Riscrivere la valanga
Confessioni digitali sotto un video di YouTube, un racconto dal concorso letterario Petrarca.fiv 2023
Questo testo riporta i commenti comparsi sotto il video di una valanga nubiforme prodotta nel sito sperimentale della Vallée de la Sionne, Canton Vallese. Il sito è stato avviato nel 2011 dagli studiosi dell’Istituto SLF per la ricerca sulle nevi.
Perché sto guardando questo video?
Perché ti piacciono le valanghe? Lol
Se non lo sai tu ;)
Superate le tre ore su YouTube guardo qualsiasi cosa.
Ho visto questo filmato sei volte in un mese e non so nemmeno io perché.
Ma chi è che si domanda alle 4 di notte perché sta vedendo un video? E soprattutto chi è che poi lo scrive? XOXO
Uno che non ha niente da fare. Ops :)
Invece ha senso: vi chiedete mai perché fate certe cose, invece di sparare cazzate?
Se il risultato è restare svegli invece di dormire, no.
Perché non ho mai detto a mio padre quello che avrei voluto? Perché non gli ho mai confessato quanto ha potuto farmi male, nonostante il suo amore? Perché ho aspettato così tanto da non potergli più parlare? Ecco, mi sono fatta delle domande. E ora?
Penso di guardarlo perché mi piace, stop.
Io so perché lo sto vedendo. Al liceo suonavo con i miei amici: facevamo un mix strano, basi elettroniche e poesie scritte da noi, registrate con dei microfoni ridicoli. Una cosa fallimentare dal principio, lo sapevamo anche se non ce lo dicevamo. Quando finivamo i pezzi, prendevamo video a caso da YouTube e li lasciavamo scorrere uno dopo l’altro, mentre sotto andavano le nostre canzoni. Potevamo restare incollati al computer fino a notte fonda, mentre ragnatele di fumo si componevano sopra le nostre teste. Questa valanga scendeva al ritmo delle nostre parole, credevamo fosse il destino che ci anticipava il futuro. Ora mi sono trasferito e non vedo più nessuno di loro, ma questa cosa mi manca. Così ogni tanto torno qui, e faccio partire la musica. Assurdo, no?
Questo filmato mi dà l’illusione di riuscire a sparire sotto qualcosa di inevitabile.
Ma lo sapete che è un esperimento, vero?
La valanga mostra la potenza della natura, la sua imprevedibilità. Ho passato molti anni lì sopra, con il soccorso alpino. Alcune volte è andata bene, altre no.
Mio fratello è morto sotto una valanga. Dovevamo andare in escursione insieme, ma io ero rimasto in albergo a dormire, perché la sera avevamo fatto tardi al bar dell’hotel. Lui voleva uscire comunque: era il nostro ultimo giorno di vacanza e chissà quando sarebbe ricapitato. Ma io avevo troppo sonno. Ho ricevuto la notizia dalla tv appesa nella hall dell’albergo, sono stato il primo in famiglia a saperlo. Ho aspettato parecchio prima di avvertire i miei, era come se la gola non mi funzionasse più. Non so quante volte ho visto questo video. Non so quante volte lo rivedrò.
Vorrei sciare ma non ci riesco. È così da quando ero piccolo, una fobia tra decine di altre: con gli anni sono tutte peggiorate. Sono talmente paralizzato dalla paura che mi accada qualcosa che non mi accade più nulla. L’ipotesi della valanga è per me già la valanga.
Ma che sta succedendo?
Io una valanga l’ho vista dal vivo. Ero con il mio ragazzo, sarà stato il 2014 o 2015. Ultimo giorno dell’anno: faceva freddo, il vento pizzicava il naso e il sole rivestiva la vallata di una luce felice. Avevo un tè in mano, lui un caffè. Il nostro fiato si confondeva con le nubi di vapore che salivano dalle tazze. Eravamo seduti a un tavolo di legno, uno di fronte all’altro, davanti alla baita che avevamo preso in affitto per le vacanze: il panorama era migliore delle foto su internet. Stavamo scrivendo una lista dei momenti migliori e peggiori dell’anno. La facciamo sempre, questa cosa. Potrebbe sembrare malinconica ma non lo è, o almeno non è solo quello: si tratta di un modo come un altro per ricordare. Insomma, lui mi stava raccontando di quando uno dei suoi allievi gli aveva confidato che di giocare a basket all’inizio non ne aveva voglia, e veniva solo per fare contenti i suoi, e invece ora non si sarebbe perso un allenamento neanche morto. Poi, nel mezzo della storia, si è interrotto: ho visto le sue palpebre spalancarsi, le pupille oscillare da un angolo all’altro, come se dovessero abbracciare qualcosa di sconfinato. Gli ho domandato cosa stesse accadendo e lui ha indicato oltre le mie spalle. Ho seguito il dito e l’ho vista, una marea luminosa che colava lungo la parete di una montagna lontana. Sarà durato tutto poco meno di trenta secondi. Poi la valanga si è accasciata dentro una specie di bacino, formando una pozza di neve sopra cui il bianco si accumulava. Abbiamo messo quel momento in cima alla lista, entrambi. Questo video mi riporta lì.
Io lo guardo per il buio alla fine (1:04), quando la valanga impatta la camera e la camera vibra sotto il suo peso e poi è il nulla, un nero opaco con due lucine da un lato, una di poco più intensa dell’altra. La morte la immagino così: un luogo scuro dove il corpo trema e, in fondo, due fuochi fanno da guida.
Evidentemente no, non sanno che è un esperimento.
“e se questo labirinto di ghiacci fosse la meta”.
Credo nelle potenzialità della catastrofe, nella liberazione che segue la rovina. Alcune volte l’ho vista arrivarmi addosso, altre l’ho provocata io, tirando un calcio a un blocco di vita ormai freddo. Non è facile attraversare la confusione e saper aspettare la fine. Ma dopo, anche molto tempo dopo, mi sono sempre sentita diversa, rigenerata. C’è qualcosa di miracoloso nel poter ricominciare ogni volta da capo, in un’unica vita.
Questa forza è incontenibile.
Mi trovo in ufficio. Il sole bagna i vetri e la polvere si solleva da pile di fogli ammucchiati su un tavolino basso, ricadendo al suolo come una piccola tempesta di neve. I miei colleghi lavorano al computer con le cuffiette inserite dentro le orecchie, come me. Non sono felice qui dentro. Lo realizzo soltanto in queste pause di tempo, momenti in cui sogno di uscire dalla porta per non tornare più. Poi questo pensiero viene spazzato via da altri brevi compiti inutili. Ritorno alle email e alle cuffiette. Alcune volte immagino che ascoltiamo tutti la stessa canzone, e scriviamo le stesse parole.
Guardo questo video perché voglio vedere tutto.
Questa valanga mi ricorda le nostre discussioni, che nascevano da scosse impercettibili e poi dilagavano, ingrossate da parole che ne nascondevano altre, che confondevano invece di spiegare. Ci ho messo anni a capire che le scosse non sono sempre valanghe, che alcune parole non tradiscono.
Cos’è questa paura che tutto crolli.
Voglio cambiare.
Qualche giorno dopo aver guardato questo video l’ho sognato. Mi trovavo dentro una valanga, non so come ci ero finito ma ero sicuro che sarei morto. Dopo aver gridato a lungo, ho iniziato ad agitare le mani per tirarmi fuori di lì, e ho scoperto di saper nuotarci dentro. Sono sceso a grandi bracciate, l’aria mi scombinava la fronte e ridevo. In fondo, mi aspettava l’oceano.
Sono un geologo, vivevo ai piedi di una montagna simile a questa, in un paesino di duecento abitanti, che triplicavano in alta stagione. Amavo percorrere in solitaria i picchi più elevati, sperimentare l’assenza che si manifesta solo in questo bianco indeterminato. Quando la valanga è venuta giù mi trovavo all’università. Sono rientrato di corsa, il paese era devastato. La neve aveva sfondato le porte e le finestre, aveva aperto gli armadi. All’inizio ho vissuto questa vicenda come un tradimento. Poi con gli anni ho capito, anche se non so ancora spiegarlo.
Amo questa caduta.
C’è questa cosa che mi ha raccontato un mio amico, qualche giorno fa: quando salgono sulla montagna, gli scalatori hanno un percorso segnato, fori e ganci a cui appendersi, che altri scalatori hanno inserito nella roccia prima di loro per indicare la via. È un brutto periodo della mia vita, di quelli senza appigli, non so se rendo l’idea, quando ti sembra di cadere nel vuoto a ogni passo. Una traccia mi farebbe comodo, in questo momento. Non so nemmeno perché l’ho scritto qui. Quante stronzate.
Tu sei la valanga, tu sei la valanga, tu sei la valanga.
Ho una foto senza cornice, poggiata da anni sopra la scrivania. C’è una grande montagna bruna innevata, tipo un pandoro con lo zucchero a velo; ai piedi si allarga un lago ghiacciato, in primo piano io e mia madre sorridiamo nell’obiettivo. Lei ha un giaccone bianco con bottoni beige: stringe un pompon ciliegia nel guanto rosato, forse è la punta di un cappello di lana. Ha i capelli tirati indietro da una fascia nera con i ricami floreali, gli occhiali tartarugati, la pelle screpolata dal sole. Sembra una montagna anche lei. Io indosso una giacca azzurra e degli occhiali con le stecche di colori diversi, una celeste e una viola, e una fascia che non regge i capelli perché li ho tutti sul viso. Il resto del corpo è tagliato dall’inquadratura. Il lago e il mio giaccone sono dipinti della stessa tonalità. Intorno, un semicerchio di abeti ci abbraccia, la natura che accoglie la nostra estasi privata, mia di mia madre e di mio padre, che non si vede perché sta dietro la camera, ma avrà indossato sicuramente una di quelle giacche multicolore che andavano tanto di moda in quegli anni. Me lo immagino anche con un sorriso largo e un occhio strizzato, per mettere bene a fuoco. Nessuno di noi sembra domandarsi se siamo felici perché lo siamo, e nessuno si domanda se lo saremo per lo stesso motivo. Ed è proprio questa fiducia cieca che ci ha permesso di ignorare che la discesa lunghissima dei nostri anni dolci e terribili era appena cominciata, che il lago sarebbe stato presto travolto e la foresta sradicata e la camera fatta a pezzi, che ogni montagna è una valanga in potenza.
Vorrei ripercorrere la mia vita al contrario, questo caotico avanzare delle cose, ritrovare il momento in cui tutto si è frantumato, è esploso, poter guardare quell’attimo all’infinito, e poi capirlo.
Sono convinta che la valanga di sensi di colpa che mi segue da una vita prima o poi mi sommergerà, se non l’ha già fatto. La responsabilità che sento per la morte di mia madre, per non essere stata in grado di aiutarla, per averla lasciata da sola anche se ero sempre con lei. Alcune mattine ancora mi sveglio e non riesco a respirare. So che dovrei essere in grado di perdonarmi, dopo tutti questi anni, di realizzare che non potevo fare altro. Ma è proprio questa impossibilità, questa impotenza, che non riesco a sentire mia.
Mio fratello mi ha consigliato di guardare questo video. Dopo mi ha detto di dare un’occhiata ai commenti qui sotto. Lo sento più vicino e lo ringrazio.
Sono sopravvissuto a una valanga. Stavo sciando e non mi sono accorto di nulla. Ho sentito solo un getto impetuoso, una mano di ghiaccio premere sulla schiena e schiacciarmi al suolo. Sono andato giù per parecchi metri, fino a quando ho sbattuto su un tronco e mi sono fermato. Avevo una gamba fratturata e non riuscivo a muovermi. Sopra di me si stendeva questo lenzuolo bianco e granuloso. Avevo la sensazione di trovarmi dentro la pancia del mondo, che sarei stato custodito lì in eterno. Poi ricordo una lama di luce, un braccio, la percezione intensa di essere stato salvato.
La mia memoria è ricoperta da uno strato uniforme di neve. So che c’è qualcosa di essenziale lì sotto, una storia. Devo solo scavare. Posso farlo.
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Scritto per il concorso Petrarca.fiv 2023 dal tema “Le nostre impronte sul mondo”
Ispirato all’articolo Condividere la propria storia / Amore e solitudine nella sezione commenti di YouTube
Nelle immagini fotogrammi del video della valanga nubiforme filmata nel sito sperimentale della Vallée de la Sionne, nel canton Vallese
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