Scavare tra i ricordi

Sul romanzo d'esordio di Giovanni Bitetto, viaggio nelle memorie di una generazione in crisi

Un amico scompare prematuramente e un altro si ritrova al suo capezzale per un ultimo dialogo che ripercorre le tappe della loro vita insieme, del loro percorso d’amicizia dalle aule di una scuola di provincia fino a Bologna ai banchi del mondo intellettuale – l’uno scrittore, l’altro «filosofo, accademico, stimato professore», nelle parole con cui il protagonista lo descrive – che li accumunava e che infine li ha allontanati. Scavare di Giovanni Bitetto, esordio al romanzo dello scrittore pugliese già autore per Il Tascabile, Flanerì, The Vision oltre che di un racconto della raccolta edita da effequ Odi. Quindici declinazioni di un sentimento (e di Appunti per un lavoro che non c’è contenuto nel nostro numero 7 a tema Cambiamento), esce per la triestina Italosvevo nella collana Incursioni, curata da Dario De Cristofaro di Effe e Flanerì con la volontà di «provare a unire l’esperienza delle riviste, in questi anni rifiorite, a una collana, unite alla forma libro dal tempo lento, con le pagine intonse». Una collana che ti obbliga a rendere fisico l’atto di aprire il libro, separandone le pagine alla vecchia maniera, munito di pazienza e tagliacarte, con la voglia di entrarci dentro, di scavare.
 

La malattia fu dunque la tua iniziazione alla vita, la prima delle numerose ferite che ci siamo portati addosso di quegli anni, il grumo di verità che ci investì, o meglio, che travolse te. E per verità intendo l’azione della materia, le cose sconvolte dal dato incontrovertibile: la tua malattia. Un altro dato: i tuoi tic, la tua ricerca corporea. Un ultimo dato: l’ennesima sfortuna che ti colpì in adolescenza, quel dolore enorme che ancora oggi – posso vederlo nella penombra dell’ectoplasma – cala con rassegnazione sul tuo volto. Dobbiamo scavare anche in quei ricordi, perché in essi si nasconde l’ennesima nota grave del nostro rapporto.


Bitetto affronta questo percorso a ritroso nelle memorie dei suoi protagonisti senza nome con una scrittura composta, elegante, a tratti verbosa e affettata come i personaggi che la parlano, distaccati dalla realtà e dalla verità del loro stesso rapporto. Scavare affonda le sue radici nell’esilio perenne delle giovani generazioni e in generale di chi, per necessità o per aspirazioni, è costretto a cercare (e cercarsi) lontano da casa. Un allontanamento che vuol dire solitudine ma anche liberazione: dalle gabbie del quotidiano, dai vincoli sociali e ideologici della provincia. Vincoli da cui ci si fugge e che restano però impossibili da recidere, come i legami genitoriali che aleggiano fantasmatici sulla testa e sul presente dei protagonisti, cresciuti loro malgrado nelle griglie riduttive di una piccola realtà provinciale, l’atomo irriducibile dei sentimenti e delle relazioni. «L’unica cellula in un contesto in cui non c’è narrazione è la famiglia», ha detto Bitetto durante la presentazione fiorentina del romanzo, descrivendo la propria come «una generazione di figli che non riescono a farsi padri».

Per Bitetto, o quantomeno per i suoi protagonisti, il rapporto con la famiglia si articola in lutti, frizioni, dolori e sofferenze sopite, in reazioni silenziose ed emozioni che restano sottopelle. Muoiono le madri, muoiono i padri, si piange, si resta in silenzio, ci si consola con una mano sulla spalla in un circolo di perdite proprie e degli altri che sembra non doversi interrompere mai. E invece si interrompe, con la perdita ultima, quella dell’amico di una vita a cui si può confessare tutto solo da morto. Per il protagonista, l’amico rappresenta ogni cosa: la fuga, l’autonomia economica e intellettuale, lo scontro, la battaglia sul piano delle idee e uno scambio vero, umano, un’unione della mente e dei cuori così forte da tramutarsi, per una notte, nell’unione dei corpi.

E nonostante questa complessità lo scrittore pugliese non rinuncia all’ironia, prende in giro i ruoli – il filosofo marxista serioso, l’autore sopravvalutato – e mette in scena un gioco di scatole cinesi in cui si esibisce e si nasconde al contempo: il romanzo d’esordio intitolato La contemplazione della merda, le prime recensioni sul giornale universitario, gli aperitivi con scrittori seminoti di cui si riempie la vita del giovane autore di riviste. L’umorismo calibrato percorre tutto il romanzo senza mai dimenticarsi di sfumare, sempre con invidiabile equilibrio, nella serietà di riflessioni sul ruolo della letteratura, sull’altezza e sulla futilità della filosofia che non si fa azione, sul contrasto tra due modi di intendere la vita e l’attività intellettuale. «Scrissi un romanzo, il tentativo di dimostrarti che, al di là delle geometrie della filosofia, esistevano altre architetture, sbilenche, contraddittorie, eppure altrettanto nobili. Anzi, più genuine, perché prive delle pretese di verità che animavano la tua disciplina e che si concludevano in enormi fallimenti».

 

Scavare affonda le sue radici nell’esilio perenne delle giovani generazioni e di chi, per necessità o per aspirazioni, è costretto a cercare (e cercarsi) lontano da casa


Quest’ego tronfio, sempre pronto a mettersi in discussione eppure sempre pieno di sé, delle proprie parole e delle proprie velleità, è una bolla di bile che si gonfia lungo le pagine del libro, caricando il lettore di pensieri e ossessioni. Lo fa consapevolmente, e proprio quando è sul punto di soffocarlo, un ago, una lei in un universo in cui il femminile sembra rilegato allo sfondo, la fa esplodere in faccia al protagonista. E il lettore respira. A tre quarti del romanzo è lei a prendere la parola, sottraendo al protagonista il monopolio della narrazione e per una volta raccontando se stessa con la propria voce, mettendolo di fronte alla meschinità, all’egocentrismo che gli impedisce di vedersi per quello che è e di vedere le sofferenze degli altri, sempre meno importanti e inferiori alle sue. La dialettica tra pensiero e azione che lui ha sempre rimproverato all’amico di una vita in realtà la vive lui stesso, quando si sofferma in vuote elucubrazioni, quando si arroga il diritto di un dolore letterario e classifica le sofferenze familiari di lei come normali contrattempi tragici dello sviluppo di una famiglia borghese. «Per me l’incombenza è dato naturale, il quieto vivere è punto d’orgoglio. Io mi prostro e avanzo lucidamente. Per questo non ho dubbi, perché io resisto», gli dice lei con la forza di un grido, «riesco a essere me stessa senza tormentarmi con il perché, il per come, io vivo e basta, non sono affetta dall’asma di un’inutile riflessione». È forse il capitolo più bello di Scavare, per come spezza il libro e il protagonista, per come il romanzo – demolito dalle parole del suo personaggio riesce ad essere onesto con se stesso.

Oltre che nello stile elegante, la mano di Bitetto si sente nella precisione con cui architetta e sviluppa i meccanismi narrativi, dal monologo che regge la struttura del romanzo all’accenno carsico alla figura dei biografi che il protagonista immagina un giorno alle prese con le vite dei due amici – lo scrittore e il filosofo – e a cui si rivolge, inconsapevole biografo di se stesso, ammiccando al lettore. Su tutti i meccanismi, le parentesi che Bitetto usa per spezzare il monologo, indugiare sui ricordi, sui sentimenti, sulle sensazioni e per ammettere tutto: l’amore per Bologna, l’irrilevanza della scrittura, i pensieri duri sull’amico, i sentimenti per lei. Parentesi che si aprono e si chiudono e che contengono dolori e verità, dubbi, lutti e confessioni e che rivelano, forse più di tutto il resto, la voce forte e conflittuale del suo protagonista.
 

(Questa parentesi si spalanca come una mascella gigantesca. Vorrei tacere questo ricordo nel rispetto che ci lega, nel rispetto che hai chiesto al mondo mentre i tuoi occhi guardavano un corpo, una bara, una fossa scavata di fresco, mentre si offuscavano di lacrime per non partecipare al rito. Lo sai bene che la ferita è parte delle ore che trascorrono, come la mia lingua che batte sulla memoria. Lo sai bene che non posso impedire alle ombre di strutturarsi in parole, in pennellate, di illuminare la scena della morte di tua madre. […] Mi siedo accanto a te, sul letto. Tu comunichi con gesti e versi afoni, impasti saliva e muco nel gargarozzo, allo stesso modo si alza il vaniloquio dei parenti, durerà giorni. Dopo mesi di attesa non rimane che incassare la sconfitta, ricomporre i resti, la morte che irrompe nella vita, la vita che deve continuare. Vorrei chiudere qui questa parentesi, per ricacciarla lontano, ma le ombre ci trascinano ancora sul luogo del rito, ci soffocano nei vestiti sobri del lutto. Ti stringo la spalla, la stringeranno anche a me quando saranno i miei ad andarsene. Piangi per l’ultima volta, chiudi a chiave ogni parola materna, ogni momento, serri gli occhi e non guardi il padre che invecchia di colpo né la terra che inghiotte la bara, la ricopre con una lingua di prato – non riconosci la lapide, non guardi il nome e la data, non so se tu poi l’abbia fatto in seguito, se sia andato a farle visita, a piangere di nuovo, a rinverdire la memoria. Quel giorno chiedesti di dimenticare, di tacere su tutto, ti accasciasti dietro al muro di lacrime. Io allora ubbidii, l’ho fatto fino a ora. La ferita è ancora aperta, occorre suturarla, ricacciarla nella pancia accogliente dell’oscurità. Si spalanca stanotte come si palesava al tempo e ci rende consapevoli di quanto la sofferenza abbia inglobato ogni cosa. La parentesi si allunga, la parentesi è una falce. Corteggiamo la sua finitudine che cancella, che ci dà tregua dal ricordo, l’oblio che rimane come un arto amputato, il tessuto cicatriziale che duole, ci incatena, ci inghiotte sminuzzandoci, assorbe i nostri latrati e ora, per davvero, si chiude su di noi.)


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