Searching: scomparire nell'abisso digitale
Il cinema degli schermi di Aneesh Chaganty e i pericoli della genitorialità digitale
Searching, opera prima del regista Aneesh Chaganty, presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2018 nella sezione NEXT, racconta la storia di David (John Cho), un padre che vive a San José in California. La moglie Pam è morta da due anni per un linfoma e David sta crescendo la figlia sedicenne Margot, una ragazza studiosa e responsabile. Un venerdì l’apparente equilibrio familiare va in frantumi: David scopre infatti che la figlia è misteriosamente scomparsa e nessuno sa dove si trovi. Il padre comincia allora la sua frenetica ricerca affiancato dalla detective Wick (Debra Messing), donna competente ed empatica, che tenta di frenare gli eccessi ed i rischi a cui l’uomo si espone; contemporaneamente David esplora la vita online e l’intimità della figlia scoprendone lati a lui completamente ignoti.
Il film non colpisce certo per l’aspetto narrativo, la vicenda gialla non spicca infatti né per originalità né tantomeno per brillantezza: chi sia il colpevole è facilmente intuibile, così come quelle che possono sembrare illuminazioni di David sono facilmente rilevate, con molto anticipo, dallo spettatore accorto. L’aspetto meritevole e più interessante del lungometraggio è però sul piano formale; nonostante sia stato preceduto dai casi di Unfriended (2014) e Profile (2018), Searching si avvale della tecnica dello screencast, ovvero quello che vediamo è sempre e solo ciò che avviene sugli schermi dei vari device appartenenti al protagonista; dispositivi di cui anche noi, ogni giorno, facciamo uso siano essi pc, smartphone o tablet. Visualizziamo pertanto la ricerca che il protagonista effettua a partire dai social network, foto online, chat, messaggi o telefonate. Internet, nel film, non è un semplice gioco di ruolo o un’espansione delle frontiere psicologiche dei suoi utenti, ma diviene il luogo dove rintracciare quelle verità che non si trovano nel mondo reale. Nel film di Chaganty le immagini sono al servizio della trama poliziesca ed è proprio questo elemento che fa sembrare il film un gioco interattivo in cui anche lo spettatore, assieme al padre, compie le indagini per la ricerca di Margot. Utilizzando una narrativa forte, come quella del giallo che costringe alla riflessione, il regista ci consegna un trompe-l’oeil digitale. Per quanto coerente, il giallo diventa in un certo senso un elemento penalizzante che banalizza il tutto: Chaganty sceglie di azzardare solo sul piano formale, e di non rischiare premendo sul tasto della sperimentazione allo stato puro: un’occasione persa.
In Searching l'iperconnessione diventa il motore non solo della narrazione, ma dello stesso montaggio che procede per link
Searching ci trasporta nel mondo delle nuove forme narrative cinematografiche intese come una raccolta di dati, insieme di visioni provenienti da varie piattaforme come Skype o FaceTime passando per i social per approdare al GPS e a Google Maps; l’iperconnessione diventa il motore non solo della narrazione, ma dello stesso montaggio che procede per link. In questo modo il film crea un’infinita tavolozza di immagini interminabili: una mise en abyme – un’espressione che si può tradurre con “messa in abisso”, in quanto le immagini si replicano all’infinito in se stesse. Il film è pensato infatti come prodotto per lo schermo, dove lo spettatore si aspetta di vedere immagini, ma in Searching su quello stesso schermo sono presentati altri schermi, di pc o di smartphone che a loro volta sono produttori di altre immagini.
Questo concetto, in relazione al film, apre una grande riflessione non solo sul cinema e su cosa questa possa diventare, ma anche sui suoi stessi linguaggi espressivi. Si va ben oltre il concetto di rimediazione tanto caro al cinema digitale: qui un semplice campo e contro campo non avviene più fra due persone, ma fra due schermi che contengono a loro volta altre immagini di persone. Capiamo bene allora come il concetto di “messa in abisso delle immagini” in Searching si esplichi alla massima potenza. È un peccato però che il film faccia più intuire che realizzare questo aspetto com’è mostrato, in particolare, nelle ricerche che il padre fa su internet che appaiano fin troppo lineari: sarebbe stato interessante, ad esempio, Chaganty si fosse lanciato in una navigazione digitale che avesse portato da un link a un altro creando quello che poteva essere un montaggio filmico, mimetico alla ricerca su internet.
Un altro aspetto che emerge è che non sia un film su di un padre che cerca la figlia scomparsa, ma su un uomo proprietario di un computer Apple: Searching diventa un chiaro atto d’accusa, vagamente moralista, nei confronti dei genitori. Quest’ultimi totalmente all’oscuro di chi siano veramente i loro figli, li assolvono da ogni tipo di infrazione, aggrappandosi a una disciplina di forma («non ha mai buttato la spazzatura») più che di sostanza, nel nome di un amore genitoriale cieco e narcisistico. Quello che emerge non è tanto una riflessione sul mondo digitale, ma un cyberspazio amplificato all’ennesima potenza. Un padre che grazie alla tecnologia aumenta le sue possibilità di conoscere o di vedere e che, paradossalmente, più si avvicina alla verità più se ne allontana. David innesca così un atteggiamento e un’ambiguità interpretativa delle stesse informazioni con una conseguente gratificazione personale che non necessariamente coincide con quella che è la verità.
Quello che emerge non è tanto una riflessione sul mondo digitale, ma un cyberspazio amplificato all'ennesima potenza
In Searching si assiste alla nascita del postfamiliare quel «luogo fisico e metaforico nel quale gli individui vivono le proprie vite connesse più agli strumenti informatici che alla persone», scrive Barbara Volpi in Genitori Digitali – Crescere i propri figli nell’era di Internet. In quest’ottica si corre il rischio di disconnettersi dai legami affettivi che hanno bisogno di una presenza fisica, fattore che nel film non è nemmeno contemplato dato che non c’è niente di fisicamente tangibile. Genitori che sotto l’effetto della cosiddetta onda net perdono di vista la vera condivisione affettiva: prima vera interfaccia con la quale il bambino viene in contatto. Searching non solo mostra il fenomeno della social-amplificazione in cui l’immagine del sé viene ingrandita, distorta e non ha mai una reale individuazione, ma fa una considerazione sul campo affettivo. Nella sequenza iniziale assistiamo a una carrellata di immagini che raccontano le tappe della famiglia Kim – in una narrazione che non si procede per fatti reali ma è sempre filtrata da immagini – e in cui l’evento del lutto e della perdita è ridotto a una sola, semplice e paurosa cancellazione di un evento su Google Calendar; allo stesso modo il lutto mai affrontato diviene causa di una totale incomprensione fra un padre e una figlia. Esempi calzanti questi di come manchi nel film una corrispondenza reale-affettiva. Che ciò sia una critica o meno a una maggiore consapevolezza da parte dei genitori di diventare dei veri e propri mediatori di un uso consapevole della tecnologia ha poca importanza al fine dell’analisi, ma pone indubbiamente degli interrogativi significativi. E nonostante rientri nella dimensione del film a basso budget, Searching avvia importanti discorsi non solo sul cinema e sugli stessi codici e linguaggi, ma su tematiche quanto mai attuali e meritevoli di attenzione.
Su Searching ha scritto anche Piero Tomaselli qui ▼
Nel panopticon digitale
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