Ritorno all'ovile
Heidegger - Vite autentiche
Quando Jean Beaufret chiese al grande professore tedesco, Martin Heidegger, se fosse possibile restaurare il senso della parola umanismo, sorse tra i due un’intima e brillante discussione che, ancora oggi, troviamo riportata nei manuali e nei testi filosofici: dalla loro corrispondenza epistolare nacque Lettera sull’Umanismo. Le loro parole diventano tanto più preziose se le si considera all’interno del contesto storico di riferimento. Siamo nel 1946, al termine della seconda (Grande) Guerra; alcuni paesi erano già ‘ufficialmente’ fuori gioco, chi aveva perso, chi aveva vinto. Noi, ad esempio, proclamavamo la Repubblica. Ma poco importava chi fosse ancora in trincea, chi cominciava una guerra civile o chi vedeva frantumata la propria patria per mano di qualche potente straniero. Quel che contava era che mai come allora, scalpitava la voglia e il bisogno di cercare le fondamenta, ritrovare gli appigli morali. Il pensiero ideologico aveva fatto fin troppi danni, e risultava doveroso (per non dire obbligatorio) delegare alla filosofia la ricerca di nuove e giuste soluzioni.
Dilagava in Francia il fenomeno culturale dell’esistenzialismo, cui Jean-Paul Sartre diede il massimo contributo. La preminenza dell’esistenza, la scoperta decisiva della ‘gratuità’ d’ogni azione, ogni gesto (vale a dire la mancanza di un fine ultimo cui ambire, il livellamento valoriale di ogni azione e scelta umane da un punto di vista morale), avevano non soltanto tradotto in termini filosofici un’intuizione comune, ma anche avevano alimentato la sofferenza già presente. Le avevano dato un nome attraente e un sistema intellettuale di riferimento. Così, le domande rivolte dal Beaufret ad Heidegger, risultavano il migliore pretesto affinché questi, da un lato, potesse difendersi dall’appellativo di ‘esistenzialista’ alla Sartre; dall’altro, perché fornisse una versione edificante, laddove fosse possibile, del rapporto intrinseco tra metafisica ed etica. C’è una relazione tra le due? O la prima resta ingarbugliata tra le parrucche polverose dei docenti universitari e i loro discorsi trascendentali, mentre la seconda, orfanella, vaga per le strade devastate d’Europa?
Se veramente questo è ciò di cui si aveva bisogno, cioè riallacciare i ponti, come si suol dire, tra un’ontologia e un abitudine etica, Heidegger accettò la provocazione e prontamente rispose alle domande postegli. Non avrebbe senso alcuno, infatti, una filosofia slegata dall’etica: cosa ce ne facciamo di mere astrazioni noetiche se poi non sappiamo uscire dal tunnel?
Così, con tutto il fascino ‘sciamanico’ di cui era capace, con il quale contagiò e determinò il pensiero di tanti filosofi, psicologi, religiosi, linguisti contemporanei, egli propose un ritorno all’ovile. È come se, scuotendoci dal sonno, abbia voluto dirci ‘Basta cercare nella metafisica classica il senso e il principio d’ogni conoscenza ed esperienza; basta credere che la ‘teoria’ debba giustificarsi di fronte alla ‘prassi’ come le fosse inferiore; basta guardare al passato, perché questo ha creato solo equivoci, sia terminologici che teorici’. Tutto è da rifare, tutto è da ridire. Ogni definizione della tradizione metafisica sembra aver tradito la più intima ragione dell’uomo: cioè che egli è, propriamente, pastore dell’Essere. È dell’Essere che ci siamo dimenticati, o meglio, lo abbiamo confuso con l’ente, reificandolo e oggettivandolo. Abbiamo così creduto di essere i padroni dell’Essere, ne siamo divenuti i bigotti carcerieri, quando invece, non ne siamo che custodi.
Mostrare i margini d’errore, no anzi, i veri e propri peccati ‘letali’ della metafisica, è la maniera di Heidegger per dire che l’uomo, nella sua profonda essenza, è legato al Destino dell’Essere, alla sua Verità. L’uomo non può definirsi come animale, e neppure animale razionale. Ciò non sarebbe sufficiente, né lusinghiero. Egli è propriamente domanda, domandante e domandato insieme: ogni suo carattere definitorio dipende dalla capacità, unica e inestinguibile, di chiedere cos’è, dov’è, perché il Senso dell’essere. E anche se non è così formulata la domanda (anzi, per esser precisi non è neppure una vera e propria proposizione), essa rimane il modo di essere rivelatorio della nostra Esistenza, che viene chiamata Esserci (Dasein). Noi siamo domanda, dunque, progetto, decisione, possibilità, Cura (in Essere e Tempo, 1927, si esprimevano questi caratteri nella complessa ‘ontologia fondamentale’).
È quindi con l’intento di rivisitare e stravolgere la tradizione che sorge, come un nuovo astro da contemplare, l’idea di un ethos che nient’altro è se non il soggiorno, l’abitare dell’uomo nella radura dell’essere. Non è corretto chiedersi, come genuinamente fa Beaufret, se esiste o meno una relazione tra etica ed ontologia, poiché queste non sono discipline, non branche o sezioni accademiche. Un pensare non-autentico, cioè un pensare che slega, divide, separa, l’essenza (dell’uomo) dalla sua possibilità di esistere in maniera pura, finisce per ridurre la stessa filosofia ad un pensiero tecnico, che si prostra al linguaggio logicista, al calcolo e all’astrazione. Ma il vero pensiero autentico non può ‘occuparsi’ di filosofia, bensì questa deve essere la sua stessa anima. Scrive Heidegger: “Il fare del pensiero [quello originario e autentico] non è né teoretico né pratico, e nemmeno l’unione di questi due tipi di comportamento[1]”. L’etica non è niente all’infuori del suo rimando all’Essere.
L’autore presenta il tema scottante dell’origine dell’uomo: un’origine che non può procedere, un fondamento che non può fondare, se non si è contemplata la primordiale corrispondenza tra Essere ed Esistenza, tra il domandare e l’agire, il soggetto e l’oggetto. Lungi da richiami idealistici, la prospettiva heideggeriana concede ampio spazio ad un’immaginazione libera e anti-dogmatica, un’intuizione sagace che prescinde da ogni categorizzazione filosofica. La metafora del pastore è, infatti, indice d’un bisogno d’umiltà, chiarezza. Genuinità, ma non ingenuità. L’ingenuità, addirittura, potrebbe rivelarsi un male, poiché provocherebbe nuovamente l’oblio dell’Essere nelle trame della Storia, o nei cavilli della metafisica.
Ma adesso chiediamoci: l’ethos come soggiorno o dimora; il pensiero autentico come originario e refrattario a denominazioni didattiche e scientifiche; la rimbombante Verità (o Senso) dell’Essere, che così ampio spazio occupa nei libri dell’autore; la bucolica visione del pastore e delle sua pecorella smarrita, ritrovata, ma pur sempre anelata, bastano? Ci soddisfano?
Forse l’intenzione dell’autore di rinfacciare al passato ogni sbaglio commesso, per quanto sottili e illuminanti siano i risultati ottenuti, non offre dell’uomo se non un’immagine cristallizzata, ottenuta sostituendo ad un universo semantico insoddisfacente, un nuovo universo di Senso probabilmente impraticabile. È lodevole comunque, in ogni sistema filosofico, il tentativo di infiltrarsi nella tradizione acquisita e poi farla implodere dal di dentro; così come è ammirevole e coraggiosa la missione riconciliatrice di un’etica e una metafisica sclerotizzate e ‘indottrinate’. Ma se il linguaggio si costringe ad assumere l’origine come ineffabile e indefinibile, come l’immagine dai contorni sfumati (‘né teoretica né pratica’) cui è necessario rifugiarsi, possiamo ancora sperare di comprendere noi stessi e il nostro vivere? Se sia un male o meno quell’esigenza squisitamente umana di dare un nome alle cose e cercare sempre le risposte alle domande, è comunque un’esigenza con la quale un domandare fondamentale (e fondativo) ha da fare i conti. Sta a noi allora stabilire se la proposta heideggeriana ci conforti oppure no, se possa essere uno spunto creativo o un vicolo cieco inevitabile. Se l’ovile dell’Essere e il ruolo di pastori soddisfino la nostra sete di guarigione etica o se invece non ci lascino galleggiare in un retorico limbo di Sensi e sensazioni.
- [1] M. Heidegger, Lettera sull’Umanismo, Adelphi, Milano 1995, p. 101 (corsivo mio).
- Cfr., M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2009.
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