Sarà per la falcata prodigiosa
Il bazar della Volpe e dell’Orso. Ricordo di Maria Luisa Spaziani (1922-2014)
Se t’hanno assomigliato
alla volpe sarà per la falcata
prodigiosa, pel volo del tuo passo
che unisce e che divide, che sconvolge
e rinfranca il selciato (il tuo terrazzo,
le strade presso il Cottolengo, il prato,
l’albero che ha il mio nome ne vibravano
felici, umidi e vinti) ‒ o forse solo
per l’onda luminosa che diffondi
dalle mandorle tenere degli occhi,
per l’astuzia dei tuoi pronti stupori,
per lo strazio
di piume lacerate che può dare
la tua mano d’infante in una stretta;
se t’hanno assomigliato
a un carnivoro biondo, dal genio perfido
delle fratte (e perché non all’immondo
pesce che dà la scossa, alla torpedine?)
è forse perché i ciechi non ti videro
sulle scapole gracili ali,
perché i ciechi non videro il presagio
della tua fronte incandescente, il solco
che vi ho graffiato a sangue, croce cresima
incantesimo jattura voto vale
perdizione e salvezza; se non seppero
crederti più che donnola o che donna,
con chi dividerò la mia scoperta,
dove seppellirò l’oro che porto,
dove la brace che in me stride se,
lasciandomi, ti volgi dalle scale?
(Se t’hanno assomigliato..., Eugenio Montale)
Da «carnivoro biondo», sì, ma con un paio di ali sgualcite se n’è andata lo scorso lunedì 30 giugno, a 91 anni, Maria Luisa Spaziani, l’eterna Volpe scolpita nel firmamento da Eugenio Montale, protagonista dei suoi Madrigali privati. Un firmamento tutt’altro che celeste, direi più ocra, del colore della carta o delle cose, terrestri ma eterne perché sempre in grado, da sole, di negare uno spazio e di affermare un momento. In cielo ascende, per l’elezione non richiesta dei manuali che suggeriscono ricezioni obbedienti della letteratura, solo chi sia disposto a farsi indistruttibile salma, rinunciando al battito e consegnandosi freddo alla tradizione e al metodo di chi apprende. Ebbene, Maria Luisa Spaziani è una volpe che, ben lontana da vette siderali, non ha mai smesso di respirare, vivida sempre ‒ nelle sue poesie come in quelle a lei dedicate ‒ in un universo di improbabili oggetti sorpresi poetabili, nella vastità di palpiti della materia che si scopre variopinto e inesauribile bazar di formulazioni: per ogni mondo, un oggetto, un’illuminazione. Dove il verbo pecca, perché specie di intento basato sulla fiducia e privo di sede, sperso fra un corpo e un altro in attesa di sanzione; dove pecca l’aggettivo, perché amico utile ma ritardatario, spesso incapace di puntualità nel significare; dove peccano, in definitiva, gli scagnozzi della frase che esagera o temporeggia, là sta il sostantivo, l’oggetto, a sancire in un pugno la vastità di un pensiero. Questo il tipo di poesia (e di esistenza) che hanno condiviso Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani, separati da quasi trent’anni di vita, raffinati ironici umili collezionisti di cose.
La loro amicizia (iniziata tardivamente nel 1949), di un tipo amoroso che tuttavia non si realizzò mai, fu l’epica tenera e buffa di una fantastica quotidianità, rielaborata attraverso il gioco in una comune narrazione intima, privata, animata da miti propri e improbabili eroi. Scopo della loro giornata: stanare il buffo, il nonsense, il cortocircuito semantico nel casuale miracolo delle cose. Montale, ricorda la Spaziani, «era persuaso che ogni giorno accadesse una scena comica. Bisognava solo trovarla». Così nel bazar a gestione Montale-Spaziani si aggiunge anche, collante insuperabile di anime, un catalogo di situazioni buffe: impastando non cuore a cuore, ma risata a risata, hanno sempre potuto riconoscersi e sapersi, tenaci segugi l’uno dell’altra, anche tra la folla più densa e serrata; loro, esemplari altissimi dei «pochi viventi» del disilluso Montale di Tempo e tempi, che in piedi ognuno sul nastro mobile della propria storia non possono riconoscersi che per un attimo, ma solo «per dirsi addio, non arrivederci». E forse fu proprio questo a legarli a tal punto, in quel periodo della loro vita: l’illusione e lo stupore di sentirsi gli unici due viventi, luminosi sopra gli eserciti di ciechi insensibili al miracolo. Come quella volta a teatro, durante una rappresentazione di danza classica, quando (memoria della Spaziani) «rischiammo di essere cacciati dalla Scala», perché Eugenio «era animato da un’inspiegabile antipatia per una ballerina classica. “Ha la faccia di una che perde le mutande in pubblico”, si lamentava. Cominciò il Lago dei cigni e dal tutù della poveretta prese a scendere una striscia di pizzo. Non posso dimenticare l’espressione grave di Montale mentre artigliava i due braccioli della poltrona: “Ci siamo!”. Scappammo dal palco piegati in due». Così nel fumo colorato del prestigiatore, in un lampo di illogica allegria una Volpe e un Orso (così lo soprannominò l’amica) detronizzavano Tchaikovsky, demolivano il Teatro della Scala, smutandavano la ballerina e con la ballerina il pubblico intento all’opera: a tale capolavoro bellico può arrivare l’affettuoso patto di una Duplice Intesa.
Uscita di scena anche lei, trentatré anni dopo Montale, conviene ricordarla non come nuova carne da macello del firmamento letterario, ma come donna e poetessa del mondo, intenta in una perenne «falcata prodigiosa» tra le forme delle sue creazioni; e nel tiepido sbattere di «gracili ali» trovare, sommersa nel magazzino dei suoi oggetti, la parola densa di una divinità terrestre con lo sguardo rivolto al cielo, ai palloncini colorati che dal suolo si staccano in un saggio di vento.
Portami palloncini colorati,
le illusioni che mentono con grazia.
Li guarderemo insieme mentre salgono
dove tutto svanendo sorride.
(Dicembre 1999, Maria Luisa Spaziani)
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