Senza colpo ferire
L'Egitto e il colpo di stato “democratico”
Nel giorno del primo anniversario del suo insediamento il leader del partito Libertà e Giustizia, il presidente egiziano Mohamed Morsi, affiliato ai Fratelli Musulmani, ha assistito a milioni di protestanti che a gran voce hanno chiesto le sue dimissioni dopo settimane di veementi proteste per l'operato del governo. Il 3 luglio scorso, quando il presidente non è stato in grado di risolvere la crisi, i militari lo hanno destituito, e poi arrestato, insieme ad altri leader anziani della Fratellanza, tra cui la guida Suprema Mohamed Badie e il suo predecessore Mahdi Akef. L'ormai ex-presidente Morsi è detenuto in una località segreta «per la sua incolumità», nelle parole dei portavoce dei militari; il figlio, e rappresentante legale, Osama Morsi ha dichiarato che la famiglia non ne ha notizia dal giorno della deposizione e minaccia azione legale contro quello che giudica un vero e proprio sequestro. Attualmente infatti non ci sono basi legali per la sua detenzione, il procuratore generale del Cairo Hisham Barakat ha però avviato delle indagini in seguito ad accuse di spionaggio e incitamento alla violenza a carico di Morsi e dei vertici della Fratellanza.
Il Gen. Abdul-Fattah el-Sisi, Capo delle forze armate e Ministro della Difesa è il de facto leader del paese ma non sembra intenzionato a riprendere l'eredità di Nasser, Sadat e Mubarak esercitando il potere in prima persona. I militari hanno scelto Adli Mansour, già presidente della Corte Costituzionale, come nuovo presidente traghettatore verso la dibattuta riforma della Costituzione (approvata lo scorso dicembre), le nuove elezioni parlamentari e la stabilizzazione dello stato egiziano. Nel suo primo discorso ufficiale Mansour ha ribadito la necessità di ristabilire l'ordine e la sicurezza: “Stiamo attraversando una fase critica ed alcuni vogliono portare il paese verso il caos, mentre noi vogliamo portarlo verso la stabilità. Alcuni vogliono una transizione sanguinosa”.
Dopo l'arresto dell'ex-presidente, le forze armate e la polizia hanno cominciato una serrata persecuzione verso i Fratelli Musulmani con oltre 300 mandati di cattura e la chiusura di alcuni uffici e della loro emittente televisiva. Ma il pugno di ferro è stato rivolto ai dimostranti e ai sostenitori di Mohamed Morsi che hanno a più riprese marciato a migliaia per il Cairo sotto l'immagine dell'ex-presidente, ormai un simbolo della protesta. Gli scontri si sono rivelati particolarmente violenti e si stima che almeno un centinaio di persone abbiano perso la vita in tutto il paese. La polizia ha utilizzato oltre ai lacrimogeni e all'equipaggiamento anti-sommossa, anche pallini da caccia e cartucce regolari. L'8 luglio scorso, nello scontro più sanguinoso, 51 persone sono state uccise davanti alla sede della Guardia Repubblicana, la divisione dell'esercito incaricata della difesa della capitale, delle istituzioni e del palazzo presidenziale. Oltre alla repressione dell'esercito, crudi scontri sono avvenuti tra le fazioni di manifestanti pro e contro Morsi, episodi di guerriglia come nella notte del 6 luglio lungo il ponte 6 Ottobre, un'importante arteria stradale della città. Ad oggi si stimano quasi 300 feriti in tutto il paese. Il generale senso di impunità e la mancanza dello stato durante gli assembramenti hanno inoltre fortemente incrementato gravi episodi di violenza sessuale; Human Rights Watch ha raccolto molte testimonianze, tra cui una donna che è stata stuprata da una folla dopo che i suoi capelli erano rimasti bloccati sotto la ruota di un'automobile. Altre vittime si sono dovute sottoporre ad interventi chirurgici dopo essere state violentate con oggetti affilati.
Il primo presidente egiziano liberamente eletto tramite regolari elezioni è stato quindi rovesciato dall'esercito. Il governo Morsi dopo un anno di esecutivo non era affatto riuscito a risollevare la catastrofica situazione economica né tantomeno a ristabilire quella sicurezza che manca dal gennaio 2011. Al contrario il partito dei Fratelli Musulmani, Libertà e Giustizia, si era subito mosso per sostituire la rete clientelare dell'era Mubarak, tradendo allo stesso tempo le promesse di condurre una politica inclusiva di tutte le altre forze islamiste e di confronto con l'opposizione laica e liberale. Invece l'obiettivo principale è stata la sedimentazione del potere a tutti i livelli, l'esempio più eclatante il decreto con cui Morsi si era unilateralmente attribuito maggiori poteri impedendo alle corti la possibilità di interferire con il processo di redazione della costituzione di stampo islamista, che ha visto poi la luce lo scorso dicembre. La costituzione è attualmente al centro di un aspro dibattito perché rappresenta la direzione verso il quale il paese si dirigerà nel futuro, i nodi principali riguardano: il rispetto dei diritti umani, la condizione delle donne, il ruolo dell'esercito, la Shari'a e soprattutto se proibire o meno i partiti confessionali. Il nuovo presidente Mansour (che ha mantenuto i larghi poteri del predecessore accusato di autoritarismo) ha avviato con un decreto il processo di revisione costituzionale il 20 luglio, mentre il 22 sono iniziate le riunioni di un panel di esperti che dovrebbe proporre gli emendamenti al testo. Il tutto però con una scadenza troppo stretta, circa 6 mesi, insufficienti ad avviare un dibattito di riconciliazione con tutte le forze del paese, come garantirebbe la stesura di un testo fondamentale. Tra l'altro mentre continua la repressione verso i Fratelli Musulmani frattanto esclusi dal nuovo governo nominato dal presidente Mansour (nonostante 13 milioni di voti per Morsi alle presidenziali 2012), un governo che ha concluso la parentesi di potere islamista in Egitto.
L'Egitto in questa acuta fase di transizione si trova a fronteggiare gravi problemi economici. La situazione di instabilità e le numerose manifestazioni in tutto il paese hanno danneggiato molte attività economiche e diminuito considerevolmente il flusso di turisti e le scorte di valuta straniera. Gli investimenti diretti esteri sono crollati così come il gettito fiscale, costringendo il tesoro a finanziarsi principalmente tramite titoli di stato – il debito pubblico egiziano è aumentato del 27% dal giugno al settembre 2012. Altre difficoltà per il nuovo governo arrivano dall'esaurimento delle scorte di grano (di cui l'Egitto è il primo importatore mondiale) e l'approvvigionamento energetico. Fortunatamente però una prima importante boccata d'ossigeno per il bilancio è in arrivo tramite cospicui aiuti economici dagli altri paesi arabi, in particolare Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait, che hanno promesso, e già iniziato ad erogare, 12 miliardi di dollari.
Gli stati arabi conservatori hanno un forte interesse nell'aiutare l'Egitto a soffocare le forze islamiste, hanno infatti avversato tutti i fenomeni legati alla “primavera araba” temendo dei riflessi nelle loro rigide strutture sociali. Il rovesciamento di Morsi rappresenta un'occasione imperdibile per instaurare un forte governo moderato, sotto l'egida dei militari, che riporti l'Egitto in una situazione di stabilità, fondamentale per la sicurezza della regione e per la sicurezza dei traffici commerciali che transitano attraverso il canale di Suez, in particolare i carichi di greggio. Senza contare il triangolo Israele-Usa-stati arabi, dove un Egitto islamista è un'opzione sgradita a tutti (Hamas dopotutto è il “braccio armato” dei Fratelli Musulmani). Il ritorno di forze laiche al governo significa rassicurare tutti: lo zio Sam perché non vedrà fiorire un nuovo Iran in una posizione incredibilmente strategica per 3 teatri regionali; Israele perché allontana lo spauracchio della denuncia egiziana del trattato di pace del 1979; gli stati arabi perché spegne le rivolte “primaverili” e allontana la prospettiva di una politica estera egiziana indipendente. In realtà gli affari esteri egiziani sono sempre stati saldamente nelle mani delle forze armate, anche sotto Morsi gli orientamenti strategici non sono affatto cambiati, nonostante qualche proclama.
In quest'ottica, non è un dettaglio trascurabile che dal 1979, proprio per cementare la volontà di pace con Israele, gli Stati Uniti abbiano iniziato a fornire annualmente ingenti aiuti economici direttamente alle forze armate egiziane. Per il 2014 l'esercito dovrebbe incassare 1,55 miliardi di dollari, cifra che copre secondo alcune stime circa un terzo del suo bilancio complessivo. Da qui la cautela degli Stati Uniti nel commentare gli avvenimenti legati agli sviluppi post-Mubarak: davanti all'opinione pubblica mondiale ed interna, anche se islamista, l'elezione di Morsi è stata la prima vera espressione democratica del paese. E il colpo di stato militare del 3 luglio, sebbene abbia fatto tirare un sospiro di sollievo, ha portato un profondo imbarazzo nell'amministrazione che non può ammettere di essere a favore di un colpo di stato, specialmente poi se fornisce aiuti finanziari alla fazione che ha perpetrato il golpe. Un'apposita disposizione legislativa proibisce infatti al governo federale di fornire aiuti di qualsiasi tipo (tranne umanitari) a “qualsiasi paese il cui capo di stato legittimamente eletto sia deposto da un colpo di stato militare o da un colpo dove l'esercito giochi un ruolo decisivo”. Ipotesi che calza alla perfezione con gli avvenimenti del 3 luglio. Il segretario di Stato americano John Kerry ha timidamente risposto alla domanda se gli Usa considerino o meno la deposizione di Morsi come un colpo di stato militare, dichiarando durante una recente conferenza stampa in Giordania: “Il fatto è che abbiamo bisogno di prendere il tempo necessario a causa della complessità della situazione per valutare cosa in effetti abbia avuto luogo”. Con una piccola giravolta retorica, appetibile per il grande pubblico, il Vicesegretario di Stato William Burns aggiunge: “Nonostante le nostre preoccupazioni riguardo gli sviluppi delle ultime due settimane, crediamo che la transizione in corso sia un'altra opportunità... per creare uno stato democratico che protegga i diritti umani e lo stato di diritto”.
Certo, si può sottolineare come il saldo controllo del paese da parte dei militari stia evitando al momento lo scoppiare di una guerra civile in piena regola. L'Egitto per adesso non rischia di diventare un'altra Siria, ma non ci si può che rammaricare del fatto che la democrazia non sia affatto (come da copione) l'obiettivo principale per attori interni ed esterni. La distorsione della realtà è invece molto più preoccupante, per chi osserva dall'esterno ma soprattutto per il popolo egiziano che in questo momento sta vedendo censurate o chiuse molte televisioni e giornali indipendenti (tra i mandati d'arresto anche uno indirizzato al direttore del canale news di Al Jazeera Abdel Fattah Fayed). La politica (quella della politics) è fatta essenzialmente di comunicazione e va controllata dai media, altrimenti gli assurdi vengono dati in pasto al grande pubblico che assorbe e digerisce senza fare una piega. Quanti giornalisti hanno notato quanto suonavano grottesche le parole del neo presidente scelto dai militari Mansour quando nel già citato discorso si impegnava davanti al popolo scandendo “preserveremo la rivoluzione”? Mansour si impegna a preservare la rivoluzione democratica il cui vero presidente eletto è stato deposto e sequestrato, e i cui elettori, non soltanto fanatici islamisti, sono uccisi per le strade ogni giorno. Per quanto possa sembrare scomodo i Fratelli Musulmani hanno vinte delle elezioni regolari e, nonostante le derive bollate come autoritarie, Morsi non aveva dato alcun segno che avrebbe resistito con la forza a una sconfitta alle urne o che avrebbe ripetuto i brogli di Mubakar per restare al potere.
Non esiste qualcosa come un “colpo democratico”, sebbene si possa discutere su precedenti simili (Turchia 1960; Portogallo 1964). Esiste una fazione politica, l'unica espressione di una maggioranza democratica che ci sia mai stata nel paese, che oggi in Egitto è stata nuovamente esclusa con violenza dalla vita politica. È legittimo chiedersi oggi quanto dureranno le violenze se verrà intrapreso un percorso di costruzione nazionale senza di loro, ma i Fratelli Musulmani hanno resistito per decenni nella clandestinità, subendo torture, carcere e morte per la loro causa. L'Egitto ad oggi non può avere davanti a sé un percorso di riconciliazione nazionale se una sua fazione è votata al martirio e se la polizia non disdegna di assecondarla. Se è vero che quando i Fratelli sentono il suono degli spari “non scappano via, ma gli corrono incontro”.
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