei cinefili della mia generazione ha imparato a conoscere i formati grazie all’abominio del pan-and-scan, con il quale le emittenti televisive degli anni ‘70 e ‘80 ritagliavano abitualmente i film per adattarli al formato 4:3 dei televisori, riducendo in questo modo la cruciale sparatoria finale in formato panoramico di C’era una volta il West a una distesa di cielo blu e all’orlo di un cappello. Questo accadeva prima dell’avvento dei DVD e dei televisori widescreen. Oggi le reti televisive tendono ad andare nella direzione opposta, riformattando programmi in 4:3 come Friends o The Wire per adattarli ai televisori widescreen. Ma i vari formati possono coesistere in armonia. Nel 1956, Tom Ewell dilatò i bordi dell’inquadratura nella scena iniziale di Gangster cerca moglie, aiutando il pubblico degli anni ‘50 a familiarizzare con quello che allora era un formato panoramico relativamente sconosciuto. Da allora, l’espansione dell’inquadratura è stata usata molte volte per indicare il passare del tempo o un cambiamento di luogo, da Mad Max 2 e Galaxy Quest a Il grande e potente Oz e Valerian e la città dei mille pianeti. La tecnologia digitale ha reso il cambio di formato più facile che mai. Wes Anderson utilizza diversi formati per segnalare tre epoche diverse in Grand Budapest Hotel. Nell’intimo dramma fantascientifico After Yang, lo sceneggiatore e regista Kogonada passa da un formato all’altro (due di questi sono visibili nel trailer) in modo più subliminale per differenziare la vita quotidiana, le videochiamate e i ricordi di una famiglia alle prese con il lutto dopo la morte del loro “tecnosapiens” (androide).
I tentativi di riportare il pubblico in sala con il 3D o l’Imax (anche questo un formato quadrato, seppur gigantesco) hanno fatto passare in secondo piano il fatto che i budget si siano gradualmente ridotti. Dopo decenni in cui il widescreen (1.85:1 o 2.35:1, per esempio) era la norma, il formato quadrato è tornato in auge, con registi come Kelly Reichardt (First Cow), Paul Schrader (First Reformed – La creazione a rischio), Joel Coen (Macbeth) e Paweł Pawlikowski (Cold War) che lo hanno reso il formato preferito dai registi d’essai. Alcuni si sono spinti oltre: The Lighthouse di Robert Eggers è in 1.19:1, mentre Mommy di Xavier Dolan (2014) è stato girato in un quadrato perfetto. «Il personaggio è il nostro soggetto principale, ineluttabilmente al centro della nostra attenzione» ha dichiarato Dolan, e sembra effettivamente che l’intento dei cineasti sia di allontanare la propria opera da un tipo di cinema omologato e sempre più caratterizzato dalla spettacolarità del formato panoramico.
Il desiderio dei cineasti di fottere l’inquadratura sembra impossibile da placare
È possibile comprimere ulteriormente l’inquadratura, magari mimando il modo in cui la maggior parte delle persone gira video con lo smartphone? Non ho ancora sentito parlare di un intero lungometraggio non sperimentale in formato verticale, ma nel suo cortometraggio The Stunt Double, realizzato per iPhone, Damien Chazelle propone una divertente storia alternativa dei diversi generi cinematografici girata in formato verticale. Così come il sesso non passa mai di moda, anche il desiderio dei cineasti di fottere l’inquadratura sembra impossibile da placare.
Anne Billson è una scrittrice e critica cinematografica inglese. Ha scritto su varie riviste, tra cui The Sunday Telegraph, Today, Time Out e New Statesman. Questo articolo è stato pubblicato il 29/04/2022 sul Guardian ► You’ve been reframed: how playing with split-screen and aspect ratio went mainstream | Traduzione di Serena Mannucci
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