Saccomanni e il rapporto Blanchard
L’austerità aggrava la recessione?
Lo stallo politico che ha paralizzato la vita pubblica italiana per due mesi ha portato alla conferma, senza precedenti nella storia costituzionale del nostro Paese, di Giorgio Napolitano a Capo dello Stato e alla formazione del Governo Letta, a composizione tecnico-politica, con il sostegno trasversale di PD, PdL e Scelta Civica.
Esponente della componente tecnica è il titolare del Ministero dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d’Italia dal 2006 (riconfermato nel 2012), il quale, il giorno del giuramento del nuovo esecutivo, ha dettato la sua “ricetta” per uscire dalla crisi: tagliare la spesa pubblica e ridurre la pressione fiscale per favorire la crescita. La formula, che ha ricevuto il plauso di Confindustria, riprende sostanzialmente la linea prospettata da Monti, e dunque sembra che, almeno da questo punto di vista, la strategia di Palazzo Chigi per combattere la recessione non subirà particolari soluzioni di continuità.
La linea di politica economica dettata da Saccomanni si fonda sull’assunto secondo cui esisterebbe un nesso causale tra aumento del debito pubblico e depressione economica. Perciò, sarebbe necessario ridurre il debito attraverso interventi di austerità, appunto tagliando spesa e tasse, per far ripartire l’economia.
Tuttavia, un interessante studio del Fondo Monetario Internazionale (FMI) mostra come le politiche di austerità, piuttosto, finiscano per aggravare il rapporto debito/PIL. Il working paper del Capo economista Olivier Blanchard e di Daniel Leigh (gennaio 2013) rileva come le previsioni dello stesso FMI, della Commissione europea e dell’OCSE, in materia di rapporti tra austerity e debito, siano state smentite dai fatti.
In base alle precedenti previsioni, si riteneva che la contrazione della spesa pubblica di 1 euro avrebbe portato ad una depressione di soli 0,5 euro, mentre una riduzione della pressione fiscale di egual misura, lasciando più soldi in tasca (e quindi maggiore “propensione al consumo”) ai cittadini, avrebbe tranquillamente sopravanzato questa modesta depressione. Su tali presupposti veniva fondata la teoria dell’“austerità espansiva” (Giavazzi e Alesina, per fare due nomi): ridurre spesa (e tasse) fa crescere la ricchezza nazionale, e il rapporto debito/PIL si riduce progressivamente.
Tuttavia, a parere di Blanchard, le previsioni si basavano su moltiplicatori pre-crisi che non tenevano conto delle particolarità del periodo di recessione che stiamo attraversando.
Giova ricordare che, secondo le teorie keynesiane, il “moltiplicatore delle tasse” (diciamo, l’impatto della variazione delle imposte sul PIL), è sensibilmente minore di quello della spesa. Questo perché minore spesa pubblica comporta meno stipendi e consumi, quindi meno produzione e, in generale, minore “ricchezza”. Certo, si dirà, quello che si risparmia nella spesa, lo si potrà recuperare tagliando le tasse, lasciando più soldi in tasca ai cittadini. Tuttavia, la maggiore ricchezza legata a una contrazione fiscale è sempre abbastanza modesta, e lo è in particolar modo in un periodo di recessione, perché ciò che non viene pagato in tasse non va tutto e subito nel mercato a stimolare consumi e produzione, ma in buona parte finisce dritto nella quota del risparmio. In breve, la maggiore ricchezza causata dalla riduzione del carico fiscale non riesce a compensare la riduzione della stessa, determinata dal taglio della spesa pubblica.
Quello che rileva Blanchard è proprio che i moltiplicatori sono stati sottovalutati (in particolare il “moltiplicatore della spesa” non sarebbe 0,5 ma 1,5!). Se, in linea con le politiche di austerità, spesa pubblica e carico fiscale diminuiscono in egual misura, queste le conclusioni del rapporto, il PIL scende più di quanto non scenda il debito pubblico; conseguentemente, il rapporto debito/PIL aumenta. E questo, a quanto pare, indipendentemente dall’entità del debito pubblico.
Ma c’è di più. “Un aumento degli spread” prosegue Blanchard “potrebbe anche essere il risultato di una crescita inferiore a quella attesa e anche causa di minore crescita. In tal caso, una crescita economica inferiore a causa dell’austerità potrebbe generare un aumento degli spread, e tali aumenti di spread potrebbero, a loro volta, ridurre ulteriormente la crescita del PIL”.
Inoltre, anche il nesso tra crisi del debito e recessione è stato messo in discussione. Infatti, il principale studio che legava i due fenomeni sarebbe inficiato da gravi problemi metodologici e da banali errori di calcolo (tanto che si è parlato di “excelgate”).
Tutti questi fattori lasciano quantomeno spaesati, dato che mettono in discussione l’orientamento di politica economica dominante fin dalle prime avvisaglie della crisi economica nell’Eurozona. Tutto quello che credevamo di sapere sui rapporti tra debito, crisi e spread non sembra più così assodato.
Gli interrogativi sono molti e gravi: dopo il governo Monti, che, costretto a tagliare la spesa e ad aumentare le tasse, ha giocoforza aggravato la crisi dei consumi e il livello di disoccupazione, anche la linea del nuovo esecutivo rischia di portare agli stessi risultati?
In collaborazione con La Clessidra
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