Sguardo d'altri
Interpretazione matematica del concetto di alterità in Jean-Paul Sartre
La domanda da porsi è la seguente: cosa intendo dire quando affermo di quell’oggetto che è un uomo?
Un oggetto-fantoccio mi appare dinnanzi. Tale apparizione non comporta - per causa sua - una relazione nuova tra gli elementi del mio universo, poiché il rapporto tra un fantoccio e le cose che gli stanno attorno è di tipo puramente addizionale. Ciò significa che una sua eventuale eliminazione dal contesto degli oggetti circostanti non cambierebbe le relazioni di tali oggetti fra loro.
Percepire quell’oggetto come uomo significa, invece, escludere qualsivoglia tipo di additività della relazione tra lui e un oggetto-panchina posto al suo fianco o chissà dove. Tale relazione mi si presenta in blocco, senza distanza, senza parti e, all’interno di essa, si estende una spazialità che non è più la mia, poiché essa mi fugge verso questo ‘oggetto privilegiato’ che io chiamo uomo. Questi è l’elemento di disintegrazione del mio universo: ne è il punto di fuga, è l’oggetto che deturpa il mondo, sradicandomelo nei limiti di quello stesso mondo, come ivi si trovasse un foro di scarico, un canale di scolo; posto così di fronte a una momentanea parzialità della sua struttura, mi trovo alle prese con quella che Sartre chiama emorragia interna.
Qui non si tratta di considerare la relazione tra me e altri come fondamentale e originaria, sia perché essa è ancora oggetto di conoscenza, sia perché, rimanendo entro i limiti dell’oggettità della percezione, conserva un puro carattere di probabilità. È vero: io vedo quello che vede altri, ma non posso cogliere come ciò appare a lui. Vedo gli stessi prati, gli stessi alberi, le colline, le onde, ma essi volgono ad altri un viso che a me sfugge. E se da un lato, allora, risulta che altri-oggetto si definisce in rapporto al mondo come colui che vede ciò che vedo io, dall’altro, il mio legame con la sua soggettività si espliciterà inevitabilmente nella possibilità di essere-visto-da-lui, cioè nella possibilità permanente per un soggetto che mi vede di sostituirsi all’oggetto visto da me. L’essere-visto- da-altri è dunque la verità del vedere-altri.
Ho coscienza del me come fondamento fuori da me, punto di fuga verso altri, ma questo me - che sono - non lo conosco: lo scopro senza poterlo rifiutare, per mezzo di altri, nella vergogna, sentimento nel quale riconosco di essere quell’oggetto che lui guarda e giudica. La vergogna ha una struttura intenzionale poiché si riferisce a qualcosa, e questo qualcosa è ciò che sono: sono io quel me quale appare ad altri. Essa si manifesta sempre come ‘vergogna di fronte a qualcuno’, vergogna di sé di fronte ad altri. Queste due strutture risultano essere inseparabili, poiché il per-sé rimanda costitutivamente al per-altri.
La fuga del mondo verso altri-oggetto, suddetta, era trattenuta, localizzata nell’oggettità; adesso, però, essa si manifesta senza termini, perdendosi nell’esteriorità, cosicché il mondo fluisce fuori dal mondo, simultaneamente al mio fluire fuori da me. Lo sguardo altrui mi fa essere al di là del mio essere in questo mondo, in un mondo che è contemporaneamente questo qui e al di là di sé. La relazione che intercorre tra me e questo ‘essere’ che altri fa comparire - nell’esplicarsi della vergogna - è nello specifico una relazione d’essere: io lo sono, senza che mi sia possibile negarlo; o comunque, i miei tentativi di malafede per nascondermelo saranno una confessione che metterà in luce lo sforzo per fuggire l’essere che sono. Quest’essere, in-sé, conserva un qualcosa d’imprevedibile e indeterminato, poiché gli altri sono liberi e tale libertà è il nulla radicale che mi separa da quello stesso essere che sono.
Io colgo lo sguardo altrui come alienazione delle mie possibilità e, essendo quest’ultime la condizione della mia trascendenza, la loro alienazione in altri fa di me una trascendenza trascesa, una trascendenza superata, appunto, dalle possibilità altrui. Prima che lo sguardo si posasse su di me, un angolo buio nel corridoio mi poteva offrire la possibilità del rifugio della sua penombra e questa possibilità poteva concedersi come rimbalzo della mia possibilità di nascondermi proprio lì. Questa rimane e l’angolo buio continua a segnalarmela, ma diventa ora ciò che può essere superato verso la possibilità che altri ha di smascherarmi, d’identificarmi, di circoscrivermi, disarmandomi con una semplice lampadina. Io non percepisco questo superamento, ma la morte sottile delle mie possibilità.
Altri a chi rinvia se non a ciò per cui è ‘altri’? Se altri è alterità, io devo necessariamente essere ciò che non è altro da me: in quanto ipseità come la sono io, deve negare me di sé. Allora, in questa reciproca negazione - utilizzando la terminologia sartriana - determinarmi come me-stesso, per mezzo del rifiuto del me-rifiutato, significa negare me come altro (a me). In tale processo il filosofo parigino individua non solo il riconoscimento dell’Altro, ma anche l’esistenza del proprio sé-per-altri: un sé che sfugge perché è ciò che l’altro si fa non essere.
Mi trovo così prigioniero del suo sguardo oggettivante, nella condizione del ‘guardato’, senza ancora essere ‘colui che guarda’. Ciononostante reagisco.
Con l’orgoglio, cerco di avere la meglio sull’altro, di renderlo oggetto e, perciò, di trattenerlo nell’oggettità; ma questo mio tentativo, pur nell’affermazione della mia libertà di fronte all’Altro-oggetto, risulta essere frutto di un sentimento senza equilibrio e di malafede, il cui sviluppo interno lo condurrà alla disgregazione. Ciò che cerco in altri è il segreto del mio essere, poiché egli mi ha confinato in un’oggettità fuori di me, creata da lui e di cui io non so: egli la possiede e la voglio anch’io, per riconquistarla e fonderla col mio essere. Ma ciò che ora trovo è un’immagine nella quale non mi riconosco più.
Persisto. L’origine dei miei rapporti concreti con altri fa in modo che i miei atti siano comandati da ‘atteggiamenti’ di fronte all’oggetto che io sono per lui. Il per-sé - in quanto cercante cercato - tenta così di sfuggire alla sua fattità, al suo ‘essere-là’, come in-sé di cui non è il fondamento; ma la sua fuga è allo stesso tempo fuga verso un impossibile inseguito, vana coincidenza di in-sé e per-sé.
L’impossibilità di concepire e impadronirmi dell’essere che io sono dà origine a due atteggiamenti fondamentali. Posso tentare - fuggendo e negando al tempo stesso l’in-sé che io sono senza esserne il fondamento - di relegare altri nella sua oggettità (per-me), distruttrice della mia per-lui: trascendere la trascendenza d’altri. D’altro canto, posso, al contrario, assorbire in me questa trascendenza, senza togliere il suo carattere di trascendenza. Il secondo atteggiamento in particolare risulta quindi essere un tentativo d’assimilazione d’altri.
Il mio progetto, in merito, è quello di acquistare su di me il punto di vista dell’altro; voglio assorbire in me non altri-oggetto, bensì l’alterità dell’altro in quanto tale, come mia possibilità. Voglio altri come essere-che-guarda, cosicché io possa riconoscermi come essere-guardato e, quindi, identificandomi con la libertà dell’altro, fondare il mio in-sé: questo è l’ideale dell’amore, il suo fine e motivo, il suo valore. L’amante vuole possedere l’amata, pretendendo un tipo d’appropriazione speciale, e ciò è quanto dire che egli vuole possedere non una cosa, bensì una libertà come libertà. In ogni caso, i due atteggiamenti, ciascuno per volta, sono la morte dell’altro. La sconfitta dell’uno originerà l’adozione dell’opposto, destinati così a rimanere entrambi ingabbiati in un circolo senza fine.
«Eccomi curvo sul buco della serratura; improvvisamente sento dei passi. Sono preso da un brivido di vergogna: qualcuno mi ha visto. Mi raddrizzo, e scorro con gli occhi il corridoio deserto: era un falso allarme. Respiro».
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