Schiavi dell’ambizione e del capitalismo

Su Cintura nera di Eduardo Rabasa, storia grottesca di un impiegato ossessionato dal far carriera

“Ambizione” è una parola entrata nel linguaggio comune travestita da personcina responsabile, ma sotto a trucco e parrucco si nasconde di per certo il Jabberwocky di Lewis Carroll: un essere maligno, un nonsense che vive “al di là dello specchio” e che, a detta di Alice, «mi riempia la testa d’idee... Soltanto non so di che idee si tratti».
Ma se il Giabervocco – la traduzione italiana di Masolino D’Amico per Longanesi – è un mostro che artiglia e azzanna e da cui è meglio stare alla larga, noi abbiamo smesso di riconoscerlo, e quando tiriamo in ballo l’ambizione ne parliamo sempre orgogliosamente, mettendoci il pollice in bocca e gonfiando il petto. Il Giabervocco sopravvive fra i nostri discorsi tutto imbellettato, propinato in slogan monotoni che fanno più o meno così: «Essere ambiziosi è importante!», «Non puntare mai in basso!», «Cerca sempre di superare i tuoi limiti!», eccetera eccetera. 
 

Se il Giabervocco è un mostro che artiglia e azzanna e da cui è meglio stare alla larga, noi abbiamo smesso di riconoscerlo, e quando tiriamo in ballo l’ambizione ne parliamo sempre orgogliosamente


È molto raro sentirsi dire: “Attento al Giabervocco! È fatto di idee che spesso non hanno senso e che ti sembra di capire benissimo: se gli dai retta è possibile tu finisca trascinato nel baratro”. Non viene mai fuori quanto sia pericoloso. Colpa il suo travestimento o la nostra negligenza linguistica, Eduardo Rabasa – scrittore, editore della casa editrice messicana Sexto Pisto, traduttore, giornalista, vocalist e probabilmente tante altre cose – ci racconta nel suo nuovo romanzo Cintura nera (edito da SUR e tradotto da Giulia Zavagna) cosa succede quando l’ambizione è trionfo di potere e la felicità superbia soddisfatta.

Il protagonista del libro è Fernando Retencio, un impiegato di “Soluzioni”, l’azienda il cui scopo è risolvere qualsiasi tipo di problema presentato dai clienti. I dipendenti – Fernando e un gruppo di uomini per lui “intercambiabili”, i Pérez, colleghi di cui non vale nemmeno la pena di ricordare il vero nome – vivono la loro giornata lavorativa a seconda di posizioni aleatorie decretate da un grosso tabellone all’entrata, il loro unico vero referente. Oltre all’adorazione della voce del Signor Sorriso, il boss che nessuno ha mai visto e che comunica attraverso degli ululati incomprensibili suonati dai megafoni dell’azienda, gli impiegati bramano di essere graziati dal tocco delle cheerleader, le ragazze che ogni sera intonano insieme ai sopravvissuti l’allegra canzone del licenziamento al malcapitato.
 

Il gruppo ballava e cantava con entusiasmo, girando intorno alla postazione come in uno stato di trance. Di tanto in tanto, una simpaticona allungava la mano verso uno dei due potenziali licenziati, per ritirarla un istante prima di liberarlo al solo contatto con la spalla. Ora non è proprio il momento, si angosciò Retencio. Il tabellone non è al corrente di tutti i preparativi per risolvere la situazione del Budda? Conosceva leggende di affiliati licenziati all’anticamera di una grande soluzione. Il protocollo decretava il rimpiazzo automatico del Pérez più vicino. Dopodiché la vita in Soluzioni riprendeva il suo corso normale. Un cintura nera non era mai stato… «Fanculo Pérez!», esplose Retencio quando sentì il tocco salvatore. Con un agile movimento, riuscì a partecipare all’ultimo rantolo della «Canzone del licenziamento felice»


Fernando Retencio, però, non crede di essere un Pérez qualunque: il suo destino è diventare cintura nera, ovvero raggiungere la posizione più alta nell’azienda: poco importa quanto sia necessario sporcarsi le mani. Ridotto a zero ogni scrupolo, la cintura nera è l’unica opzione possibile, e per l’ambizione tutto è sacrificabile perché ogni rinuncia è in realtà una sfida posta dal Signor Sorriso, un modo per testare quanto si è disposti ad ipotecare i propri sforzi fisici e morali a dispetto di qualcosa che non si sa bene che cos’è, ma di certo esiste, perché come appunta Retencio nel suo taccuino: la cintura nera è prima di tutto uno stato dell’anima.
Complice di questa disperata avventura è Dromundo, il tirapiedi vittima delle prepotenze di Retencio che, costretto a piegarsi ad ogni sua violenza, subisce in altri modi la psicosi data dall’ambizione e si costringe a mantenere integra la propria umanità anche a costo dell’umiliazione.
 

«Venga don José», gli diede il benvenuto Retencio. «Ho bisogno del suo aiuto per un esperimento. Per favore, mi presti un attimo la sua racchetta e si metta qui a gattoni ai miei piedi. L’esercizio è molto semplice. Io getterò a terra del denaro, che lei è libero di raccogliere in ogni momento, sapendo però che quando lo farà, automaticamente le assesterò una racchettata sul posteriore. È d’accordo a partecipare in piena libertà?»
«Come dice mia zia Juana, la nostra libertà è quel che resta dopo che voi esercitate la vostra libertà» rispose Dromundo, già a quattro zampe.
«Ci stai o no, maledetto Dromundo?»
«Come sempre, sono ai suoi ordini dottor ingegnere».


Altro personaggio non meno controverso è Karla, la moglie di Retencio che lavora per l’Atelier della Povertà, una sorta d’impresa low profit che spinge i poveri a generare appetibilità per il mercato attraverso la loro condizione svantaggiata e a monetizzare le opere artistiche più accreditate dal pubblico. Retencio è disgustato dal lavoro e dagli ideali della moglie, e prosciugato dal desiderio di desiderare non può che provare per Karla un amore ossessivo, legato soltanto alla possessione e alla gelosia. D’altronde, anziché biasimarlo, Karla perdona continuamente i comportamenti paranoici del marito, così come giustifica il suo lavoro nell’Atelier, un’occupazione che crede erroneamente possa contribuire a costruire un mondo giusto e sostenibile.

Il racconto segue le esperienze vissute da Retencio, passando da avventure dove i protagonisti rincorrono soluzioni creative per boxer falliti, scrittori dimenticati, a poveri da salvare senza però privarli della loro naturale condizione di povertà, fino ad arrivare agli eccessi di alcol e pillole da inghiottire per sopravvivere. Cintura Nera è un romanzo che attraverso il ritmo incalzante e la comicità grottesca ci regala l’iperbole di una visione lucida della nostra contemporaneità. I protagonisti vivono in uno schema dentro cui sono parzialmente consapevoli di fraintendere i loro sentimenti, ma non possono fare altrimenti perché la marcia capitalistica li indottrina al deliberato disprezzo per gli altri e loro stessi, li trascina verso la totale incuria della coscienza, fino a toccare i limiti del sadismo e dell’autodistruzione.
 

Lavoro e vita sono un tutt’uno e l’ambizione incontrollata sfocia nella perenne sensazione che “manchi qualcosa”, che ci sia sempre “altro in più”, la cintura nera, per l’appunto


Lavoro e vita sono un tutt’uno e l’ambizione incontrollata sfocia in quella che Mark Fisher (da cui Rabasa in un’intervista su Mangialibri racconta di aver preso ispirazione) definisce nel saggio Realismo capitalista (NERO edizioni) “edonia depressa”, quindi «non tanto l’incapacità di provare piacere, quanto l’incapacità di non inseguire altro che il piacere». La perenne sensazione che “manchi qualcosa”, che ci sia sempre “altro in più”, la cintura nera, per l’appunto, l’aspirazione di una crescita continua che ci conduce verso una condizione di precarietà perenne, protratta da sfide impossibili e dall’idea che ogni desiderio possa, prima o poi, essere realizzato. In questo vortice in cui «abbastanza non è più abbastanza», pendiamo dalle labbra del Signor Sorriso, quel boss invisibile o “Grande Altro” – nelle parole di Slavoj Žižek– che ci illude di soddisfare le fantasie generate dal mostro della nostra ambizione, e che invece ci allontana dal contatto con il genere umano, spingendoci ad un punto di non ritorno, quando ipnotizzati cadiamo al di là dello specchio. Questo solipsismo capitalista può essere guarito? Può darsi, ma bisogna stare attenti al Giabervocco. 


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