Scherzare col mondo intero
Cos’è la toscanità? Sulla rappresentazione dei toscani al cinema tra Benigni e Johnson, Nuti e Snellinberg
La storia del popolo toscano è unica nel suo genere: tra i suoi ranghi vanta innumerevoli personaggi illustri che hanno fatto la storia d’Italia e d’Europa e fare un elenco degli artisti, poeti, politici e uomini di ingegno che sono nati su suolo toscano sarebbe impossibile. Questo ha reso la Toscana una terra piena di cultura e bellezza e i toscani notoriamente fieri delle proprie origini e delle proprie tradizioni, che tendono ad esaltare, come la gorgia, l’aspirazione della lettera “c”, elevata a simbolo della diversità toscana. Persino i toscani più celebri al giorno d’oggi, personaggi dello spettacolo o della politica, non perdono occasione per ribadire la propria toscanità. Ma, se esiste, cos’è la toscanità? Il più celebre scritto che tratta quest’argomento è senza alcun dubbio Maledetti Toscani, saggio del 1956 firmato dal giornalista pratese Curzio Malaparte, e oggi edito da Adelphi, che è elogio appassionato e a tratti esagerato del popolo toscano e delle sue unicità. La maledizione che nel titolo del saggio pesa sui toscani è la loro essenziale diversità dal resto degli italiani: diversità che per l’autore è anche superiorità. Così Malaparte traccia un ritratto del toscano come un essere che viene guardato con sospetto e inimicizia, fondamentalmente diverso dagli altri perché libero, nei modi di fare e nell’intelligenza. «L’elemento fondamentale del suo carattere è l’esser spregioso: il che nasce dal suo profondo disprezzo per le cose e i fatti degli uomini, s’intende degli altri uomini. […] E non per la loro cattiveria, ma per la loro stupidità».
Gli italiani, secondo Malaparte, sono un popolo che ha paura della verità, e che dovrebbe imparare dai toscani a «sputare in bocca ai potenti»
L’autore, non senza un briciolo di polemica e di una sottile ma pungente ironia, esalta questo carattere di intelligenza tipica dei toscani affermando che è grazie ad essa che la storia del popolo toscano è una storia di libertà e non di schiavitù, di rivolte popolari e non di tirannie, di gente schietta e sfrontata che non ha problemi a dire quel che pensa. «Nel concetto dei toscani, chi non è un uomo libero è un uomo grullo». Oltre che elogio dei toscani, il trattato è anche biasimo degli italiani, che secondo Malaparte sono un popolo che ha paura della verità, e che dovrebbe imparare dai toscani a «sputare in bocca ai potenti». Il toscano ha «il cielo negli occhi e l’inferno in bocca»: se è abituato ad usare spesso un linguaggio diretto e volgare, basta che si guardi intorno per riempirsi gli occhi di bellezza, la bellezza tipica del proprio territorio.
Carlo Monni (a sinistra) e Roberto Benigni (al centro) in Berlinguer ti voglio bene (1977)
Chi da toscano legge queste frasi non può che sorriderne un po’ compiaciuto, ma l’opera di Malaparte va saputa cogliere nella propria particolarissima ironia e la descrizione dei toscani come un popolo che non ha paura dell’inferno, ma ha con esso continui e familiari rapporti, è forse affascinante ma poco corrisponde al modo in cui la cultura popolare italiana ce li racconta. Uno dei personaggi di spettacolo che più ha esaltato e messo in luce la propria toscanità è Roberto Benigni, a partire dalle sue prime apparizioni. In Berlinguer ti voglio bene, film di Giuseppe Bertolucci del 1977 che fu il suo esordio come attore cinematografico, Benigni sfrutta la propria appartenenza al mondo contadino toscano e ne coglie l’ironia e la schiettezza, portando sullo schermo un personaggio del sottoproletariato sboccato, scettico e disinibito. La provincia toscana rappresentata nel film è popolata da persone concrete, ignoranti e rozze, che parlano in dialetto, badano al sodo e non perdono occasione per offendersi, nemmeno ai dibattiti “curturali” delle case del popolo. Col passare degli anni il comico nato in provincia d’Arezzo è diventato rappresentante della toscanità nel mondo, archetipo del toscano sempre pronto a fare ironia su qualunque argomento, con la battuta pronta e una dirompente goliardia. A questa immagine della toscanità ha contribuito anche Amici miei, il celebre film del 1975 diretto da Mario Monicelli in cui cinque amici ormai cinquantenni ma con la mentalità da ragazzi che si prendono in giro e compiono scherzi in qualsiasi momento. Le “supercazzole” e le “zingarate” dei protagonisti del film sono diventate celebri a livello nazionale, e ancora oggi sono ricordate e citate continuamente.
La narrazione goliardica unita alla rappresentazione della vita di provincia è diventata un filone consistente del cinema toscano proseguita nel corso degli anni ’80 e ’90 grazie a pellicole ormai diventate cult interpretate dai Giancattivi, trio comico che ebbe svariate formazioni e che nel periodo di massima celebrità era composto da Athina Cenci, Francesco Nuti e Alessandro Benvenuti, anche regista e sceneggiatore dei film del trio. Ad Ovest di Paperino racconta la giornata tipica di tre ragazzi sbandati che si incontrano casualmente nella Firenze del 1981. Il film si mantiene in bilico tra serietà e ironia, così come Benvenuti in casa Gori, film del 1990 sempre diretto da Benvenuti e tratto dall’omonima commedia teatrale: ambientata per la maggior parte in un unico interno, la sala da pranzo attorno alla quale si riunisce una tipica famiglia toscana il giorno di Natale. Quella che dovrebbe essere una festa diventa un regolamento di conti, in cui vengono fuori verità scomode e sopite, e in cui personaggi si sbeffeggiano alla maniera tipica dei toscani. Esponente della dura vita di provincia è invece il Francesco Nuti di Madonna che silenzio c’è stasera, diretto da Maurizio Ponzi, in cui l’attore pratese interpreta un giovane che cerca inutilmente di trovare lavoro e si imbatte in personaggi grotteschi e surreali.
Francesco Nuti, Athina Cenci e Alessandro Benvenuti in un fotogramma di Ad Ovest di Paperino (1982)
Così, per gli stereotipi della cultura popolare italiana, se l’italiano del settentrione è serio, rigoroso, puntiglioso e snob, e il meridionale è ozioso, scapestrato e disinibito, il toscano è schietto, goliardico e ha sempre la battuta pronta, e in questo modo viene sempre visto in chiave ironica. Nel corso degli anni sono stati molti i tentativi di tornare a rappresentare la vita tipica dei paesini toscani, e una delle opere che è riuscita maggiormente ad avere successo anche a livello nazionale è senza dubbio I delitti del BarLume, serie di romanzi scritti da Marco Malvaldi ed editi da Sellerio da cui è stata tratta la serie televisiva in onda su Sky che vanta già nove stagioni e diciotto episodi, gli ultimi andati in onda a gennaio 2022. Le vicende sono ambientate a Pineta, paesino immaginario della costa livornese (la serie è invece girata a Marciana Marina, un comune dell’Isola d’Elba), e tutto ruota attorno al bar che dà il titolo alla serie, centro del paese e luogo di ritrovo per i personaggi che lo popolano. Tra di loro ci sono “i vecchietti”, quattro pensionati ficcanaso che passano le giornate a oziare al bar e che si ritrovano periodicamente a risolvere delitti e misteri. Ad interpretarli sono Atos Davini, Marcello Marziani, Massimo Paganelli e Carlo Monni, che dopo la morte è stato sostituito (appunto) da Alessandro Benvenuti. Sono i personaggi più tipicamente toscani della serie e sono sinceri, veraci e rompiscatole, e portano avanti il filone comico, mentre i personaggi più giovani hanno dei contorni più sfumati, si limitano all’accento e ad una lieve goliardia. La domanda sorge dunque spontanea: la toscanità è diventata tratto esclusivo della vecchia generazione?
La Toscana di Fino a qui tutto bene di Roan Johnson è quella delle feste universitarie, della spensieratezza e dell’insicurezza, la stessa insicurezza rappresentata nelle opere del collettivo John Snellinberg
Il regista della serie televisiva, a partire dalla seconda stagione, è Roan Johnson, londinese di nascita ma pisano d’adozione, che proprio a Pisa ambienta il suo terzo film, Fino a qui tutto bene, in cui racconta l’ultimo weekend di cinque studenti che stanno per lasciare l’appartamento che hanno diviso come coinquilini per tanti anni. Il film è l’affresco di una generazione vista dagli occhi dei fuorisede universitari, e l’idea per il film nasce da un documentario commissionato dall’Università di Pisa in cui il regista ha intervistato numerosi studenti da cui ha tratto gli aneddoti e le vicende presenti nel film. La Toscana che si vede in questa opera è quella delle feste universitarie, della spensieratezza e dell’insicurezza delle giovani generazioni, la stessa insicurezza che viene rappresentata nelle opere del collettivo John Snellinberg, che nei propri film mette in scena le realtà locali della regione ambientando le proprie storie nella profonda provincia.
Xiuzhong Zhang e Carlo Monni durante le riprese di Sogni di gloria (2014)
Sulla scia della tradizione comica toscana il collettivo cerca di rileggere in chiave ironica e autoriale il cinema di genere. Il primo film del collettivo, La banda del brasiliano, uscito nel 2009, sovverte le regole del poliziesco mostrando criminali improbabili e maldestri nella periferia pratese; mentre il secondo, Sogni di gloria, uscito nel 2014, riprende le radici della commedia a episodi tipica degli anni ’50 e ’60. Il secondo episodio di questo film è una sorta di rilettura di Karate Kid in cui i ruoli si invertono: un toscano, interpretato dal compianto Carlo Monni, insegna a un ragazzo cinese a giocare a briscola, scopa e tressette. Oltre a instradarlo al gioco d’azzardo, gli regala dei saggi e ruvidi insegnamenti sulla vita, in un perfetto esempio della saggezza popolare che tanto è cara ai toscani. L’altro episodio del film tratta invece il tema del precariato come presenza costante nella vita delle nuove generazioni e come simbolo del conflitto generazionale. Il titolo del film è ironico, poiché i sogni di gloria sono vincere un torneo di carte il cui premio finale è un prosciutto e sperare di riuscire a lavorare per almeno un mese di fila. Tutto questo è ambientato in un contesto tipicamente toscano, che ricorda proprio il cinema del primo Benigni e di Monicelli.
Il cinema, soprattutto quello della tradizione comico-umoristica, è riuscito più di altre arti a rappresentare e ricostruire l’immagine tipica del toscano, in cui esso si rispecchia e riconosce, probabilmente grazie alla capacità del cinema di aderire alla realtà e al coraggio e all’intraprendenza di grandi autori che nel corso dei decenni hanno portato sullo schermo la dura vita della provincia, con le sue difficoltà, mantenendo sempre una certa leggerezza e quell’ironia graffiante che contraddistingue i toscani. A ripensare alle invettive impetuose di Benigni, al sarcasmo caustico di Monicelli e Benvenuti, al presente malinconico e disgraziato canzonato nonostante tutto da Nuti e da Monni, da Johnson e dagli Snellinberg, torna in mente quel che scriveva Malaparte più di sessant’anni fa: il toscano è diverso dagli altri italiani, e quando un toscano entra in una stanza, tutti gli altri iniziano a sentirsi a disagio.
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