Ritorno a Castel Volturno
I luoghi del cinema di Edoardo De Angelis, autore di Indivisibili e in uscita con Il vizio della speranza
Per alcuni registi i luoghi e le geografie sono soltanto ambiente per le loro storie, un paesaggio come un altro che fa da sfondo ai protagonisti. Per altri invece ha un ruolo comprimario, il vero fulcro del racconto dal quale tutto prende forma. Il regista campano Edoardo De Angelis è uno di questi e in tutti suoi film è evidente come tra i luoghi in cui decide di ambientare la storia e i personaggi che li vivono vi sia un legame indissolubile. Un’influenza reciproca che il regista ha posto in primo piano soprattutto dal suo secondo film Perez. dove, come dichiara lui stesso, «si cominciava a delineare quanto mi interessi la relazione conflittuale tra l’uomo e l’ambiente».
In Perez. (2014) la città non è solo una semplice scenografia, la prima sequenza si apre nel Centro Direzionale di Napoli, il quartiere attorno al palazzo di giustizia, in palazzi abitati da benestanti, per poi scivolare sempre più nella povertà periferica. La prima parte del film è un susseguirsi di edifici, luoghi senza identità, dominati da un’architettura austera coerente con l’atmosfera cupa della storia. La macchina da presa si sofferma sugli edifici attorno al quartiere di Poggioreale e sulle persone che lo vivono quotidianamente: avvocati, malfattori e giudici corrotti. La cinepresa indugia sulle architetture creando continui riflessi e giocando con i vetri dei palazzi, con l’ombra che pian piano avanza sulle vetrate dei grattacieli a preannunciare la minaccia che incombe, lo scorrere del tempo, l’avvicinarsi della catastrofe che si riverserà sui protagonisti. Demetrio Perez è un avvocato la cui figlia, Tea, si innamora di Francesco Corvino, figlio di un boss della Camorra; il padre, intimorito da una simile frequentazione, stringe un accordo con Buglione, il boss di un clan avverso di cui è avvocato. L’accordo con il malavitoso prevede che se l’avvocato recupererà per lui dei diamanti nascosti dentro la stomaco di un toro, Buglione testimonierà contro Corvino, nella speranza che questa testimonianza allontani il camorrista da Tea.
Già in Perez. si cominciava a delineare quanto mi interessi la relazione conflittuale tra l’uomo e l’ambiente
De Angelis dà vita a una storia di forte impatto visivo dove i personaggi e il paesaggio sembrano fondersi l’uno nell’altro con il procedere della narrazione, in una città che inghiotte i propri personaggi dentro di sé, con sequenze in cui non si riesce a distinguere le figure umane dallo sfondo architettonico. Il colore si fa protagonista: il blu, il nero, il grigio, fino al lilla del finale, sono le principali tonalità del film, tinte che si confondono, si mescolano e inglobano dentro sé il vero volto della città e dei protagonisti, e non è mai chiaro se siano più gli ambienti ad influire sui personaggi o le azioni (e le scelte) di questi ultimi a condizionare il paesaggio. Il colore diviene il mezzo per indagare il film, la chiave per una sua corretta analisi. Il regista e il direttore della fotografia Ferran Paredes Rubio sono consapevoli del fatto che la manipolazione cromatica delle immagini non rappresenta semplicemente un espediente estetico, ma possiede una vera e propria valenza narrativa.
Perez. ha un forte viraggio blu, ma nel finale, quando Francesco Corvino scopre che il padre di Tea è l’avvocato di Luca Buglione, qualcosa sembra cambiare. Il cielo si fa viola, la luce che riflette sui personaggi ne muta l’aspetto rendendoli semplici ombre, personaggi senza volto, silhouette che si muovono sul lungomare napoletano. Tutto viene rimesso in discussione, l’amore di Francesco per Tea (presa in ostaggio dal ragazzo per costringere il padre a condurlo nel luogo dove viene tenuto nascosto il boss della famiglia rivale) e il patto di Perez con Buglione, che preoccupato per l’incolumità della figlia sembra disposto a tradirlo. Ma sarà lo stesso Perez, quando ormai sembra che abbia consegnato Buglione nelle mani di Francesco, ad investire il ragazzo con la macchina. Il rosso – simbolo di violenza, sangue e vendetta – è il protagonista della penultima sequenza del lungometraggio, un rosso che illumina i volti di Perez e della figlia mentre immobili fissano le fiamme che stanno ardendo il cadavere di Francesco. Nell’ultima scena, girata in un unico piano sequenza, vediamo una macchina avanzare e arrestarsi di fronte ad un bar, il cielo è viola, la notte è passata, sta per nascere un nuovo giorno. Il padre e la figlia scendono dalla macchina con aria stanca e volti turbati, De Angelis segue con una carrellata laterale l’avanzare dei personaggi, le luci a neon dell’insegna rossa si riflettono sui loro volti. I due continuano a camminare entrando dentro una veranda illuminata da una luce blu, colore che caratterizza quasi tutto il film, fino a che, entrati nel bar, per la prima volta vediamo la loro carnagione candida, senza alterazioni cromatiche. Forse i due personaggi potranno ritornare alle loro vite, può darsi che da questo momento potranno nuovamente essere tranquilli e felici? De Angelis non dà delle risposte, i volti dei protagonisti sono ancora sconvolti, ma la cosa straordinaria è come grazie all’intelligente uso cromatico riesca, senza che i due parlino, a suggerire, tramite lo “sfumare” dei colori, questo possibile ritorno alla quotidianità.
Da questi luoghi disabitati e spiagge degradate, proprio lì dove si chiudeva Perez., si apre Indivisibili
Il film è l’anello di congiunzione tra Mozzarella Stories (2011) e Indivisibili (2016), ma è nettamente più vicino, sia per la messa in scena che per la regia, a quest’ultimo. I movimenti di macchina, le carrellate e le lunghe inquadrature attorno ai personaggi sono un marchio stilistico che ha maturato in Perez. e che ritroviamo in Indivisibili. Il primo è girato quasi interamente tra i grattacieli del centro direzionale di Napoli, lontano dalle periferie e dagli edifici fatiscenti che solitamente vengono scelti per i racconti criminali. Solo nelle ultime sequenze il film abbandona la città per addentrarsi nella periferia, tra edifici semiabbandonati che fungono da rifugio di pentiti e abitazioni per povera gente. Da questi luoghi disabitati e spiagge degradate, proprio lì dove si chiudeva Perez., si apre Indivisibili. C’è un passaggio di testimone, tra la sequenza di chiusura di Perez. e quella di apertura di Indivisibili: due scene girate nella stessa ora del giorno e in piano sequenza tramite una carrellata laterale; l’unica cosa che le distingue è il fatto che i protagonisti si muovano nella direzione opposta, un vero e proprio scavalcamento di campo da una storia a un’altra.
Viola e Dasy sono due gemelle siamesi di Castel Volturno, cantanti venerate come due sante per il loro aspetto fisico. Il padre e la madre sfruttano le loro doti facendole cantare nelle comunioni e nelle feste popolari ed esponendole al pubblico, che si mette in fila per toccare il punto in cui i loro corpi si uniscono, come portafortuna – la storia dei genitori che sfruttano l’aspetto delle figlie esibendole per trarne profitto ricorda, con toni molto più pacati, La donna scimmia di Marco Ferreri, racconto ambientato a Napoli in cui una giovane donna completamente ricoperta di peli viene esibita come fenomeno da baraccone; non è un caso che il nome del manager discografico che promette alle due ragazze denaro e successo si chiami proprio Marco Ferreri. Tutto cambia quando un dottore dichiara che tramite un’operazione molto semplice possono essere divise, spaventando i genitori che vedono nell’aspetto delle figlie la loro fonte di sostentamento e portando le gemelle ad una forte crisi. Dasy e Viola abitano lo stesso corpo, ma vivono un perenne dualismo: la prima brama la propria libertà, vuole provare nuove emozioni e sensazioni, mentre la seconda è più premurosa e cauta, terrorizzata dal presentimento che dopo la separazione perderà la sorella. Sono anche le due facce della Campania, una realtà che tenta di reagire alle ingiustizie e alla malavita ma è costantemente intimorita dalla propria volontà di ribellarsi.
Dasy e Viola sono anche le due facce della Campania, una realtà che tenta di reagire alle ingiustizie e alla malavita ma è costantemente intimorita dalla propria volontà di ribellarsi
I luoghi che l’obiettivo di De Angelis mostra trasudano povertà e angoscia: «emerge la disperazione di un territorio devastato e senza più risorse», scrive Silvana Silvestri su Il manifesto, «dove perfino la loro condizione è considerata una vera e propria fortuna lì dove una persona ‘normale’ è destinata a fare la fame». Le lunghe inquadrature sul lungomare di Castel Volturno, a seguire la fuga in scooter delle gemelle, si aprono su scenari spaventosi, zone disabitate dove rifiuti e disordine fanno da padrone, zone portuali fantasma, barche in secca, ragazze che si prostituiscono. Prende forma un quadro sociale sconcertante, nel quale la solitudine e la desolazione trasformano gli uomini in bestie, lo sfruttamento diviene l’unica arma per sopravvivere e dove tutto sembra poter costantemente implodere e degenerare in violenza. Nella prima parte del film il regista concentra il suo occhio sui volti delle ragazze, incorniciando la loro espressività e i loro sorrisi in primi piani, lasciando nella penombra il disagio sociale che le circonda. Sceglie di focalizzare lo sguardo su di loro che per lui rappresentano «il fulcro, il confine di questo racconto». Ma dopo che Dasy e Viola decidono di scappare da casa e allontanarsi dalla famiglia che non le vuole aiutare ma solo sfruttare, il paesaggio che era stato lasciato in secondo piano entra impetuosamente dentro ogni inquadratura.
In Indivisibili c’è spazio anche per il mito – la visita delle gemelle nell’Antro della Sibilla, dove la Sibilla Cumana scriveva i suoi vaticini –, per la superstizione religiosa e per il paesaggio costiero di Castel Volturno. De Angelis crea una potente commistione tra cultura popolare e cinema nazionale, con un forte legame al cinema italiano del passato; evidenti i rimandi alla statua di cristo in marmo bianco dell’incipit de La dolce vita (come già si era visto nel suo film d’esordio Mozzarella Stories). Oppure nella sequenza in cui le due gemelle sono intente a giocare sulla spiaggia nell’ora del tramonto: la sabbia assume una tonalità tanto cupa da ricordare il colore della terra alle pendici del Vesuvio, una suggestione rafforzata dal pulviscolo aleggiante, che ricorda la fuliggine che invade l’aria dopo l’eruzione di un vulcano. Le ragazze vengono riprese mentre camminano su una duna sabbiosa, tramite un forte contrasto di luci si viene a creare un’atmosfera onirica, immersa tra sogno e realtà, con le siamesi che assumono l’aspetto di due angeli in un inferno infuocato. Lo scenario, di grande impatto visivo, non può che far pensare al vulcano partenopeo (preso come icona di napoletanità) e con lui una lunga serie di citazioni cinematografiche che passano dall’episodio di Martone ne I vesuviani, a Per amor vostro di Gaudino, fino a Stromboli di Rossellini.
Nei lavori di De Angelis si percepisce una continuità, una sorta di cordone ombelicale che tiene assieme i film, nei quali a cambiare sono le vicende mentre i luoghi rimangono immutati. Non è un caso che persino il suo ultimo lavoro, Il vizio della speranza (2018), riparta proprio da lì, da Castel Volturno, da quelle spiagge inquinate e da quel disagio sociale, luoghi maledetti che forse De Angelis preferirebbe dimenticare ma che, come accade ai protagonisti dei suoi film, costantemente lo perturbano e lo seducono.
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