Sangue o suolo
Proposte di riforma della legge sulla cittadinanza
La questione dell’adozione di requisiti meno stringenti in materia di acquisto della cittadinanza è ora uno dei temi maggiormente dibattuti a livello istituzionale, anche se era già stato portato all’attenzione del Parlamento da alcune proposte di legge, che però non hanno trovato seguito.
Tradizionalmente la cittadinanza, cioè quello status in virtù del quale la persona fisica fa parte del popolo dello Stato, è acquisita per ius sanguinis oppure per ius soli. Secondo il primo criterio è cittadino di uno Stato il figlio di almeno un genitore cittadino, mentre il secondo, nella sua forma più pura, assegna automaticamente la cittadinanza a chi, anche se figlio di genitori stranieri, nasce nel territorio politico dello Stato. Storicamente il criterio della “linea di sangue” è privilegiato dai Paesi caratterizzati da una forte emigrazione, per non perdere qualsiasi relazione con la discendenza dei cittadini emigrati, mentre il canone del suolo è preferito dagli Stati ex colonie, che contavano (e continuano a contare), per popolarsi, sui flussi di immigrazione. In effetti, gli Stati nazionali hanno sempre cercato di aumentare la consistenza del popolo, cioè dell’insieme dei cittadini, al fine di espandere la platea dei contribuenti e il potenziale militare in caso di mobilitazione generale, dovendo perciò fare i conti con le proprie specificità storiche. Per orientarci, possiamo dire che oggi il continente americano è governato dallo ius soli automatico, mentre nel resto del mondo prevale l’acquisto della cittadinanza iure sanguinis.
La pratica, però, rifugge ogni schematismo. Infatti, i diversi ordinamenti prevedono le più varie combinazioni dell’uno e dell’altro criterio. Lo stesso vale per il nostro ordinamento, dove la materia dell’acquisizione della cittadinanza è disciplinata da una legge del 1912, riformata in maniera significativa a inizio anni Novanta, senza però che ne venisse scalfito l’impianto di fondo. In effetti, per avendo la questione un’indubbia importanza costituzionale, la nostra Carta fondamentale non ha ritenuto di doverne cristallizzare la regolazione, lasciandola allo strumento più flessibile della legge.
Senza addentrarsi nei tecnicismi, la legge attribuisce preminenza allo ius sanguinis, mentre lo ius soli è subordinato a prolungati requisiti temporali. Infatti, lo straniero nato in Italia può ottenere la cittadinanza solo se legalmente residente nel nostro Paese senza interruzioni fino al compimento della maggiore età. Dopodiché ha un anno di tempo per dichiarare di voler diventare cittadino italiano. Lo ius soli automatico è riconosciuto solo ai figli di apolidi o di ignoti, in parte per dare a questi soggetti “senza Patria” una qualche forma di protezione, in parte per evitare di dover avere a che fare con gente “senza documenti”, e perciò difficile da controllare. Per gli stranieri immigrati in Italia sono inoltre previste forme di “naturalizzazione”, in cui i lunghi tempi richiesti vengono accorciati solo a determinate condizioni (per esempio in caso di matrimonio con cittadino italiano).
Le istanze per una riforma del sistema di concessione della cittadinanza derivano dal fatto che l’Italia, in virtù del suo “miracoloso” sviluppo economico, da Paese di emigranti è divenuto, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, Paese di forte immigrazione. In questo quadro si è imposta all’attenzione dell’opinione pubblica la situazione degli immigrati residenti, nonché dei figli di immigrati nati sul suolo italiano, che allo stato attuale devono attendere i 18-19 anni prima di poter aspirare ad ottenere la cittadinanza, con tutti i benefici che ciò comporta.
Il punto, infatti, è proprio questo. In passato i cittadini erano più che altro titolari di doveri verso lo Stato (come l’obbligo di pagare le tasse o di prestare il servizio militare), per cui conveniva all’autorità politica adottare i criteri di assegnazione della cittadinanza più idonei ad estendere la platea dei cittadini. Viceversa, oggi i vantaggi (fiscali) che lo Stato ricava dalla concessione della cittadinanza sono bilanciati dal fatto che ai cittadini spettano numerosi diritti, tra i quali i così detti diritti sociali (istruzione, salute, lavoro), che richiedono un certo dispendio di risorse pubbliche, per cui in astratto lo Stato sociale contemporaneo dovrebbe essere al riguardo più di manica stretta.
In realtà, nel loro contenuto essenziale, i diritti sociali sono già ispirati al principio universalistico, per cui la loro erogazione, fondamentalmente, prescinde dalla cittadinanza del soggetto. Ciò è lampante nel caso del Servizio Sanitario Nazionale, che, pur rappresentando una delle più consistenti voci di spesa nel bilancio dello Stato, non va troppo per il sottile quando si tratta di soccorrere uno straniero.
La differenza fondamentale tra cittadino e straniero, in effetti, risiede nel godimento dei diritti politici, cioè nel diritto di votare e di essere votato per funzioni pubbliche elettive, da cui gli stranieri sono esclusi. Questi diritti, tuttavia, non pongono a carico dello Stato molti oneri aggiuntivi, come anche i diritti di libertà (di pensiero, riunione, associazione, religione), che anzi obbligano lo Stato a non fare alcunché, e che sono pacificamente riconosciuti a tutti.
Per di più, ai fini fiscali, lo status di cittadino non ha più alcuna importanza, potendo il prelievo fiscale incombere anche sui semplici residenti. Dunque, entrate fiscali e spesa pubblica dipendono più dal numero di popolazione residente che dal numero di cittadini.
Di conseguenza, i partiti potrebbero considerare l’opzione per una concessione più estensiva o restrittiva della cittadinanza sulla base più di un tornaconto elettorale che di questioni di bilancio. Il calcolo elettorale, tuttavia, è difficile, dal momento che è impossibile prevedere quali forze sarebbero favorite dall’estensione del voto a fasce consistenti di immigrati residenti o nati in Italia.
Insomma, il dibattito che si è sviluppato intorno al tema della cittadinanza, e che vede opporsi i difensori della legge così com’è a chi auspica l’introduzione dello ius soli “secco”, ha tutta l’aria di una contrapposizione artificiosa e ideologica. Infatti, il contrasto riguarda, più che altro, la concezione della cittadinanza, da una parte politica valorizzata nella sua componente etnico-culturale, dall’altra, invece, considerata un utile strumento di emancipazione per le masse di immigrati. Al fondo, i partiti che animano il dibattito intendono soddisfare l’idea stereotipata che i rispettivi elettorati hanno della persona immigrata o figlia di immigrati: per alcuni la presenza degli immigrati, nell’immediato, pone gravi problemi di sicurezza pubblica e, in prospettiva, mette a rischio la tenuta stessa dell’identità nazionale; per altri, l’immigrazione è una risorsa per un Paese in declino demografico ed economico come il nostro, che invece si ostina ad escluderli in modo intollerabile.
Realisticamente, lo straniero che viene in Italia per lavorare o per “nascere” non è certo né un criminale per costituzione né una persona che il nostro ordinamento discrimina in maniera sensibile negandogli la cittadinanza in tempi brevi. In breve, per risolvere i problemi di esclusione sociale e di emarginazione una riforma della legge sulla cittadinanza può far poco o nulla.
Potrebbe essere certo opportuno ridurre i tempi per la naturalizzazione dello straniero residente e per l’acquisto iure soli della cittadinanza da parte dello straniero nato in Italia, senza necessariamente introdurre automatismi che paiono più spot elettorali che altro. Se si vuole contrastare quei fenomeni di discriminazione e di semi-schiavitù in cui sono ridotte centinaia di immigrati, i campi d’intervento sono altri. Si potrebbe, per esempio, regolare i flussi migratori valutandoli in maniera più realistica di quanto non si faccia oggi e riformare il sistema dei permessi di soggiorno, che ora sembra attribuire ai datori di lavoro disonesti un potere di ricatto verso gli stranieri irregolari.
Si tratta di questioni davvero complesse. Evidentemente le forze politiche, piuttosto che confrontarsi costruttivamente su questi temi, preferiscono lanciare facili slogan elettorali sulla cittadinanza (“l’Italia agli italiani” o “chi nasce in Italia è italiano”, non fa troppa differenza) da dare in pasto al proprio pubblico di riferimento.
In collaborazione con La Clessidra
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